Traduzione di Filippo Pelucchi.

Revisione di Giordano Milo, pagina originale di Barry Maund.

Versione Inverno 2020 (aggiornata). 

The following is the translation of Barry Maund’s entry on “Color” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy.  The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2020/entries/color/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at <https://plato.stanford.edu/entries/color>. We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

I colori sono interessanti dal punto di vista filosofico per una serie di ragioni. Uno dei motivi più importanti è che il colore solleva seri problemi metafisici sulla natura della realtà fisica e della mente. Tra questi problemi ci sono domande sul fatto che il colore faccia parte di una realtà indipendente dalla mente, e su quale spiegazione possiamo fornire delle esperienze di colore. Questi problemi sono stati, e continuano ad essere, strettamente legati a importanti questioni epistemologiche e semantiche.

 

1. La filosofia del colore

2. Teorie sul colore


1. La filosofia del colore

In questa sezione, prenderemo in esame alcuni problemi cruciali che sorgono nella filosofia del colore, riguardo alla natura dei colori e il modo in cui si inseriscono nella descrizione scientifica del mondo.

1.1 Un problema col colore

Il mondo, per come lo vediamo, è popolato da oggetti colorati. In genere, vediamo il mondo come se disponesse di un ricco arazzo di colori o forme colorate: campi, montagne, oceani, cieli, acconciature, vestiti, frutta, piante, animali, edifici e così via. I colori sono importanti sia per identificare gli oggetti, cioè per localizzarli nello spazio, sia per riconoscerli al suo interno. Così, gran parte della nostra percezione delle cose fisiche implica che identifichiamo gli oggetti in base al loro aspetto, e i colori sono solitamente essenziali per questo scopo. Qualsiasi spiegazione della percezione visiva deve ammettere una teoria dei colori. Dato che la percezione visiva è una delle tipologie più importanti di percezione e quindi della nostra acquisizione di conoscenza del mondo fisico e del nostro ambiente, compreso il nostro corpo, una teoria del colore è doppiamente importante.

Uno dei maggiori problemi con il colore consiste nell’inserire ciò che sembriamo sapere sui colori in ciò che la scienza (non solo la fisica, ma anche la scienza sulla visione dei colori) ci dice sui corpi fisici e sulle loro qualità. È questo problema che storicamente ha portato i principali fisici che hanno riflettuto sul colore a ritenere che gli oggetti fisici in realtà non abbiano i colori che possiedono normalmente in natura. Gli oceani e il cielo non sono blu, come pensiamo ingenuamente. Le mele non sono rosse (né tantomeno verdi). Colori di quel tipo, si crede, non si riescono a inserire nella descrizione fisica del mondo che si è sviluppata dal XVI secolo ad oggi.

Non solo la tradizione scientifica dominante è in conflitto col modo in cui il senso comune comprende il colore, ma anche la tradizione scientifica ha una concezione del colore molto controintuitiva. Per illustrare il punto, ecco la celebre osservazione di David Hume:

Suoni, colori, caldo e freddo, secondo la filosofia moderna non sono qualità negli oggetti, ma percezioni nella mente. (Hume 1738: Bk III, parte I, Sez. 1, [1911: 177]; Bk I, IV, IV, [1911: 216])

I fisici che hanno abbracciato questa teoria includono i seguenti luminari: Galileo, Boyle, Cartesio, Newton, Thomas Young, Maxwell e Hermann von Helmholtz. Maxwell, ad esempio, ha scritto:

Sembra quasi una verità lapalissiana affermare che il colore è una sensazione; e tuttavia Young, riconoscendo con onestà questa verità elementare, avanzò la prima teoria coerente sul colore. (Maxwell 1871: 13 [1970: 75])

Questa combinazione di eliminativismo – l’idea che gli oggetti fisici non hanno colori, almeno in un senso cruciale – e  soggettivismo – l’idea che il colore è una qualità soggettiva – non è solo di interesse storico. È abbracciata da molti esperti e autorità contemporanee sul colore, ad esempio Zeki (1983), Land (1983) e Kuehni (1997). Palmer, uno dei principali psicologi e scienziati cognitivi, scrive:

Le persone credono universalmente che gli oggetti appaiano colorati perché sono colorati, proprio come li esperiamo. Il cielo sembra blu perché è blu, l’erba sembra verde perché è verde e il sangue sembra rosso perché è rosso. Per quanto sorprendente possa sembrare, queste credenze sono fondamentalmente sbagliate. Né gli oggetti, né la luce, sono effettivamente “colorati” nel modo in cui ne facciamo esperienza. Piuttosto, il colore è una proprietà psicologica delle nostre esperienze visive quando guardiamo gli oggetti e le luci, non una loro proprietà fisica. I colori che vediamo si basano sulle proprietà fisiche degli oggetti e della luce che ci portano a vederli come colorati, certo, ma queste proprietà fisiche sono significativamente diverse dai colori che percepiamo. (Palmer 1999: 95)

Questa citazione, tuttavia, deve essere scomposta in parti. Palmer sta ovviamente sfidando le nostre credenze sui colori basate sul senso comune. In particolare, sta negando che gli oggetti e la luce abbiano colori nel senso di “colori-per come-li-esperiamo” (o per come-li-vediamo). Ciò è compatibile col fatto che gli oggetti e la luce hanno colori in altri sensi, ad esempio i colori definiti per scopi scientifici. In secondo luogo, egli sta dicendo che il colore (cioè il colore che esperiamo) è una proprietà psicologica, che a sua volta potrebbe essere interpretata in modi diversi. Di conseguenza, il suo punto di vista è piuttosto complesso (vedi la sezione successiva). Se esaminiamo gli scritti di altri autori nella tradizione scientifica, scopriamo che anche le loro teorie sono complesse. La teoria di Palmer potrebbe essere considerata come una forma di eliminativismo sul colore, ma non si tratta semplicemente di quello.

1.2 Resistere all’eliminativismo / soggettivismo

C’è stata una forte resistenza tra i filosofi, sia alla tendenza eliminativista all’interno della tradizione scientifica, sia al soggettivismo. Una forma assunta da questa resistenza riflette il fatto che ogni componente di questa visione tradizionale è molto sconcertante. Una risposta che si dà di solito è che i nostri termini di colore – rosso, blu, viola, arancione, giallo, verde, marrone, ecc. – sono ordinati, vale a dire che abbiamo paradigmi di colori a cui si applicano i termini di colore: i limoni maturi sono gialli, i pomodori e i rubini sono rossi, e così via. Non abbiamo problemi, in generale, ad apprendere questi termini e a insegnarli tramite definizioni ostensive ai bambini e ad altri. In secondo luogo, è difficile rendere conto dell’affermazione secondo cui i colori sono proprietà di sensazioni o proprietà psicologiche: se sono qualcosa, allora sono proprietà di oggetti materiali e sorgenti di luce. Ciò vale per le pesche, gli smeraldi, il cielo, gli arcobaleni, i bicchieri di vino, i fari e così via.

Si noti, tuttavia, che le cose sono più complesse di quanto suggeriscono le precedenti osservazioni di Hume e Maxwell. Cartesio e Locke, per esempio, pensano che non esistano i colori nel mondo fisico, né i colori per come li intendiamo normalmente e in maniera ingenua. Ma si ritiene ampiamente che questi autori sostenessero una teoria delle qualità secondarie dei colori, vale a dire una teoria secondo cui i colori sono poteri o disposizioni atti a causare esperienze di un certo tipo. È utile cercare di capire questa duplice posizione. Troviamo, ad esempio, questo passaggio nel testo de I Principi della Filosofia di Cartesio: 

È chiaro quindi che quando diciamo di percepire i colori negli oggetti, ciò equivale a dire che abbiamo percepito negli oggetti qualcosa sulla cui natura siamo ignoranti, ma che produce in noi una sensazione molto chiara e vivida, ciò che chiamiamo la “sensazione di colore”. (Cartesio 1644 [1988]: punto 70; si vedano anche i paragrafi 68-70)

Quando dice “ciò equivale a dire”, si intende dire che questo non è ciò che si pensa normalmente. Come spiega in seguito Cartesio, la visione ordinaria commette l’errore di “giudicare che la caratteristica degli oggetti che chiamiamo “colore” sia qualcosa “proprio come il colore nella nostra sensazione”. Tuttavia, Cartesio non conclude che dovremmo fare a meno dei nostri discorsi ordinari. Invece, suggerisce, dovremmo continuare a parlare quotidianamente del colore, ma fornendogli una nuova interpretazione: quando diciamo “X”, allora è come se dicessimo “Y”. Cioè, non dovremmo comprendere le frasi alla lettera, ma piuttosto tradurle in altre frasi più appropriate. Cartesio, qui, segue il principio comune a molti pensatori dell’epoca, il principio del “parlare come il volgo e pensare come i dotti”. Questa proposta è giustificata poiché riconosce che il nostro linguaggio di colore serve a scopi molto utili: la ricostruzione consente al linguaggio di continuare a servire a tali scopi, evitando errori metafisici. Dunque, esiste almeno una risposta parziale all’obiezione di senso comune: la ricostruzione centrale di questa forma di eliminativismo abbraccia un principio che rispetta il nostro linguaggio ordinario.

Ci sono anche complicazioni rispetto alla componente soggettivista della visione tradizionale. Quando filosofi come Cartesio e Locke hanno scritto sulle sensazioni di colore, o sulle idee (sensoriali) di colore, ci sono state diverse interpretazioni di ciò che intendevano con quei termini. L’interpretazione comune è che la  sensazione del rosso sia un’esperienza sensoriale in cui viene presentata una certa qualità soggettiva. In termini moderni, significa dire che le qualità soggettive sono interpretate come qualia, o come qualità di individui sensoriali come sensa o dati sensoriali, o come proprietà fenomeniche. Esiste, tuttavia, un’interpretazione alternativa: una sensazione di colore è un’esperienza sensoriale, che rappresenta qualcosa come se avesse una certa qualità (l’idea che l’esperienza ha un certo contenuto intenzionale). In base a questa seconda interpretazione, la teoria di Cartesio suggerirebbe che la qualità rilevante per cui la nostra esperienza del colore rappresenta gli oggetti (come se avesse quel colore) è quella qualità che non possiede alcun oggetto. Di conseguenza, non sarebbe inappropriato definire la sua teoria come “finzionalista” (anziché “soggettivista”). Questa interpretazione, si noti, accetta i qualia o sensa, ma non si impegna alla loro esistenza. E alcuni studiosi cartesiani negano in particolare che Cartesio si impegnasse all’esistenza dei qualia.

Infine, c’è anche un’altra complicazione. È infatti possibile unire le due teorie in un’unica interpretazione. Vale a dire, la teoria rappresentazionalista non esclude una versione con elementi soggettivisti. Poiché tale teoria consente un tipo di proiettivismo, secondo il quale l’esperienza presenta una qualità sensoriale e rappresenta un oggetto fisico come avente quella qualità. Si dice che l’esperienza “proietta” le qualità sensoriali soggettive sugli oggetti fisici. Un modello di questo tipo sarebbe l’esperienza del dolore: si pensa che quando abbiamo mal di denti, l’esperienza rappresenti il ​​dolore come se fosse presente nel dente. (Questa teoria proiettivista sembra corrispondere al pensiero di Hume, ma in ogni caso si adatta alle moderne teorie proiettiviste.)

Potremmo notare che è comune trovare, in testi autorevoli, definizioni come: “Gli attributi del colore sono attributi delle sensazioni visive, ad esempio tonalità, saturazione e luminosità”; “Tonalità: attributo della percezione del colore denotato dai termini giallo, rosso, blu, verde e così via”; “La luminosità è l’attributo di una sensazione visiva, secondo la quale un dato stimolo visivo appare più o meno intenso”. Esistono molti modi in cui potremmo interpretare queste definizioni:

Gli attributi del colore sono:

  1. Attributi delle sensazioni.
  2. Attributi presenti nelle sensazioni.
  3. Attributi che le sensazioni rappresentano negli oggetti. 

Molti di questi modi di comprendere le definizioni lasciano indeterminato se gli oggetti fisici possiedano effettivamente o meno gli attributi e se essi (che fanno parte del contenuto rappresentazionale delle esperienze) possano avere delle componenti soggettive.

1.3 Il problema del realismo sul colore

Dalla nostra discussione della tradizione scientifica sui colori, è abbastanza chiaro che ci troviamo di fronte a due domande:

  1. Qual è la teoria migliore dei colori-per come-ne-facciamo-esperienza? E dei colori-per come-li-vediamo? E dei colori-per come-ne-parliamo-e-li-pensiamo-normalmente?
  2. Esistono i colori? 

Per ovvie ragioni, queste domande ci presentano quello che potremmo chiamare “il problema del realismo sul colore”. La discussione mostrerà anche che trovare delle risposte può essere un po’ complicato. (Dovremmo anche notare che ci sono complessità associate alla nostra comprensione del realismo, su cui dovremo sorvolare – vedi la voce sul realismo.)

Passiamo a una descrizione più recente del problema. Byrne e Hilbert (2003) affermano, riguardo al problema del realismo sul colore, che “concerne varie proprietà particolarmente salienti che gli oggetti sembrano possedere quando li guardiamo”. A titolo di chiarimento, dicono:

Se qualcuno che vede i colori normalmente osserva un pomodoro in buona luce, esso sembrerà avere una proprietà distintiva, una proprietà che anche le fragole e le ciliegie sembrano possedere, e che chiamiamo “rosso” in italiano. Il problema del realismo sul colore è posto dalle seguenti due domande. Innanzitutto, oggetti come pomodori, fragole e rape possiedono davvero le proprietà distintive che sembrano avere? In secondo luogo, cos’è questa proprietà? (Byrne e Hilbert 2003: 3-4)

Sembra che Byrne e Hilbert usino un’altra espressione – “il colore con cui appaiono le cose” o “il colore che le cose sembrano possedere” – per riprendere le nostre precedenti espressioni, “i colori-per come-li-esperiamo”, “i colori-per come-li-vediamo”. (Come vedremo con ogni espressione, c’è un’ambiguità di cui bisogna occuparsi, ma sembra che la stessa ambiguità si manifesti alla fine per ogni espressione.)

L’uso dell’espressione “colori-per come-li-vediamo” presenta alcuni vantaggi, in quanto mette in risalto alcune importanti caratteristiche dei colori. Il primo vantaggio è che implica che una teoria completa del colore dipenderà da una teoria dell’esperienza percettiva. Date le controversie su questo argomento, è probabile che problemi simili si estenderanno anche al tema del colore. Ad esempio, secondo alcune teorie, i colori-per come-li-vediamo saranno determinate proprietà presentate nell’esperienza. Secondo altre teorie, le cose, una volta rappresentate, possiedono determinate proprietà materiali. Secondo una terza proposta teorica, il proiettivismo sul colore, le qualità presentate nelle esperienze visive sono qualità soggettive, che sono “proiettate” su oggetti materiali: le esperienze rappresentano gli oggetti materiali come se avessero delle qualità soggettive. Queste qualità vengono interpretate dal soggetto percipiente come qualità istanziate sulla superficie degli oggetti materiali (e il soggetto percipiente normalmente non le considera qualità soggettive).

Risolvere la questione dipenderà dalle teorie sul contenuto rappresentazionale (contenuto intenzionale) che le esperienze percettive mobilitano; vedi la voce sul problema della percezione. Alcune letture importanti che approfondiscono queste aree di interesse sono Byrne e Hilbert (Introduzione a 1997), Shoemaker (1994) [1997], Chalmers (2006).

1.4 I colori per come ne parliamo e li pensiamo normalmente

Prima di procedere, c’è un punto importante da chiarire. Byrne e Hilbert, quando caratterizzano il problema del realismo sul colore, focalizzano l’attenzione sull’importanza delle nostre teorie della percezione e sul fatto che forniscano una spiegazione dei colori. C’è un altro aspetto importante nella loro caratterizzazione, sebbene gli autori tendano a minimizzarne l’importanza. Quando Byrne e Hilbert introducono il problema, si danno cura di sottolineare che non riguarda, almeno in prima istanza, il linguaggio o i concetti di colore.

Hardin sembra adottare un approccio diverso, nel suo libro molto influente, Color for Philosophers (1988 [1993]):

Cosa è essenziale per i fenomeni cromatici, e cosa è accidentale? Di cosa possiamo fare a meno con certezza? Piuttosto che impegnarmi a identificare, caratterizzare e poi selezionare tutte le nozioni popolari di colore, dirò quello che ho in mente quando penso e parlo dei colori. In primo luogo, quello che ho in mente sono il rosso e il giallo, il verde e il blu, sebbene io sia anche incline a includere il bianco, il nero e il grigio, e forse a trovare un posto speciale per il marrone. (Hardin 1993: XX)

Il disaccordo, tuttavia, è minore di quanto sembri a prima vista. Quando introducono il problema del realismo sul colore, Byrne e Hilbert affermano:

Se qualcuno che vede i colori normalmente guarda un pomodoro in buona luce, esso sembrerà avere una proprietà distintiva, una proprietà che anche le fragole e le ciliegie sembrano possedere, e che chiamiamo “rosso” in italiano. Il problema del realismo sul colore è posto dalle seguenti due domande. Innanzitutto, oggetti come pomodori, fragole e ravanelli possiedono davvero le proprietà distintive che sembrano avere? In secondo luogo, cos’è questa proprietà? (Byrne e Hilbert 2003: 3-4)

Si noterà che ho recuperato la loro caratterizzazione della proprietà come “quella che chiamiamo “rosso” in italiano”. Il punto è che abbiamo bisogno di questa clausola per identificare la proprietà in questione. Quindi, tra le altre cose, l’indagine è diretta a scoprire la proprietà designata dai nostri termini ordinari di colore, come “rosso”. Quindi, essa non può evitare del tutto i problemi legati al linguaggio e ai concetti di colore. Possiamo ribadire il punto riferendoci al fatto che è comune trovare che le autorità sul colore ne spieghino il suo aspetto centrale, vale a dire la tonalità, nel modo seguente: “Tonalità: attributo della percezione del colore denotato dai termini giallo, rosso, blu, verde e così via” (Kuehni (2005): 187; vedi anche Byrne e Hilbert 1997b: 447, Hardin (1988) [1993: 212]).

La conclusione è che è difficile comprendere come possiamo evitare domande su come vengono utilizzati e compresi normalmente i nostri termini di colore. Un approccio importante per rispondere alle domande è quello a cui ricorre Mark Johnston, in un articolo molto influente (Johnston 1992). In quell’articolo, egli riconosce implicitamente l’esistenza di un insieme di pratiche linguistiche e concettuali che sono alla base di quello che potrebbe essere chiamato “il nostro pensiero ordinario sul colore”. Questo pensiero non intende comprendere il pensiero teorico o la teorizzazione sul colore, o almeno, vuole fare qualcosa in più. Esso comprende il nostro modo di pensare e parlare, che coinvolge il nostro esercizio dei concetti di colore. Johnston si chiede in quali principi debba consistere tale pensiero sul colore, per poter contare come esercizio di quei concetti di colore.

Come David Lewis e Frank Jackson, egli sostiene l’idea che i nostri comuni concetti di colore siano catturati da coloro che hanno padronanza del rispettivo concetto. Johnston afferma che il concetto ordinario di colore è un “concetto cluster” che incorpora un ampio insieme di credenze. Ci sono, sottolinea, molte credenze sul colore alle quali siamo sensibili, credenze che derivano dalla nostra esperienza visiva e dalla nostra tendenza a considerare quell’esperienza in certi modi. Johnston afferma che alcune di queste credenze sono “centrali”, in contrapposizione alle credenze più “periferiche”. Il punto sulle credenze centrali è questo: se tali credenze si rivelassero false, allora avremmo problemi a dire perché lo sono. Saremmo, ad esempio, privi ​​di un argomento, anziché dire che abbiamo cambiato le nostre opinioni su una questione in particolare. Al contrario, le credenze periferiche sono tali che “quando cambiano, stiamo semplicemente cambiando idea su un argomento stabile” (Johnston 1992 [1997: 137]).

Prendendo il giallo canarino come esempio illustrativo, egli scrive che le credenze che devono essere legittimamente inserite in un nucleo di credenze sul giallo canarino includono:

    1. Paradigmi. Alcuni di quelli che consideriamo paradigmi delle cose giallo canarino (ad esempio, alcuni canarini) sono giallo canarino.
    2. Spiegazione. Il fatto che una superficie, un volume, o una sorgente radiante siano giallo canarino a volte spiega causalmente la nostra esperienza visiva delle cose giallo canarino.
    3. Unità. Grazie alla sua natura e a quella di altre determinate tonalità, il giallo canarino ha un suo posto particolare nella rete di relazioni di somiglianza, differenza ed esclusione mostrata da tutta la famiglia delle tonalità.
    4. Disponibilità percettiva. Una credenza giustificata sulla giallità canarino delle cose esterne è possibile sulla mera base della percezione visiva. Cioè, se le cose esterne sono di colore giallo canarino, siamo giustificati a crederlo solo sulla base della percezione visiva e delle nostre credenze, che tipicamente forniscono informazione alla percezione visiva.
    5. Rivelazione. La natura intrinseca del giallo canarino è completamente rivelata da un’esperienza visiva normale di una cosa giallo canarino.

Il giallo canarino è un esempio. Più in generale, per ciascuna proprietà di colore F, le credenze che sono legittimamente inserite nel nucleo delle credenze riguardanti F, includeranno le istanze rilevanti delle credenze da (1) a (5). Johnston prosegue sostenendo che in realtà non esistono proprietà per le quali valgono tutte queste credenze. Di conseguenza, “parlando in maniera del tutto inclusiva”, il mondo non è colorato. Tuttavia, sostiene Johnston, “parlando in modo più o meno inclusivo”, il mondo è colorato, perché esistono proprietà che rendono abbastanza vere queste credenze, tanto da meritare di essere chiamate “colori”. Johnston passa poi a difendere l’idea che i candidati più vicini ai vari colori siano le proprietà disposizionali, ossia le disposizioni delle cose a sembrare gialle, a sembrare blu, ecc. L’elemento nella lista che causa i maggiori problemi è l’elemento (5), ossia la teoria della Rivelazione. Eliminare questo elemento dalla lista, pensa Johnston, è un prezzo che vale la pena pagare, per preservare l’affermazione secondo cui i colori esistono realmente.

Ovviamente, è importante stabilire se la lista sia precisa o completa. Per procedere oltre con la questione, tuttavia, bisogna rispondere a una domanda preliminare: quali sono i criteri per includere qualcosa nella lista? Di chi dovrebbero essere le credenze? In apparenza, si tratta delle credenze di coloro che padroneggiano i concetti di colore, cioè, la maggior parte delle persone comuni che non possiede una conoscenza scientifica accurata. Questa è certamente l’idea di Lewis e Jackson, che usano il termine “concetto popolare” in riferimento al concetto ordinario e che, inoltre, ritengono che possedere il concetto implichi avere una teoria, ad esempio, una teoria popolare sul colore, vale a dire un insieme di credenze o luoghi comuni sul colore.

Tuttavia, quando esaminiamo gli elementi della lista di Johnston, sembra difficile mantenere questa teoria sullo stato dei vari elementi. Consideriamo l’elemento (5), Rivelazione. Qualunque sia il suo statuto, non sembra una credenza popolare. Sembra più qualcosa che potrebbe inventare un filosofo. In secondo luogo, sembra avere uno statuto particolare. Si pensa che le esperienze di colore siano sufficienti per informarci sulla natura del colore. Che sia vero o che si tratti di una credenza popolare, è comunque difficile stabilire che bisogno c’è degli altri elementi nella lista. Forse, però, formulare la teoria in questo modo è fuorviante e si può cercare una formulazione migliore. Una possibilità è che la teoria debba essere interpretata come se affrontasse certe condizioni necessarie, piuttosto che tutte le condizioni necessarie, o tutte le condizioni necessarie e sufficienti. Questo punto è importante, poiché esiste un gruppo di filosofi che abbracciano il primitivismo e/o il realismo ingenuo, i quali sembrano favorire un principio che differisce dalla formulazione di Johnston (vedi la sezione 2.1).

Ma concentriamoci sull’elemento (3), che Johnston indica col nome Unità. Ciò che intende dire è che i vari colori possono essere ordinati sistematicamente, in una matrice strutturata e che si basa sul sistema di relazioni di somiglianza, differenza ed esclusione che vige tra i colori. Si dice che il colore “giallo” ha un posto unico in questa matrice. Johnston spiega il principio in modo più dettagliato:

Pensiamo alle relazioni esemplificate lungo gli assi di tonalità, saturazione e luminosità nel cosiddetto solido di colore. Il solido di colore cattura i fatti centrali sui colori, ad esempio, che quel giallo canarino non è così simile alle sfumature del blu rispetto a quanto sono simili tra loro. Dunque, quel giallo canarino non è una tonalità di blu. (Johnston (1992) [1997: 138])

Non c’è dubbio che questo sia un principio importante, che gioca un ruolo centrale nel ragionamento di molti filosofi che hanno scritto sul colore, ad esempio, Wittgenstein (1977), Harrison (1973), Hardin (1988), Thompson (1995), Maund (1995). È considerato come un elemento importante che le teorie fisicaliste-realiste del colore devono spiegare e che hanno problemi a spiegare. Tuttavia, qualunque sia lo statuto di questo principio, non è una credenza popolare (e pochi degli ultimi autori qui citati affermano che lo sia). Non è nemmeno plausibile che sia una credenza tacita. Ad esempio, non sembra una credenza che sia necessario possedere dei concetti per padroneggiare i concetti di colore e, in particolare, il concetto di giallo. È sicuramente una credenza piuttosto sofisticata, che richiede una notevole esperienza con i colori. Per prima cosa, le dimensioni menzionate da Johnston – tonalità, saturazione e luminosità – si applicano ai colori d’apertura o ai colori da pellicola, di cui pochi sarebbero a conoscenza, e non ai colori di superficie. I colori d’apertura sono i colori percepiti attraverso una speciale modalità visiva: si vedono gli oggetti o le sorgenti luminose attraverso una piccola apertura in uno schermo (di un colore acromatico). L’aspetto di questi colori è diverso da quello dei colori visti in circostanze più usuali. I “colori di superficie” sono i colori dei campioni illuminati visti in condizioni in cui è possibile per lo spettatore distinguere il colore della superficie da quello della luce ambientale. Infatti, per i colori di superficie, esistono due tipi di dimensioni: tonalità, saturazione e luminosità (il sistema Munsell) e tonalità, cromaticità e bianco/nero (il sistema svedese Natural Color System, NCS). Tuttavia, l’Unità (o un insieme di Unità) è un principio importante e ha qualcosa a che fare con i nostri concetti di colore. Wittgenstein, ad esempio, pensava che fosse fondamentale affinché possediamo i concetti di colore che abbiamo, ma dice che “non vogliamo trovare una teoria del colore […] ma piuttosto la logica dei concetti di colore” (Wittgenstein 1977: 43e). (Stiamo toccando questioni profonde della metodologia filosofica, di cui non ci occuperemo qui; vedi la voce sull’analisi, che discute in modo interessante l’analisi di Jackson sul colore.)

C’è un’altra spiegazione del perché i principi da (1) a (5) di Johnston sono importanti, oltre al fatto che sono credenze popolari. È più plausibile considerarli come elementi di conoscenza: ossia come fatti o verità, che sono facilmente accessibili a qualcuno che possiede i concetti rilevanti. Ad esempio, una volta che abbiamo buona padronanza dei nomi dei colori e siamo competenti nell’esercizio dei concetti di colore, siamo allora in grado di venire a sapere che l’Unità vale per i colori. Non lo scopriremo, tuttavia, finché non avremo familiarità con una vasta gamma di colori e non potremo vedere i vari colori ordinati in matrici adeguate. Ciò vale anche per gli altri elementi nella lista di Johnston, ad esempio (5), la Rivelazione. Infatti, se guardiamo l’elemento (1) nell’elenco di Johnston, l’elemento che egli chiama Paradigmi, esso afferma esplicitamente un fatto del genere: afferma che esistono paradigmi di giallo canarino, ossia cose che sono di colore giallo canarino.

Queste considerazioni non sono banali, perché quando esaminiamo gli esempi che forniscono Lewis e Jackson sui vincoli rilevanti sul colore, scopriamo che funzionano come elementi di conoscenza, piuttosto che come mere credenze. In effetti, Lewis si riferisce spesso alle credenze popolari come elementi di “conoscenza comune” (Lewis 1997). Nel caso di Jackson, consideriamo quello che dice riguardo a ciò che chiama “la prima intuizione sul colore” (1998: 88): “rosso” denota la proprietà di un oggetto presumibilmente presente nell’esperienza visiva quando quell’oggetto sembra rosso. Egli lo chiama anche “una banalità determinata dal soggetto per il termine ‘”rosso” “. (1998: 89). Ciò che è particolarmente interessante è ciò che Jackson fa con questa “prima intuizione”. Dice che sembra banale, ma è un punto chiave perché ci permette di dire

qualcosa di importante sulla metafisica del colore, quando lo combiniamo con teorie plausibili su ciò che è necessario affinché un’esperienza presenti una proprietà: una condizione necessaria affinché l’esperienza E presenti la proprietà P è che ci sia una connessione causale in casi normali. (Jackson 1998: 89)

Vale a dire, nel sostenere una conclusione metafisica sostanziale – cioè, che il colore è una certa proprietà microfisica – Jackson combina il risultato delle sue intuizioni (che afferma di condividere con la “gente”) con un certo frammento di conoscenza.

Un modo utile di pensare alla metodologia per la filosofia del colore è quello fornito da Hilbert in uno dei suoi primi lavori:

[La] questione dell’oggettività del colore è alla fine di natura concettuale. Per risolvere la questione, dobbiamo scoprire quale modo di concettualizzare il colore ci consente di spiegare sia le intuizioni pre-teoriche sul ​​colore, sia l’ampia gamma di fenomeni cromatici a noi noti. (Hilbert 1987: 16)

Questa visione sembra accomoda una versione modificata dell’approccio di Johnston. Permette anche che un teorico possa difendere una teoria del colore rifiutando alcune delle “intuizioni pre-riflessive”, mentre spiega perché si possano sostenere tali intuizioni. Un lavoro recente che affronta alcuni di questi problemi è Adams (2016). Adams sostiene che il dibattito moderno tra alcuni eliminativisti sul colore e i disposizionalisti sul colore di Oxford è influenzato dal fatto che i membri di ciascuno schieramento sono guidati da diverse intuizioni sul colore, intuizioni che hanno fonti storiche. Non è necessario essere d’accordo con Adams per capire che ciò solleva un serio problema di riflessione sulla metafisica del colore.

Le domande sollevate in questa sezione riguardano questioni complesse di metodologia filosofica, su cui c’è molta controversia in età contemporanea. Nessuna breve discussione su queste questioni può sperare di essere esaustiva. Diversi filosofi hanno visioni completamente diverse sia sulla natura dell’analisi concettuale, sia sul suo significato. Parte dello scopo di questa sezione era far emergere che la pratica di diversi gruppi di filosofi è più vicina di quanto ci si aspetterebbe, rispetto a quelle che sono le loro opinioni ufficiali.

1.5 Esperienze di colore: carattere fenomenico e contenuto intenzionale

Una delle questioni più importanti che deve affrontare la filosofia del colore riguarda il carattere fenomenico delle esperienze cromatiche. Questo problema, a sua volta, solleva domande generali sul fatto che le esperienze abbiano un contenuto rappresentazionale e, se ce l’hanno, di che tipo si tratti, e se ci siano aspetti non-intenzionali nel loro carattere fenomenico. La questione del carattere fenomenico è correlata a quale spiegazione una teoria possa fornire (o richiedere) su che cosa significhi che qualcosa sembra di un certo colore: sembrare blu, giallo, rosso e così via. Questa nozione gioca un ruolo centrale nella maggior parte delle spiegazioni, sia quando si cerca di spiegare cosa sia il colore, sia nel sollevare problemi che la teoria stessa deve risolvere.

L’esempio più famoso è la versione più comune della teoria disposizionalista: per qualcosa, essere giallo significa essere tale da sembrare giallo, negli osservatori normali, in condizioni standard (McGinn 1983; Johnston 1992 [1997]; Levin 2000). Un altro esempio è la teoria relazionale di Jonathan Cohen (2009) e Edward Averill (1992), secondo cui i colori sono proprietà relazionali, definite in termini di capacità dell’oggetto di sembrare in un certo modo, in circostanze definite sulla base del contesto, a osservatori anch’essi definiti in base al contesto.

Ma la nozione gioca un ruolo centrale anche nelle teorie di oggettivisti fisicalisti come McLaughlin (2003) e Jackson (1998). Secondo McLaughlin, i colori “occupano un certo ruolo-descrizione funzionale” (2003: 479), dove il ruolo funzionale è specificato in base al modo in cui appaiono le cose, che è specifico dei colori. Jackson fa un uso cruciale di quella che chiama “l’intuizione principale sul colore”: l’intuizione principale è semplicemente che il rosso è la proprietà che gli oggetti sembrano avere quando appaiono come rossi (Jackson 1998: 89). Infine, sia Byrne e Hilbert 2003 che Boghossian e Velleman 1991 [1997] caratterizzano la disputa tra realisti e non-realisti sul colore come riguardante “certe proprietà che gli oggetti  sembrano [cioè, paiono ] possedere visivamente” (Boghossian e Velleman 1991 [1997: 117]). Come hanno detto Boghossian e Velleman,

ciò che i filosofi vogliono sapere è se le proprietà che gli oggetti sembrano avere siano tra quelle che generalmente si ritiene possiedano in realtà. (Boghossian e Velleman 1991 [1997: 106])

La centralità di questa nozione solleva la questione di cosa significhi esattamente che qualcosa sembra blu, giallo, rosa, ecc. Sfortunatamente, nonostante la sua apparente semplicità, tale questione non è di facile risoluzione. È normale che i teorici facciano affidamento su quello che viene chiamato “l’uso fenomenologico” di “sembra F”, dove questo uso può essere distinto dall’uso percettivo-epistemico (ed epistemico) e degli usi comparativi della stessa frase. Tuttavia, teorici diversi considerano l’uso fenomenologico in modi diversi. Per alcuni, esso è connesso all’idea che l’esperienza o lo stato esperienziale abbia un contenuto rappresentazionale, mentre altri ritengono che si riferisca ad aspetti non-intenzionali dell’esperienza. E tra coloro che lo collegano al contenuto rappresentazionale, ci sono alcuni che ritengono che il contenuto sia concettuale e altri invece che sia non-concettuale. Infine, non è affatto insolito che alcuni teorici ritengano che le esperienze abbiano due aspetti, cioè caratteristiche non-intenzionali e intenzionali, e/o aspetti concettuali e non-concettuali, e che “sembrare giallo”, diciamo, possa essere utilizzato in diverse occasioni per riferirsi a questi diversi aspetti. (Per ulteriori discussioni, vedi Shoemaker 1994 [1997], Chalmers 2006, Glüer 2012, e la voce sul problema della percezione. 

Il modo più comune per pensare a “sembra blu” è pensare che la frase abbia una struttura semantica, dove “blu” ha il suo senso abituale. Questo uso, che si trova nella pratica comune, si può confrontare con un senso destrutturato di “sembra-blu”, in cui il termine “blu” non contribuisce allo stesso modo. Nel dire che X sembra blu in questo senso di solito si intende che X causa un certo tipo di esperienza (o un tipo di stato visivo), il quale non è definito in riferimento alla proprietà di essere blu, e la cui occorrenza non richiede che il soggetto abbia il concetto di “essere blu”. È spesso pensato in questi termini: per X, sembrare-blu a S significa che X induce in S un’apparenza di blu – o semplicemente significa “sembrare”. (Per ulteriori discussioni, vedi Chisholm 1966: 95–99, Cornman 1975: 73-77.) Questo uso di “sembra” è solitamente introdotto dai filosofi per scopi teorici, sebbene alcuni sostengano che sia implicito nell’uso ordinario di “sembra blu”, “sembra quadrato”, ecc.

Sfortunatamente, c’è più di un modo in cui i filosofi intendono l’uso strutturato apparentemente innocuo. Molti filosofi ritengono ovvio che per qualcosa sembrare blu significa essere rappresentato come blu, e che è perfettamente comprensibile che possa sembrare blu a me senza che io creda, o sia anche solo incline a credere, che sia blu, ad esempio Jackson (2000), (2007). L’affermazione è che per X sembrare blu significa causare un’esperienza visiva o uno stato visivo che rappresenta l’oggetto come blu. Inoltre, pensare in questi termini rappresentazionali spiega perché alcune percezioni sono veridiche e altre non-veridiche. Nei casi veridici, la rappresentazione è accurata – le cose sono come sono rappresentate in essere – nell’altro caso, non lo è.

Negli ultimi tempi, tuttavia, è emersa una posizione minoritaria che ha acquistato sempre più popolarità e che sfida questa visione. Martin (2002) è stato il più influente, ma ce ne sono molti altri: Snowdon (1981), Hacker (1987), McDowell (1994), Travis (2004). Come sottolinea Martin, sia la teoria nota come realismo ingenuo, sia la teoria disgiuntivista delle esperienze percettive, intendono in una maniera diversa “sembra F”. Secondo il disgiuntivista, non dobbiamo considerare le esperienze veridiche e quelle non-veridiche come di tipo uniforme: possono essere soggettivamente indistinguibili, ma di natura diversa (vedi la voce sulla teoria disgiuntivista della percezione). Secondo questa teoria, nel caso della percezione veridica, non abbiamo un’esperienza che rappresenta un oggetto come  se avesse colori, forma, dimensione, ecc. Invece, dovremmo pensare a queste qualità come presentate al soggetto percipiente quando ha un’esperienza. Secondo il realismo ingenuo, “sembra blu” è ancora strutturato: la proprietà di essere blu è presentata nell’esperienza. Questo problema è particolarmente importante per una teoria del colore, poiché un modo di spiegare la teoria primitivista è collegarla al realismo ingenuo sul colore (vedi la sezione 2.1) Si potrebbe difendere la teoria primitivista e affermare allo stesso tempo che le proprietà primitive fanno parte del contenuto rappresentazionale.

C’è un’ulteriore complicazione. Di quei filosofi che pensano che le esperienze visive possiedano un contenuto rappresentazionale, alcuni, come Jackson, lo fanno all’interno di un framework in cui il contenuto è concettuale, mentre altri come Tye, Byrne e Hilbert lo considerano non-concettuale. Inoltre, ce ne sono altri ancora, come Peacocke (1984/1997), che sostengono che esistono due aspetti distinti delle esperienze di colore, uno non-concettuale, l’altro concettuale. Peacocke difende una teoria in cui “sembra rosso” è limitato al senso concettuale e rappresentazionale. Secondo questa proposta, dobbiamo distinguere tra due aspetti dell’esperienza visiva: quando S vede un oggetto rosso, e quando gli sembra rosso. In base a (1), una proprietà sensoriale rossa* viene presentata a S, in una regione del suo campo visivo; in base a (2), S è in (o ha) uno stato che rappresenta, concettualmente, che, per S, X (o almeno qualcosa) è rosso.

1.6 Teorie rivali sul colore

Ci sono due questioni riguardanti il ​​realismo sul colore: (1) Che tipo di proprietà sono i colori? (2) Gli oggetti possiedono davvero queste proprietà? Rispetto alla prima domanda, c’è una profonda divisione tra i diversi realisti sul colore (così come tra loro e gli eliminativisti). Dopo aver stabilito le opinioni dei principali realisti ed eliminativisti, segue una lista delle teorie rivali più note:

  1. I colori sono proprietà “primitive” – ​​proprietà semplici, sui generis, qualitative, che i corpi fisici possiedono o sembrano possedere: primitivismo.
  2. I colori sono proprietà “nascoste” dei corpi: proprietà fisiche complesse che consentono ai corpi di sembrare blu, rosa, giallo, ecc.: fisicalismo riduzionista.
  3. I colori sono proprietà disposizionali dipendenti dal soggetto percipiente – capacità di apparire in modi distintivi ai soggetti percipienti appropriati, in circostanze appropriate: disposizionalismo.
  4. I colori sono qualità soggettive “proiettate” su oggetti fisici e sorgenti di luce, qualità con cui le esperienze visive rappresentano gli oggetti: proiettivismo.
  5. I colori sono qualità soggettive: qualità presentate nell’esperienza o qualità dell’esperienza: soggettivismo.
  6. I colori sono proprietà “ibride”: fisiche e fenomenologiche.

Nota:

  1. Le teorie del punto 3 sono teorie relazionali del colore. Storicamente, sono state interprete in termini di osservatori normali/standard e in condizioni di visione normale. Recentemente sono state sviluppate versioni della teoria che allentano questi requisiti.
  2. Questa tassonomia è una prima approssimazione. Alcuni teorici sostengono che esiste più di un tipo di colore: questi sono i cosiddetti “teorici del doppio riferimento” [dual referent theorists], ad esempio Cartesio (1644), D. H. Brown (2006).
  3. Le teorie soggettiviste si presentano in diverse forme: (a) soggettivismo dualista, secondo il quale le qualità soggettive sono irriducibili alle proprietà fisiche; (b) teorie soggettiviste che accettano la possibilità che le qualità soggettive siano identiche alle proprietà fisiche, ad esempio quelle cerebrali. 

Per ulteriori dettagli, vedi il documento supplementare su Color Science: Some Complexities.

 

2. Teorie sul colore

In una sezione precedente, la 1.6, abbiamo presentato le principali teorie rivali sul colore. Esse includono tipologie di realismo ed eliminativismo / finzionalismo sul colore. In questa sezione, prenderemo in esame specifiche versioni di queste teorie. Molte delle questioni generali che sono state affrontate saranno riprese più avanti nella nostra discussione.

2.1 Primitivismo: la teoria oggettivista semplice dei colori

Una delle teorie più importanti afferma che il colore è una proprietà oggettiva, cioè intrinseca e indipendente dalla mente, posseduta da molti oggetti materiali (di diverso tipo) e dalle sorgenti luminose. (Per “oggettiva” intendo “ontologicamente oggettiva”, cioè indipendente dalla mente – vedi Searle 2015: 16.) Questa teoria, chiamata oggettivismo sul colore, assume tuttavia forme diverse. Una delle tante è che i colori sono qualità semplici, che mostrano la loro natura sulla loro superficie: sono proprietà sui generis, semplici, qualitative, sensibili, intrinseche, irriducibili. Questa teoria è diventata nota col nome di “primitivismo sul colore”. Un’altra forma comune è che i colori sono oggettivi (indipendenti dalla mente), proprietà dei corpi materiali e delle sorgenti luminose, la cui natura ci è “nascosta” e richiede un’indagine empirica per scoprirla. Userò il termine “fisicalismo riduzionista sul colore” per riferirmi a questa posizione.

Il primitivismo sul colore si presenta in due forme: una versione realista ed una eliminativista. Il realismo primitivista sul colore è l’idea che in natura esistono i colori, per come sono comunemente intesi, nel senso che sono semplici proprietà intrinseche, non-relazionali, irriducibili, qualitative. Sono caratteristiche qualitative che stanno nelle relazioni caratteristiche di somiglianza e differenza che contraddistinguono i colori; non sono proprietà microstrutturali o riflettanze, né niente del genere. Non esiste illusione, sbaglio o errore radicale nella percezione del colore, ma solo illusioni banali: percepiamo degi oggetti che possiedono realmente quei colori. Questa teoria è stata presentata da Hacker (1987) e da J. Campbell (1994, 2005) ed è diventata sempre più popolare: vedi McGinn (1996); Watkins (2005); Gert (2006, 2008). Questa teoria è talvolta chiamata “teoria semplice sul colore” e altre volte “realismo ingenuo sul colore”. Il realismo primitivista sul colore afferma una tesi concettuale (e semantica) sulla nostra comprensione ordinaria del colore e una tesi metafisica, vale a dire che i corpi fisici possiedono effettivamente colori di un certo tipo. È possibile accettare la tesi concettuale, ma negare la tesi metafisica. Questo porta ad una forma eliminativista di primitivismo sul colore.

Una delle principali critiche al primitivismo sostiene che gli argomenti a suo favore dipendono da una forma discutibile di Rivelazione (vedi Byrne & Hilbert 2007a, per un’espressione di questa critica, tra una serie di altre obiezioni). In risposta, molti autori sostengono che la forma di Rivelazione esposta da Johnston è troppo forte, e che esiste una forma più moderata e plausibile della teoria (vedi J. Campbell 2005; Gert 2008; Allen 2011). Vale la pena notare che mentre Johnston e altri citano Bertrand Russell e Galen Strawson come sostenitori di questa teoria, questi due autori in realtà dicono cose molto diverse, quando vengono citati come suoi sostenitori. Russell, ad esempio, pone l’accento sul fatto che il soggetto percipiente conosce direttamente i paradigmi di colore. Il suggerimento implicito nelle versioni ristrette della teoria è che appellarsi alla Rivelazione necessita di qualcosa in più, seppur di poco.

Storicamente, uno dei problemi principali riguarda la possibilità di conciliare il carattere putativo delle caratteristiche intrinseche del colore con quelle che hanno un ruolo causale nelle nostre esperienze di colore. Le proprietà che causano queste esperienze sembrano essere proprietà microstrutturali complesse delle superfici dei corpi (e proprietà simili per vedere i colori del volume, i colori di diffrazione, i colori di dispersione, ecc.). Questo problema viene affrontato da Hacker quando difende  l’affermazione secondo cui i colori sono caratteristiche intrinseche dei corpi fisici. Egli insiste sul fatto che i colori sono proprietà utilizzate per fornire spiegazioni causali. Non c’è alcun motivo per negarlo, dice, così come non c’è alcun motivo per negare le affermazioni sulla solidità e sulla liquidità. La spiegazione non è viziata dalla scoperta che sono coinvolti processi microstrutturali, non più di quanto le spiegazioni sulla solidità e sulla liquidità siano rese superflue dalla scoperta della base microstrutturale di queste proprietà. Una possibile critica a questa analogia sarebbe che, nel caso della solidità e della liquidità, è plausibile analizzare funzionalmente queste proprietà: essere solidi significa avere una struttura che è la base causale di determinati modi di comportarsi. Questo, però, non è il tipo di analisi che richiede il primitivista (vedi anche Campbell 1994).

Il realista primitivista ha bisogno di fornire una spiegazione di come i colori siano correlati alle proprietà fisiche degli oggetti materiali, ad esempio le riflettanze spettrali, che sono necessarie perché possiamo avere delle esperienze cromatiche. Vale a dire, è fondamentale che riescano a fornire una spiegazione a questo proposito. La visione standard che si accetta oggi è che i colori sopravvengono su queste proprietà fisiche. Secondo alcune teorie, i rapporti di sopravvenienza sono nomologici; secondo altre, sono metafisici (anziché logici) – vedi Hacker (1987), Campbell (1994), Yablo (1995), McGinn (1996), Watkins (2005). Appellarsi alla sopravvenienza funziona fino a un certo punto ma, come spesso è stato sottolineato, segna l’inizio di una spiegazione, piuttosto che un’eventuale fine (vedi la voce sulla sopravvenienza). Dobbiamo specificare che tipo di sopravvenienza è chiamata in causa: nomologica, logica o metafisica (e dobbiamo specificare dove e se quest’ultima può essere distinta da quella logica). In secondo luogo, dobbiamo rendere conto di ciò che è alla base della relazione di sopravvenienza. Byrne e Hilbert, in un complesso articolo nello specifico sul primitivismo (2007a), sostengono che appellarsi alla sopravvenienza nomologica e metafisica deve affrontare delle forti obiezioni. 

Un altro grosso problema per la teoria realista del primitivismo sul colore è quello che Hardin (2004, 2008) e Cohen (2009) hanno messo in risalto. Essi richiamano l’attenzione su una vasta gamma di fatti riguardanti la varietà di condizioni in cui gli oggetti sembrano possedere i colori che hanno e la varietà di classi di osservatori ai quali appaiono. Poiché l’unico modo per determinare quale colore primitivista possieda un corpo è attraverso il modo in cui appare, si solleva la questione di quale sia il suo vero colore. I soggetti percipienti normali, ad esempio, si dividono in diversi gruppi a seconda che il colore di un corpo sia, ad esempio, solamente blu, oppure un blu leggermente rossastro, un blu ancora più rossastro o, ancora, un blu verdastro. Cohen e Hardin sostengono che non esiste un modo non-arbitrario per scegliere un gruppo di soggetti percipienti che identifichi il colore “reale”. Al massimo, un gruppo ha ragione, ma non sapremmo indicare quale; per quanto ne sappiamo, nessuno dei gruppi sta identificando il colore reale. Averill (1992) ha presentato un paio di argomenti che dipendono anche dalle difficoltà di cercare di fornire una spiegazione non-arbitraria di osservatori normali e condizioni visive standard. Possiamo facilmente immaginare che i nostri occhi siano soggetti a cambiamenti (e quindi in osservatori normali) o in condizioni di visione standard, in modo tale che alcuni oggetti che prima erano gialli ora appaiono rossi, mentre altri sembrano ancora gialli, pur rimanendo fisicamente immutati. Se si suppone che i colori primitivisti sopravvengano sulle microstrutture fisiche, è difficile capire come potremmo accogliere questo tipo di cambiamento. Una possibile, ma radicale, risposta a questo problema è modificare la posizione realista e sostenere che gli oggetti possono avere più di un colore (anzi, molti colori). Vedi Kalderon (2007) e Mizrahi (2006) per una difesa di quest’idea.

2.2 Fisicalismo riduzionista sul colore

Un’altra forma comune di oggettivismo sul colore afferma che i colori sono oggettivi (cioè indipendenti dalla mente), proprietà dei corpi materiali e delle sorgenti di luce, la cui natura è “nascosta” e richiede un’indagine empirica per scoprirla. Questa teoria è comunemente nota come “realismo fisicalista sul colore”, ma userò l’espressione “fisicalismo riduzionista sul colore” (le proprietà che costituiscono i colori, anche per il primitivismo sul colore, sono “fisiche” nel senso buono del termine).

Forse il primo difensore di questa seconda forma di oggettivismo sul colore fu Thomas Reid, filosofo scozzese del XVIII secolo. Esempi più recenti sono Armstrong (1969); Hilbert (1987); Matthen (1988); Jackson (1996, 1998, 2007); Tye (2000); Byrne & Hilbert (2003); e McLaughlin (2003). Reid riteneva che la gente non pensasse come filosofi quali Hume e Cartesio, mentre altri dicevano di sì. Reid ha scritto che:

Per colore, tutti gli uomini che non sono stati istruiti dalla filosofia moderna comprendono non una sensazione della mente, che non può esistere quando non è percepita, ma una qualità o modificazione dei corpi, che continua ad essere la stessa, sia che la vediamo o meno. (Reid 1764: capitolo 6, sezione 4 [1970: 99])

Sembra che fin qui Reid stia semplicemente mostrando il senso comune per cui è famoso. In modo più controverso, tuttavia, prosegue affermando che quando percepiamo il colore del corpo,

Quell’idea, che abbiamo chiamato apparenza di colore, suggerisce la concezione e la credenza di una qualità sconosciuta nel corpo che dà luogo all’idea, ed è a questa qualità, e non all’idea, che diamo il nome di colore. (Reid 1764: capitolo 6, sezione 4 [1970: 100])

A prima vista, l’idea di Reid sembra controintuitiva. Molti di “quegli uomini non istruiti dalla filosofia moderna” hanno molto da dire sui colori e sarebbero sorpresi se si sapesse che i colori sono qualità sconosciute. Il rosso, ad esempio, è il colore usato da molti partiti rivoluzionari, buono per i tori fastidiosi, il mio colore preferito, il colore delle labbra del mio vero amore e così via. Possiamo fornire paradigmi di blu, rosso, giallo, turchese, malva, ecc. Spesso diciamo cose come “questo è un blu migliore di quest’altro”. Si sospetta che le persone non istruite rimarrebbero sconcertate dall’osservazione che il rosso è una qualità sconosciuta (per ulteriori informazioni su questo punto, vedi Hacker 1987: 186).

L’idea di Reid può essere estrema, ma ci aiuta ad apprezzare il significato del punto di vista di un fisico contemporaneo del colore, McLaughlin, che individua in Reid un anticipatore della sua spiegazione del colore. McLaughlin sostiene esplicitamente l’idea di Reid anche se, in realtà, la sua posizione è leggermente diversa. Egli difende un’analisi funzionalista del colore, secondo la quale un colore, ad esempio la rossezza, occupa un certo ruolo funzionale:

La rossezza è quella proprietà che dispone chi la possiede a sembrare rosso (a soggetti percipienti normali in condizioni standard di osservazione visiva) e che deve, per necessità nomologica, possedere tutto ciò che è disposto in questo modo. (McLaughlin 2003: 479)

McLaughlin aggiunge che la sua proposta intende fornire un’analisi concettuale:

La mia proposta vuole essere un’analisi funzionale o tematica del concetto di rossezza. La descrizione del ruolo “quella proprietà che…” ha lo scopo non solo di fissare il referente del concetto, ma anche di esprimere una condizione necessaria e sufficiente perché lo soddisfi. Pertanto, se la proposta è corretta, tutto ciò che serve perché una proprietà sia rossezza è che ricopra quel ruolo. (McLaughlin 2003: 479)

La proposta di McLaughlin è diversa, in un aspetto cruciale, da quella di Reid. Non afferma esplicitamente che la proprietà, che occupa quel ruolo funzionale, è una proprietà “sconosciuta” all’osservatore. La sua proposta è concepita per essere “topico-neutrale”. Ciò significa che i colori potrebbero essere proprietà fisiche complesse, che possono essere scoperte solo dall’indagine scientifica, oppure potrebbero essere il tipo di proprietà descritte dai primitivisti: proprietà sui generis, semplici, intrinseche, qualitative, non-relazionali, irriducibili, dei corpi fisici. McLaughlin sostiene che l’indagine scientifica rende altamente plausibile l’idea che ciò che occupa quel ruolo sia una proprietà fisica complessa – cioè, che il fisicalismo sul colore sia vero – e che non esista un buon argomento a favore della teoria primitivista.

La proposta topico-neutrale di McLaughlin è una proposta sulla nostra comprensione ordinaria del colore. La maggior parte dei primitivisti accetterebbe questa condizione come condizione che cattura, nel migliore dei casi, solo un elemento di quella comprensione. (Alcuni direbbero che la proposta esprime una verità che possiamo riconoscere, ma che non fa parte della nostra comprensione ordinaria.) Altri elementi, direbbero, escludono le complesse proprietà fisiche indicate da McLaughlin. Un candidato plausibile per uno di questi elementi è la Rivelazione, l’elemento (5) della lista che, come abbiamo visto, Johnston inserisce nel suo “gruppo” di credenze fondamentali sui colori:

5. Rivelazione. La natura intrinseca del giallo canarino è completamente rivelata da un’esperienza visiva normale di una cosa giallo canarino.

Questo spiegherebbe la teoria primitivista del carattere dei colori, come rivelata nella nostra esperienza percettiva. McLaughlin mette in discussione la Rivelazione nel suo argomento. Egli pensa che questa teoria, una volta che ci riflettiamo, abbia poco da dirci. Il fascino intuitivo che ha dipende dal fatto che si può confondere facilmente con un altro principio, che ha altrettanto fascino intuitivo (sebbene sia anch’esso falso). Egli non fornisce un argomento specifico contro la teoria, anche se trae una conclusione che secondo lui tutti noi troveremmo sgradevole:

Tutto ciò che abbiamo appreso, e, in effetti, tutto ciò che possiamo sperare di apprendere mediante l’indagine scientifica, non contribuirà per niente alla nostra conoscenza della natura dei colori stessi. Perché la Rivelazione implica che non c’è niente di più che possiamo imparare sulla natura dei colori di quello che ci insegna l’esperienza visiva. (McLaughlin 2003: 477)

Egli pensa che ci sia un errore fondamentale a impegnarsi nella Rivelazione: l’incapacità di distinguere i colori da ciò che si prova a vederli. La Rivelazione, dice, è più plausibile rispetto al carattere fenomenico delle esperienze di colore – ciò che si prova – sebbene, anche in questo caso, sia falsa.

Uno dei pregi di questa forma di fisicalismo sul colore è che offre una spiegazione plausibile per il fenomeno della costanza di colore, vale a dire il fatto che un oggetto ha una forte tendenza a sembrare dello stesso colore sotto una vasta gamma di illuminazioni. Contro questa affermazione, tuttavia, è stato sostenuto che altre teorie hanno le risorse concettuali per spiegare il fenomeno (nella misura in cui si verifica, per il quale ci sono alcuni limiti – vedi Hardin 1988, Cohen 2009, Chirimuuta 2008).

Un primo problema è “il problema delle realizzabilità multiple”: esiste una vasta gamma di corpi che possiedono colori, come le sorgenti luminose, illuminanti, superfici (ad esempio, di mele, automobili, tessuti, dipinti…), volumi (ad esempio vino, vetro, atmosfere…), corpi che diffondono luce, corpi che diffrangono luce, pellicole e corpi luminescenti. Le cause dei colori che gli oggetti sembrano avere sono molteplici e varie. Per la maggior parte dei teorici, tuttavia, i candidati fisicalisti più plausibili per i colori sono le proprietà legate alla luce, ad esempio le capacità di emettere, riflettere, assorbire, trasmettere o diffondere la luce a vari livelli. Per le superfici fisiche, il colore è considerato correlato al profilo di riflettanza dell’oggetto, ovvero la capacità di riflettere in modo differenziale le lunghezze d’onda da diverse regioni dell’illuminazione incidente. Risulta, tuttavia, che, per ogni colore di superficie, non esiste una singola curva di riflettanza associata a quel colore, ma molte. La situazione è simile al caso dei colori da pellicola o dei colori d’apertura. Vale a dire, per ogni colore esiste una serie di metameri (due stimoli – corpi, sorgenti di luce, ecc. – che differiscono nelle loro caratteristiche fisiche, ma sono abbinati in apparenza sotto una certa illuminazione dallo stesso osservatore, sono metameri per quell’osservatore e sotto quell’illuminazione. Non è necessario che due corpi che sono metameri sotto un’illuminazione siano metameri sotto un’illuminazione diversa o per un osservatore diverso).

La risposta che si preferisce dare a questo problema è, ad esempio, che un dato colore come il rosso non è una specifica riflettanza del colore, ma un tipo di riflettanza, cioè un membro di un certo gruppo. Tuttavia, sussistono ancora dei problemi. Averill (1992, 2005), ad esempio, presenta alcuni argomenti interessanti, che si basano su congetture plausibili su come osservatori normali e condizioni standard potrebbero facilmente cambiare, con un conseguente cambiamento metamerico. Sembra che il fisicalista sul colore debba impegnarsi a un raggruppamento fortemente arbitrario delle riflettanze in vari tipi.

Questo problema è correlato a uno su cui Hardin (1988, 2004) e Cohen (2009) hanno richiamato l’attenzione. Ha a che fare con il problema di identificare, in modo non-arbitrario, condizioni normali e osservatori standard. La spiegazione oggettivista richiede che identifichiamo il colore “reale” per l’oggetto X con una certa base causale (ad esempio, il profilo di riflettanza) in base al modo in cui appare a osservatori normali e in condizioni standard. Il problema è che, come Hardin (in particolare nel suo lavoro del 2004) ha fatto notare in modo convincente, ciò non può essere fatto se non in modo fortemente arbitrario. Non solo c’è una minoranza di soggetti percipienti che sono anomali (solo leggermente, ma di cui bisogna tenere conto) rispetto agli osservatori normali, ma c’è anche una notevole diffusione statistica all’interno del gruppo di osservatori normali. Ad esempio, il profilo di riflettanza per il verde unico sarà diverso per i diversi membri del “gruppo normale”. Si può decidere, ovviamente, uno standard e fissare un profilo di riflettanza come verde, ma la procedura rimane fortemente arbitraria. Come abbiamo visto, esistono pochi poteri causali rilevanti che sono associati ai colori, a parte il modo in cui gli oggetti influenzano i soggetti percipienti. (Questo argomento ha portato a un acceso dibattito nelle pagine di Analysis, vedi Byrne & Hilbert 2007b; Cohen, Hardin & McLaughlin 2006a, b, e Tye 2006a, b, 2007.)

Per risolvere questo problema, McLaughlin suggerisce di estendere una proposta, avanzata originariamente da Jackson e Pargetter (1987) per superare il problema delle realizzabilità multiple. Questi autori hanno proposto di relativizzare il concetto di colore, a tipi di oggetti e circostanze. McLaughlin suggerisce che potremmo estendere il concetto oggettivista di colore, relativizzandolo ai singoli osservatori.

Un’altra forte obiezione al fisicalismo riduzionista sul colore  è se le proprietà possono soddisfare il principio dell’Unità descritto da Johnston, (vedi la sezione 1.4). Questo principio indica il fatto che i vari colori sono i tipi di proprietà che si combinano in modi caratteristici per formare matrici di colori strutturate, con un carattere tridimensionale distintivo, costruito su attributi come tonalità/saturazione/luminosità (o tonalità, cromaticità, e sfumatura). Il principio di Unità sembrerebbe rappresentare un serio problema per un fisicalista sul colore (vedi Hardin 1988; Thompson 1995; Maund 1995, 2011). Come ammette McLaughlin, il problema è che

nessuna proprietà fisica, che sia anche lontanamente una possibile candidata plausibile, partecipa essenzialmente a questi modelli di relazione. (McLaughlin 2003: 487)

La sua soluzione al problema è che le affermazioni comparative, ad esempio quelle sul rosso, l’arancione e il blu – come “l’arancione è più simile al rosso che al blu” – sono vere in virtù di un fatto comparativo sulle esperienze visive in questione.

I colori stessi partecipano alle relazioni di somiglianza e differenza per derivazione, in virtù della partecipazione delle esperienze visive, le quali li dispongono ad essere prodotti da ciò che li possiede. (McLaughlin 2003: 487)

Affermare ciò significa sostenere che qualcosa che sembra rosso è più simile a qualcosa che sembra arancione, rispetto a qualcosa che sembra blu. Questa soluzione, tuttavia, solleva la questione di quali caratteristiche dell’esperienza siano rilevanti, cioè quali siano le caratteristiche che stanno nelle relazioni di somiglianza e differenza. Sembrano esserci due possibilità: (i) o queste sono caratteristiche delle esperienze stesse; (ii) oppure sono caratteristiche presentate nell’esperienza o rappresentate in esse, cioè sono caratteristiche di regioni di campi visivi, o di sensa, o di oggetti materiali. Prima facie, sembra che da ciò derivino alcuni problemi. Se accettiamo la prima possibilità, le nostre esperienze di colore comportano un errore enorme. I giudizi di somiglianza e differenza vengono applicati ai colori e non alle nostre esperienze. Se si accetta la seconda possibilità, se si ritiene cioè che esistano caratteristiche del genere, presentate o rappresentate nell’esperienza, allora esse stanno nelle relazioni di somiglianza e differenza. Queste caratteristiche sono diverse dalle riflettanze, quindi il fisicalista sul colore deve dire in che cosa consistono.

Tye, Byrne e Hilbert hanno proposto una soluzione a quest’ultimo problema, che dipende dall’utilizzo del modello, ideato dai loro oppositori, di visione dei colori (vedi la sezione Supplement Color Science: Some Complexities). Si tratta di specificare i gruppi rilevanti di riflettanze spettrali, associati a ciascun colore, in termini di capacità di produrre risposte adeguate da parte del sistema visivo. L’argomento di Byrne e Hilbert si articola in due momenti: (1) si sostiene che una caratteristica dell’esperienza di colore è il fatto che possiede un certo contenuto rappresentazionale: essa rappresenta gli oggetti come se avessero quelle che Byrne e Hilbert chiamano “magnitudini di tonalità” [hue magnitudes]; (2) le magnitudini di tonalità sono spiegate attraverso determinate proprietà fisiche. Come essi sostengono, se possiamo spiegare coerentemente come le grandezze contribuiscano al contenuto rappresentazionale, allora possiamo spiegare le relazioni di somiglianza tra le tonalità e la distinzione tra binaria / unica in termini di contenuto dell’esperienza di colore.

Questa proposta, a sua volta, è stata oggetto di critiche da parte di diversi autori, ad esempio Hardin (2003), Pautz (2006), Maund (2011) e Allen (2015).

2.3 Eliminativismo / irrealismo / finzionalismo sul colore

Esiste poi un insieme di teorie sul colore che rientrano in una o tutte le categorie qui presentate: irrealismo, eliminativismo e finzionalismo sul colore. Queste espressioni sono un po’ fuorvianti, poiché alcuni teorici parlano anche di colori intesi come disposizioni a causare esperienze di un tipo caratteristico e/o come attributi nelle/delle sensazioni. Seguendo la nostra precedente discussione nella sezione 1.2, possiamo ritenere che ciò che l’eliminativista sul colore sta negando è che gli oggetti materiali e la luce abbiano colori di un certo tipo: colori che pensiamo possiedano i corpi normalmente e senza rifletterci su. Vale a dire, queste teorie generalmente si impegnano a una “teoria dell’errore” dell’esperienza visiva del colore. In effetti, queste teorie vengono spesso definite “teorie dell’errore” sul colore. Difensori contemporanei di spicco delle varianti di questa teoria sono Hardin (1988), Boghossian & Velleman (1989), Averill (2005) e Maund (1995, 2006, 2011). I primi suoi sostenitori furono Galileo, Cartesio, Locke e altri.

L’argomento più generale a favore dell’eliminativismo / irrealismo sul colore è indirizzato alla concezione ordinaria del colore (e all’uso di termini ordinari per il colore). L’argomento, in breve, è che il primitivista ha ragione riguardo al tipo di proprietà che sono i colori: proprietà intrinseche, tipicamente possedute dalle superfici dei corpi materiali. Solo che i corpi materiali in realtà non li hanno. Dunque, ci sono due passaggi cruciali nell’argomento a favore dell’irrealismo / eliminativismo sul colore: il primo è sostenere che i corpi non hanno effettivamente il tipo di colori descritti dal primitivismo; il secondo è discutere contro il fisicalismo riduzionista e il disposizionalismo sul colore. Il secondo passaggio comporta che queste teorie siano inadeguate da un punto di vista fenomenologico, e che allo stesso modo non riescano a spiegare una gamma di fenomeni cromatici. 

Né le proprietà postulate dal primitivista, né quelle postulate dal fisicalista sul colore, sostiene questo argomento, possono soddisfare tutti i vincoli richiesti affinché si possa parlare di colori. Come abbiamo visto nelle ultime due sezioni, entrambe le teorie hanno una risposta a questa obiezione. Il dibattito tra gli eliminativisti sul colore e i loro avversari dipenderà quindi dalla plausibilità di tali risposte e contro-risposte (vedi le sezioni precedenti 2.1 e 2.2). Per quanto riguarda il realismo primitivista, una questione centrale è questa: la difesa di questa posizione, a quanto pare, dovrebbe appellarsi a qualche versione di realismo ingenuo e/o di disgiuntivismo, e ci sono forti argomenti contro queste teorie. Ad esempio, non è chiaro come queste teorie possano gestire il fatto che molte delle nostre esperienze hanno elementi sia veridici che illusori: le linee di Muller-Lyer sembrano disuguali, quando non lo sono; ma sembrano anche corte, e sembrano essere di fronte a me e di colore nero (vedi la voce sulla teoria disgiuntivista della percezione). Un altro problema importante è quello sollevato da Hardin (2004, 2008) e Cohen (2009): che dipende da un’identificazione non-arbitraria di condizioni standard e osservatori normali, che non può essere soddisfatta (vedi la sezione 2.1 sopra).

La maggior parte delle versioni di eliminativismo / irrealismo sul colore si impegna a una teoria dell’errore dell’esperienza visiva. Come hanno affermato Boghossian e Velleman (1989 [1997: 93]): “l’esperienza visiva è normalmente ingenuamente realistica, nel senso che le qualità presentate in essa sono rappresentate come qualità del mondo esterno” (vedi anche Averill 2005 e Maund 2011). Questo li porta a spiegare come ciò avvenga adottando una teoria proiettivista dell’esperienza di colore:

La proiezione ipotizzata da questa spiegazione ha come risultato che il contenuto intenzionale dell’esperienza visiva rappresenta gli oggetti esterni come dotati di qualità che appartengono, in effetti, solo a regioni del campo visivo. “Dorando o macchiando tutti gli oggetti naturali con i colori presi in prestito dalle sensazioni interne”, come dice Hume, la mente “solleva in una certa maniera una nuova creazione”. (Boghossian e Velleman 1989 [1997: 95])

Nell’esperienza ordinaria di colore, gli oggetti fisici sono implicitamente rappresentati (o presentati) come se avessero determinate qualità che sono illusorie e, di conseguenza, quell’esperienza comporta degli errori. È importante tenere presente che tali affermazioni non sono semplicemente negative. Le illusioni e gli errori possono svolgere funzioni positive. L’affermazione che le esperienze rappresentano gli oggetti come se avessero qualità con un certo carattere può spiegare perché formiamo i concetti che abbiamo e come identifichiamo e riconosciamo gli oggetti, e così via. Ciò significa che è anche vero che ci sono ragioni importanti per mantenere i nostri concetti ordinari di colore, anche se non vengono attualizzati. Questo fatto motiva l’idea che l’atteggiamento corretto da adottare nei confronti del nostro linguaggio sul colore sia un atteggiamento fittizio: per molti scopi dovremmo pensare alle affermazioni sui colori con il loro significato ordinario, ma considerarle solo come se fossero vere (vedi Gatzia 2007, 2008). 

Essendo una teoria dell’errore dell’esperienza visiva, a volte si pensa che l’eliminativismo sul colore ci lasci con un grave problema (vedi Byrne & Hilbert 2007a). Se non esistono proprietà che soddisfano i requisiti affinché si possa parlare di colori, allora come si è sviluppato il nostro concetto ordinario? Una risposta plausibile a questo problema si trova nel fatto che il modo in cui operanoi concetti di colore, per svolgere i loro diversi ruoli e funzioni, è attraverso il modo in cui appaiono i colori. Per questi scopi e ruoli, gli oggetti non devono necessariamente avere colori. Sarà sufficiente che essi sembrino possederli. A tale scopo è sufficiente dire che “è come se possedessero i colori”. Dobbiamo anche tenere presente che errori, illusioni e affermazioni false possono essere utili e non deleteri, soprattutto se gli errori sono sistematici. Consideriamo, ad esempio, le utilissime illusioni che producono gli specchi. Parte del punto delle teorie proiettiviste sull’esperienza del colore è che gli errori sono sistematici. In parole povere, i pomodori ci forniscono regolarmente lo stesso tipo di errore, proprio come le banane ci forniscono il loro caratteristico tipo di errore. Angela Mendelovici ha sviluppato una spiegazione attendibile sulle affermazioni false. È interessante notare che sostiene che una delle obiezioni alle teorie di monitoraggio [tracking theories] della rappresentazione, tanto amata dai fisicalisti riduzionisti sul colore, è che esse non possono rendere conto delle rappresentazioni false ma affidabili.

Infine, il motivo per cui la visione dei colori si è evoluta potrebbe essere piuttosto complesso. Akins e Hahn (2014) hanno scritto un articolo lungo e dettagliato sulle implicazioni evolutive della visione dei colori. Sostengono che le ragioni spesso presunte non sono sufficienti: si basano sull’idea che la funzione della visione dei colori è quella di “rilevare i colori”. Le cose, affermano tuttavia, sono molto più complicate di così. 

2.4 Disposizionalismo sul colore

Il disposizionalismo sul colore è l’idea che i colori sono proprietà disposizionali, vale a dire capacità di apparire in modi peculiari ai soggetti percipienti (del giusto tipo), nel giusto tipo di circostanze; ovvero, di causare esperienze di tipo appropriato in quelle circostanze. Poiché implicano delle risposte da parte dei soggetti che percepiscono il colore, queste teorie sono spesso chiamate “soggettiviste”.

Questa teoria assume forme diverse. Una è quella associata ad alcune figure della tradizione scientifica, come ad esempio Cartesio, Boyle, Newton e Locke. La loro opinione è che i colori siano qualità secondarie. Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, nella sezione 1.2, questa forma di teoria disposizionalista faceva parte di un pacchetto complesso, correlato alla visione scientifica allora emergente del mondo. Per i nostri scopi attuali, ci sono due componenti cruciali in questo pacchetto. La prima è l’idea che dovremmo distinguere tra due nozioni di colore: il colore come proprietà dei corpi fisici e il colore per come si presenta nella sensazione (o, come talvolta viene descritto, “il colore-per come-lo-esperiamo”). La seconda è che la teoria delle qualità secondarie non è pensata per catturare il senso comune, o il modo “volgare” di pensare il colore. Piuttosto, è pensata come una revisione o una ricostruzione del concetto ordinario che ne abbiamo.

C’è una forma diversa che la teoria disposizionalista dei colori ha assunto più recentemente e che ha molti difensori in filosofia, ad esempio, Bennett (1971), Dummett (1979), McDowell (1985), McGinn (1983), Peacocke (1984), Johnston (1992) e Levin (2000). Questi filosofi respingono l’affermazione secondo cui la teoria disposizionalista è in conflitto con qualsiasi teoria del colore basata sul senso comune. Alcuni ritengono che il disposizionalismo possa essere difeso come una tesi analitica sul significato dei termini di colore; altri ritengono, o implicano, che il possesso del concetto di colore sia neutro rispetto alla natura precisa dei colori, la quale consiste nell’essere disposizionale. Uno dei pregi di questa teoria è che, se corretta, implica che non c’è bisogno di essere d’accordo sul fatto che la scienza è in conflitto con le nostre nozioni intuitive di colore, o che essa mostra che i normali discorsi sui colori sono sbagliati o necessitano di una ricostruzione. Un altro vantaggio è il fatto che spiega quella che sembra essere una caratteristica importante dei concetti di colore, in contrapposizione ai concetti delle qualità primarie: che per comprendere appieno i concetti di colore, è necessario avere esperienze cromatiche (è interessante che, come sottolinea Adams 2016, la teoria del colore di Aristotele rigetta questo assunto: per Aristotele, la funzione della visione è rilevare i colori, i quali sono indipendenti dal soggetto percipiente).

Un eminente difensore del disposizionalismo è Johnston (1992), la cui spiegazione si avvale dei principali elementi di una teoria del colore che abbiamo esaminato in una sezione precedente. Egli ammette che il disposizionalismo ha difficoltà a gestire il vincolo imposto dall’impegno per la Rivelazione, ma crede che rifiutarla sia un piccolo prezzo da pagare. Tuttavia, pensa che la teoria possa gestire tutti gli altri vincoli, e così facendo ha un grande vantaggio rispetto alle teorie rivali. Uno dei meriti della teoria è che può spiegare l’Unità, il punto (3) nel suo elenco, anche se, come abbiamo visto, questo principio dev’essere esteso. Un altro merito della teoria disposizionalista di Johnson è che gestisce quella che sembra essere una difficoltà per altre teorie, ossia il problema di spiegare il ruolo causale del colore nella percezione dei colori. In altri termini, il problema di rispettare l’elemento (2) dell’elenco:

Spiegazione. Il fatto che una superficie, un volume o una sorgente radiante siano giallo canarino a volte spiega causalmente la nostra esperienza visiva delle cose di colore giallo canarino.

È stato sostenuto che la teoria disposizionalista sul colore non può gestire questo requisito causale, ad esempio in Jackson (1998). La risposta di Johnston a questa obiezione è che le disposizioni non devono essere pensate come disposizioni nude e crude. Possiamo, invece, pensarle come “disposizioni costituite”, nel modo seguente:

Una disposizione costituita è una proprietà di ordine superiore avente alcune proprietà intrinseche che, stranezze a parte, causerebbero la manifestazione della disposizione nelle circostanze in cui si manifesta. (Johnston 1992 [1997: 147])

Dunque, possedere una disposizione costituita implica avere una qualche proprietà, che è il motivo causale per cui la disposizione si manifesta.

Ci sono due obiezioni principali al disposizionalismo. Queste sono stati discusse (e rifiutate) da J. Levin (2000). Un’obiezione è che la teoria disposizionalista non riesce a rendere conto della fenomenologia delle esperienze visive di colore. Torneremo più avanti su questa obiezione. Il secondo problema principale è che il disposizionalismo non può dissolvere quello che molti pensano sia il problema centrale della teoria, vale a dire il problema di caratterizzare proprio ciò che dovrebbero essere i colori degli oggetti, cioè “senza vacuità, circolarità, regresso o qualsiasi altro vizio dannoso” (Levin 2000: 162). Il problema della circolarità riflette il modo in cui viene formulata di solito la tesi disposizionalista: 

X è rosso = X ha la disposizione a sembrare rosso ai soggetti percipienti normali, in condizioni standard.

Se intendiamo l’espressione “sembrare rosso”, sul lato destro dell’uguaglianza, come “sembrare di essere rosso”, allora pare che abbiamo dei problemi. Come dice Levin:

Se un oggetto è rosso se e solo è disposto a sembrare rosso (in condizioni appropriate), allora un oggetto deve essere disposto a sembrare rosso se e solo se è disposto a sembrare rosso […] e così via, all’infinito. (Levin 2000: 163)

C’è una serie di tecniche che i disposizionalisti hanno escogitato per evitare il problema della circolarità. Questa include delle proposte per interpretare “rosso” in modo diverso da quello assunto sopra e delle proposte per caratterizzare la disposizione in modo diverso. Inoltre, a volte si sostiene che la circolarità sia benigna. (Per ulteriori discussioni, vedi Levin 2000 e Byrne & Hilbert 2011.)

Una soluzione particolarmente interessante al problema della circolarità è quella fornita da Peacocke 1984/1997. Peacocke difende quella che chiama una “versione esperienzialista” della teoria, che richiede l’introduzione di una terza proprietà, oltre a quelle di essere rosso, e apparire rosso – una proprietà sensazionale, quella di essere rosso*. Secondo questa spiegazione, la proprietà “rosso” è spiegata non in termini di sembrare rosso, ma in termini di presentazione a un soggetto percipiente di proprietà sensazionali, all’interno di un campo visivo. (Per la discussione, vedi Boghossian e Velleman 1989/1997)

Tuttavia, il problema più urgente che deve affrontare il disposizionalismo sul colore è quello di fornire una spiegazione adeguata della fenomenologia dell’esperienza visiva. Il “problema fenomenologico”, come lo chiama McGinn, è che le proprietà di colore non assomigliano molto a delle disposizioni a produrre esperienze cromatiche, al punto che sembra inevitabile accettare una teoria dell’errore sulla percezione del colore. I colori non risultano apparire secondo le disposizioni a cui pensano questi teorici, “il che equivale a dire che la percezione ordinaria del colore è intrinsecamente e fortemente fuorviante” (McGinn 1996: 537). Piuttosto che adottare una forma di disposizionalismo e accettare questa conseguenza, McGinn ricade in una teoria primitivista sul colore, la quale resiste a entrambe le obiezioni rivolte al disposizionalismo.

Levin (2000) ha fornito una potente risposta, in difesa del disposizionalismo, all’argomento di McGinn. La sua sfida è complessa, poiché mette in evidenza i presupposti che sono alla base della critica di McGinn (e discute in maniera dettagliata l’importanza della Rivelazione). Tuttavia, una questione importante sembra rimanere. Nella formulazione di McGinn del problema fenomenologico, ci sono due affermazioni distinte, ognuna delle quali è cruciale: (1) I colori non sembrano il tipo di proprietà disposizionali che dovrebbero essere, se il disposizionalismo è vero: “I colori risultano non sembrare come si dice che sono a livello disposizionale”. (2) I colori sembrano proprietà non-disposizionali: quando vediamo un oggetto rosso, lo vediamo come se avesse una proprietà locale semplice, monadica, della superficie dell’oggetto.

La seconda affermazione continua così: 

Quando vediamo un oggetto come rosso […] [il] colore è percepito come intrinseco all’oggetto, più o meno allo stesso modo in cui la forma e la dimensione sono percepite come intrinseche. Nessuna relazione con i soggetti percipienti entra in gioco nel modo in cui appare il colore; il colore è percepito come interamente sull’oggetto, non come in qualche modo a cavallo tra lo spazio e il soggetto percipiente. (McGinn 1996: 541–542)

Una possibilità che questa affermazione solleva è che anche se è vero, come sostiene Levin, che le nostre esperienze visive sono tali che gli oggetti sembrano avere proprietà disposizionali (come sostiene il disposizionalista sul colore), sarà anche il caso (spesso, almeno) che gli oggetti colorati sembrano manifestare quella disposizione. La rivendicazione di McGinn (2) può quindi applicarsi quando si manifesta una disposizione. Se è così, il disposizionalismo sembrerebbe appoggiare una teoria dell’errore, come egli suggerisce.

Byrne e Hilbert (2011) forniscono un esame dettagliato del disposizionalismo sul colore, che, come sottolineano, può assumere forme diverse. Pensano che molte di queste forme possano sfuggire sia alla circolarità che al problema fenomenologico evidenziato da McGinn, in parte perché sono in disaccordo con lui sulla fenomenologia. Criticano in maniera diversa la teoria: dicono che non c’è una buona ragione per accettarla. Sostengono che le migliori ragioni per accettarla dipendono da una teoria della percezione altamente implausibile.

Infine, un’altra difficoltà con il disposizionalismo, come viene normalmente fatto notare, è quella che ha sottolineato Hardin (1988/1993, 2004). Man mano che è cresciuta la nostra conoscenza della visione dei colori è diventato sempre più difficile specificare osservatori normali e condizioni visive standard in modo arbitrario, dal punto di vista metafisico. A dire il vero, esistono ragioni convenzionali per scegliere alcuni osservatori e alcune condizioni di visione come speciali, ma possiamo, senza troppi problemi, immaginare che siano diverse. E rispetto agli osservatori normali, abbiamo riscontrato che in effetti, per come stanno le cose, i soggetti percipienti competenti variano molto tra di loro. Come vedremo nella sezione successiva, queste considerazioni hanno portato Cohen a modificare la  teoria disposizionalista standard a favore di una teoria relazionista “maggiormente ecumenica” sul colore, che relativizza le disposizioni a gruppi di soggetti percipienti e di condizioni di visione.

2.5 Relazionismo sul colore

Uno degli sviluppi più importanti nella filosofia sul colore più recente è stato l’emergere di una teoria relazionista radicale. Averill (1992) ha proposto una teoria relazionale sul colore, che implica una forte modifica della posizione disposizionalista standard. Egli presenta due argomenti contro le spiegazioni fisicaliste e disposizionaliste, che dipendono dal fatto che sollevano domande difficili per la loro dipendenza da osservatori normali e condizioni di visione standard. Al loro posto, egli fornisce una spiegazione secondo la quale i colori dei corpi sono proprietà relazionali. Nello spiegarlo, ci chiede di fare ciò:

Supponiamo che “giallo” sia considerato come un termine relazionale con due argomenti nascosti. Un argomento prende le popolazioni come valori e lega ogni istanza dell’essere giallo agli osservatori normali di una popolazione, l’altro prende gli ambienti come valori e lega ogni istanza dell’essere giallo alle condizioni visive ottimali di un ambiente. (Averill 1992: 555)

Cohen (2004, 2009) sostiene una posizione simile, sebbene abbia sviluppato un argomento più generale. Per Cohen, il relazionismo sul colore è la tesi metafisica secondo cui i colori sono proprietà relazionali di un certo tipo, relazionali rispetto ai soggetti percipienti e alle circostanze visive. Secondo il relazionismo sul colore, non esistono proprietà come blu, rosso, giallo, arancione, ecc. Per essere più precisi, non esistono proprietà come blu simpliciter, rosso simpliciter e così via. Esistono, invece, delle proprietà relazionali: blu-per-il-soggetto-percipiente A-in-circostanze C1, rosso-per-il-soggetto-percipiente B-in-circostanze C2, giallo-per-il-soggetto-percipiente D-in-circostanze C3, e così via.

Al centro della teoria di Cohen c’è uno specifico argomento, che egli chiama il suo “argomento cardine” [Master Argument]. Questo argomento sottolinea in particolare che la misura in cui le cose sembrano possedere colori varia a seconda delle diverse condizioni visive, a seconda elle diverse classi di soggetti percipienti e a seconda delle diverse specie animali. In breve, si basa sulla premessa che esiste una vasta gamma di situazioni in cui ci sono variazioni nel modo in cui ci appare qualcosa, sia per lo stesso soggetto in diverse condizioni visive, sia per soggetti diversi nelle stesse condizioni.

Segue la domanda cruciale: possiamo selezionare una tra queste varianti percettive, che dovrebbero essere considerate come rappresentazioni veridiche del colore dell’oggetto (dove questo significa che le altre varianti rappresentano il colore dell’oggetto in modo errato)? È proprio a questa domanda, suggerisce Cohen, che è difficile immaginare una risposta ben motivata, strutturata e che non compia petizioni di principio, passando poi alla formulazione del suo argomento cardine. Dato che non vi sono ragioni ben motivate per individuare una singola variante (a scapito delle altre), sostiene, è preferibile una riconciliazione ecumenica delle varianti rispetto a una scelta immotivata a favore di una sola di esse. Da ciò conclude che il modo migliore per attuare una tale riconciliazione tra varianti apparentemente incompatibili è quello di considerarle come il risultato della relativizzazione dei colori sulla base di valori e di parametri diversi (Cohen 2009: 24).

La spinta del Master Argument, potente com’è, è in gran parte negativa. Sembra confutare tutte le teorie oggettiviste sul colore, sia essa una delle forme standard di realismo sul colore – realismo fisicalista o realismo primitivista – sia che venga inquadrata in termini di una disposizione ad apparire, in modi caratteristici, ai normali soggetti percipienti in circostanze standard. A prima vista, rimangono solo due candidati: il relazionismo sul colore e l’irrealismo sul colore. Cohen sostiene che il relazionismo sul colore fornisce la migliore soluzione al problema delineato, ma ammette che anche l’irrealismo sul colore ha a disposizione una soluzione. Egli ritiene che si debba rifiutare questa teoria, per motivi indipendenti. L’argomento contro l’irrealismo sul colore è che si tratta di una “teoria d’ultima spiaggia”, che dovremmo accettare solo dopo che abbiamo rifiutato tutti gli altri possibili candidati, una volta che non rimane nessun’altra alternativa. La questione cruciale tra queste due teorie, sembrerebbe, è se il relazionismo sul colore è in grado di spiegare adeguatamente la fenomenologia dell’esperienza visiva. La risposta di Cohen a questo problema è simile a quella di Levin, quando difende il disposizionalismo sul colore (vedi Maund 2012).

2.6 Teorie del colore basate sull’azione

Esistono altre forme di relazionismo sul colore che meritano una sezione a parte. Esse tendono a vedere i colori come proprietà ibride che combinano aspetti dell’ambiente e della fenomenologia dei soggetti percipienti.

Una forma di relazionismo è legata alle teorie della percezione basate sull’azione, sviluppate principalmente dallo psicologo J. J. Gibson. Un esempio lampante è la teoria difesa da Evan Thompson, ossia la teoria ecologica [ecological] dei colori. Secondo questa teoria, i colori sono dipendenti, in parte, da chi percepisce, e quindi non sono proprietà intrinseche di un mondo indipendente dal soggetto percipiente. L’essere colorato, invece, è interpretato come una proprietà relazionale dell’ambiente, che collega l’ambiente stesso con l’animale che percepisce. Nel caso del colore delle superfici fisiche, “essere colorato corrisponde alla riflettanza spettrale della superficie per com’è percepita visivamente dagli animali” (Thompson 1995: 240; vedi anche capitolo 5, pp. 242–250).

Più in dettaglio, questa descrizione è spiegata nel modo seguente:

essere colorato di un determinato colore o una determinata sfumatura […] equivale ad avere una particolare riflettanza spettrale, illuminazione o emissione che sembra quel colore a un particolare soggetto percipiente, in condizioni di visione specifiche. (1995: 245)

Thompson insiste sul fatto che questa teoria deve essere distinta sia dalla teoria disposizionalista lockiana, sia da una teoria dell’errore sul colore. Che lo sia o meno dipende da cosa si intenda con l’espressione “per com’è percepito visivamente dagli animali”.

Un altro importante esempio di approccio alla percezione basato sull’azione è la teoria di Noë (2004). Noë difende quello che chiama “approccio enattivista alla percezione”. Come nel caso di Thompson, la sua teoria è guidata dal lavoro di Gibson, anche se con delle modifiche. Noë pone la sua teoria del colore all’interno di questa spiegazione, sostenendo che il colore è una proprietà relazionale, che coinvolge l’oggetto e l’ambiente, e che è legato in modo cruciale ai soggetti percipienti. Nella sua teoria della percezione, Noë pone l’accento sul ruolo delle proprietà prospettiche. Distingue, ad esempio, tra dimensione e dimensione prospettica, cioè la dimensione nel campo visivo o come appaiono le cose, rispetto alla dimensione da un punto preciso.

La dimensione nel campo visivo è una proprietà distinta dalla dimensione. Corrisponde alla dimensione della macchia che si deve inserire su un dato piano, perpendicolare alla linea di mira, per occludere perfettamente un oggetto alla vista. (Noë 2004: 83)

In realtà, Noë fa una distinzione tra tre tipi di proprietà. Associato alla forma (e alle dimensioni) di un oggetto, ad esempio un cubo, c’è il suo potenziale visivo:

Il potenziale visivo di un cubo (almeno rispetto alla forma) è il modo in cui il suo aspetto cambia a seguito del movimento (del cubo stesso o del percipiente attorno al cubo). Ogni movimento determina una serie di cambiamenti nell’aspetto percepito; qualsiasi insieme di cambiamenti negli aspetti percepiti determina classi equivalenti di movimenti possibili. (Noë 2004: 77)

Di conseguenza, nel caso della forma e della dimensione, possiamo distinguere tra tre tipi di proprietà: ad esempio, la forma indipendente dalla vista, il potenziale visivo della forma e la forma prospettica. Noë modella la sua teoria del colore sul secondo tipo di proprietà: “i colori sono modi in cui le cose colorate cambiano il loro aspetto quando cambiano le condizioni cromatiche rilevanti” (Noë 2004: 141). Questa è una teoria interessante. Ciò che non è così chiaro è cosa sia esattamente il colore prospettico.

Più recentemente, sono emerse altre forme di teorie relazionale: teorie difese da Brogaard (2012), Chirimuuta (2015) e Chirimuuta & Kingdom (2015). Chirimuuta sostiene una versione di relazionismo sul colore che chiama “avverbialismo sul colore”:

In quest’ultimo caso, i colori non sono proprietà degli oggetti fisici esterni, o del cervello, o dei nostri stati mentali; sono invece proprietà di processi percettivi o interazioni che coinvolgono oggetti, cervelli e stati mentali. Quindi, secondo l’avverbialismo sul colore, “vedere i colori” significa “vedere in modo colorato”. (Chirimuuta e Kingdom 2015: 226)

Ella si appella, con Kingdom, alla recente ricerca sulla visione dei colori, basata sulla sua funzione, per sostenere che essa pone grandi difficoltà per il realismo oggettivista sul colore – sia quello primitivista che quello fisicalista riduzionista – (vedi anche Akins & Hahn 2014). Pur ammettendo che l’antirealismo, specialmente la forma preferita da Hardin, sia in una posizione di vantaggio, i due autori pensano che l’avverbialismo sul colore fornisca la spiegazione migliore.

Un altro importante contributo recente alla filosofia del colore è il libro di Matthen (2005). In questo lavoro, Matthen articola una teoria della percezione sensoriale in cui il colore gioca un ruolo di primo piano. Il lavoro è significativo per la teoria del colore che presenta, una teoria che attinge molto a studi comparativi sulla visione dei colori tra specie diverse. Matthen sostituisce le sue precedenti opinioni oggettiviste sul colore con una teoria che assomiglia maggiormente alla teoria ecologica preferita da Thompson. Matthen concorda con Hardin, Thompson e altri sul fatto che la fenomenologia del colore non è catturata, o spiegata, da nessuna teoria oggettivista standard. Tuttavia, afferma di difendere una teoria realista sul colore e di rifiutare le teorie irrealiste standard, compresa quella di Hardin. La teoria di Matthen è complessa. L’idea è che i sensi (il sistema sensoriale visivo) classifichino gli oggetti come “blu”, “gialli”, ecc., ma queste qualità sono legate alle azioni che possono eseguire i soggetti percipienti e, in particolare, alle “affordance epistemiche”. I sistemi sensoriali sono considerati come dispositivi che hanno il compito di classificare gli stimoli distali (gli oggetti fisici) come aventi determinate proprietà, che si trovano in relazioni di somiglianza e differenza tra loro. Queste categorie sono costruite dal sistema e non corrispondono, almeno nel caso del colore, a nessuna proprietà oggettiva indipendente dai soggetti percipienti.

 

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