Esperienza e percezione del tempo

Traduzione e revisione di Luca Gasparinetti, 

Pagina di Robin Le Poindevin.

Versione Primavera 2019. 

 The following is the translation of Robin Le Poindevin’s entry on “Experience and perception of time” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy.  The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/spr2019/entries/time-experience/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at <https://plato.stanford.edu/entries/time-experience>. We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

Vediamo i colori, sentiamo i suoni e percepiamo le consistenze. Sembra che alcuni aspetti del mondo siano percepiti attraverso un senso particolare. Altri, come le forme, sono percepiti mediante più sensi. Ma quale senso o sensi impieghiamo quando percepiamo il tempo? La percezione del tempo non è associata certamente a nessuno di essi in particolare: sembra strano affermare che vediamo, ascoltiamo o tocchiamo il tempo che scorre. In effetti, anche se tutti i nostri sensi fossero impossibilitati a funzionare per un certo lasso di tempo, potremmo ancora percepire il passaggio del tempo attraverso il nostro pensiero. Forse abbiamo una speciale facoltà per rilevare il tempo che è distinta dagli altri cinque sensi. O forse, più probabilmente, percepiamo il tempo attraverso la percezione di altre cose. Ma in che modo?

La percezione del tempo solleva numerosi e intriganti problemi, incluso che cosa significhi dire che percepiamo il tempo. In questo articolo esploreremo la molteplicità di processi attraverso cui siamo coscienti del tempo e che influenzano il nostro modo di pensare alla natura fondamentale del tempo. Inevitabilmente, ci occuperemo della psicologia della percezione del tempo, anche se lo scopo della voce è mettere in luce le questioni filosofiche, e in particolare se e come alcuni aspetti della nostra esperienza possano essere inseriti all’interno di qualche teoria metafisica riguardante la natura del tempo e della causalità.

 

1. Che cos’è la “percezione del tempo” ?

L’espressione stessa “percezione del tempo” è fonte di controversie filosofiche. Nella misura in cui il tempo è qualcosa di differente rispetto agli eventi, non percepiamo il tempo in quanto tale, bensì i cambiamenti o gli eventi nel tempo. Ma probabilmente, non solo percepiamo gli eventi ma anche le relazioni temporali che intercorrono tra di loro. Come è naturale dire che percepiamo le distanze spaziali e le altre relazioni tra gli oggetti (ad esempio, quando vedo una libellula volare sopra la superficie dell’acqua), così sembra altrettanto naturale dire che percepiamo un evento che segue un altro (il tuono che segue il lampo). Anche qui però sembra emergere una difficoltà: ciò che percepiamo, lo percepiamo come presente, come in svolgimento.

Possiamo percepire una relazione tra due eventi senza percepire anche gli eventi stessi? Nel caso di una risposta negativa, si direbbe che percepiremmo entrambi gli eventi come presenti, ma in quel caso dovremmo percepirli non come successivi, ma come simultanei. Allora emerge un paradosso del concetto di percezione di un evento come successivo ad un altro; anche se potrebbe essere possibile trovare una semplice soluzione. Quando percepiamo B come successivo ad A, noi abbiamo sicuramente cessato di percepire A. In tal caso, A è meramente un ricordo nella nostra memoria. Se ora volessimo interpretare il termine “percepire” in maniera restrittiva, escludendo qualsiasi elemento di memoria, allora non potremmo dire di percepire B come successivo ad A.

In questa voce, invece, interpreteremo “percepire” con un’accezione più ampia al fine di includere una vasta gamma di esperienze del tempo che coinvolgono essenzialmente le modalità sensoriali. In questa accezione più ampia percepiamo infatti una vasta varietà di aspetti temporali del mondo. Cominceremo enumerandoli e poi considerando le diverse posizioni su come queste percezioni siano possibili.

 

2. I modi di esperire il tempo

Esiste un certo numero di ciò che Ernst Pöppel (1978) chiama “esperienze temporali elementari”, o aspetti fondamentali della nostra esperienza del tempo. Tra queste possiamo accennare l’esperienza della durata (I); della non-simultaneità (II); dell’ordine (III), del passato e del presente (IV); del cambiamento, incluso il passaggio del tempo (V). Si potrebbe pensare che l’esperienza della non-simultaneità sia la stessa dell’esperienza dell’ordine temporale, eppure sembra che, quando due eventi occorrono in tempi molti ravvicinati, possiamo essere consapevoli che occorrono in tempi differenti senza essere in grado di dire quale sia il primo (vedasi Hirsh e Sherrick 1961). Possiamo inoltre pensare che la percezione dell’ordine sia essa stessa spiegabile nei termini della nostra esperienza che distingue il passato dal presente.

Ci sono sicuramente dei punti di incontro, ma è una questione controversa se l’esperienza della tensionalità, vale a dire l’esperienza di un evento passato o presente, sia più fondamentale rispetto all’esperienza dell’ordine o viceversa, se esista davvero qualcosa come l’esperienza della tensionalità. Tale questione verrà ripresa più avanti. In ultima istanza, dovremmo aspettarci di notare dei legami tra la percezione dell’ordine temporale e la percezione del movimento, intendendo quest’ultima come la percezione di un ordine tra le differenti posizioni spaziali di un oggetto. Questa è un’altra questione spinosa che sarà affrontata anch’essa più avanti.

 

3. La durata

Una delle prime e più famose discussioni sulla natura del tempo e dell’esperienza temporale si trova nelle Confessiones di Sant’Agostino. Agostino nacque in Numidia (attuale Algeria) nel 354 d.C., fu professore di retorica a Cartagine e Milano, e divenne vescovo di Ipponia nel 395. Morì nel 430. Da giovane rifiutò il cristianesimo, anche se successivamente si convertì all’età di 32 anni.

Il libro IX delle Confessiones contiene una lunga e affascinante esplorazione del tempo e della sua relazione con Dio. In particolare, in questo libro Agostino solleva il seguente enigma: quando diciamo che un evento o intervallo di tempo è breve o lungo, che cosa viene descritto come breve o lungo? Non può essere il passato, in quanto ha cessato di esistere, e ciò che è inesistente non può godere attualmente di nessuna proprietà, come l’essere lungo. Ma non può nemmeno essere il presente, poiché esso non ha durata. (Per la ragione secondo la quale il presente è privo di durata, si veda la sezione “Il presente specioso”, più avanti). In ogni caso, mentre un evento è ancora in corso, non si può valutare la sua durata.

La risposta di Agostino a questo enigma è: ciò che misuriamo, quando misuriamo la durata di un evento o di un intervallo di tempo, è nella memoria. Da ciò si deriva la radicale conclusione che sia il passato che il futuro esistono solo nella mente. Anche se non accettiamo questa tesi, possiamo ammettere che la percezione della durata temporale è legata in modo cruciale alla memoria. È quindi una caratteristica della nostra memoria dell’evento (e forse specificatamente la nostra memoria dell’inizio e della fine di questo) che ci conduce a formare una credenza sulla sua durata.

Questo processo non deve essere necessariamente descritto, come fa Agostino, come una questione di misura di qualcosa interamente presente nella mente. Probabilmente, stiamo almeno misurando l’evento o l’intervallo stesso, un elemento indipendente dalla mente, per mezzo di qualche processo psicologico.

Qualunque sia il processo in questione, sembra probabile che ciò è strettamente connesso con quella che William Friedman (1990) chiama “tempo della memoria”, cioè la memoria di quando un evento particolare è occorso. Che ci sia qui una stretta connessione è implicito nell’idea plausibile che noi deduciamo (anche se inconsciamente) la durata di un evento, una volta che è cessato, dalle informazioni su quanto tempo fa sia avvenuto il suo l’inizio. Cioè, l’informazione, che è di natura metrica (ad esempio, “lo scoppio del suono è stato molto breve”) deriva dall’informazione tensionale, che indica quanto lontano nel passato è accaduto qualcosa. La questione quindi riguarda la modalità, diretta o indiretta, con cui acquisiamo questa informazione tensionale. Modalità che possiamo illustrare con due modelli di memoria temporale descritti da Friedman. Il primo, chiamato “modello di intensità della memoria temporale” (strength model of time memory), prevede che, se esiste una cosa come una traccia di memoria che persiste nel tempo, allora potremmo giudicare l’età di un ricordo (e perciò quanto tempo fa è avvenuto l’evento ricordato), dalla intensità della traccia. Più l’evento è lungo, più debole sarà la traccia. Questo fornisce un mezzo semplice e diretto di valutare la durata di un evento. Sfortunatamente, il modello della traccia entra in conflitto con una caratteristica molto familiare della nostra esperienza: il fatto che alcuni ricordi di eventi recenti possano svanire più rapidamente dei ricordi di eventi più lontani, specialmente quando questi erano davvero molto significativi (ad esempio, la visita a un parente visto raramente quando si era bambini).

Una posizione diversa in contrasto con questa è il modello inferenziale secondo cui il tempo di un evento non si legge semplicemente da qualche ricordo di esso, ma è dedotto a partire dalle informazioni sulle relazioni tra l’evento in questione e gli altri eventi di cui si conoscono la data e il tempo.

Il modello inferenziale potrebbe essere abbastanza plausibile quando si tratta di eventi lontani, ma lo è molto meno per quanto riguarda quelli molto recenti. Inoltre, il modello assume una operazione cognitiva piuttosto complessa che è improbabile che si verifichi in animali diversi dall’uomo, come un topo. I topi, tuttavia, sono piuttosto bravi nel misurare il tempo in brevi intervalli fino ad un minuto, come dimostrato da esperimenti di condizionamento strumentale coinvolgenti la “procedura operante libera”. In questa, una data risposta  (come premere una leva) ritarderà l’occorrenza di una scossa elettrica per un periodo di tempo fisso, come 40 secondi, descritto dall’intervallo R-S (risposta-shock). Alla fine, il tasso di risposta segue l’intervallo R-S, e così la probabilità di rispondere aumenta rapidamente all’avvicinarsi della fine dell’intervallo. (Vedasi Mackintosh 1983 per una discussione su questo e altri esperimenti correlati). È difficile evitare la deduzione che il mero passaggio del tempo stesso agisca come stimolo condizionato, ovvero che in termini antropocentrici, i topi stimano con successo gli intervalli di tempo. In questo caso, il primo modello sembra essere più appropriato rispetto al secondo.

 

4. Il presente “specioso”

Il termine “presente specioso” è stato introdotto per la prima volta dallo psicologo E. R. Clay, ma la sua caratterizzazione più conosciuta si deve a William James, largamente riconosciuto come uno dei fondatori della psicologia moderna. Vissuto tra il 1842 e il 1910, James fu un professore di psicologia e filosofia ad Harvard. La sua definizione di presente “specioso” è la seguente: “il prototipo di tutti i tempi concepiti è il presente specioso, la breve durata di cui siamo immediatamente e incessantemente sensibili” (James 1890). Quanto è lungo questo presente specioso? Altrove nella stessa opera, James afferma: “Siamo costantemente consci di una certa durata — il presente specioso — che varia da pochi secondi a probabilmente non più di un minuto, e questa durata (con il suo contenuto percepito come se avesse una parte prima e un’altra parte dopo) è l’intuizione originale del tempo”. Questa sorprendente variabilità nella lunghezza del presente specioso fa sospettare che nella caratterizzazione piuttosto vaga di James si celi più di un problema.

Ci sono due sorgenti di ambiguità qui. Una riguarda se il presente specioso si riferisca all’oggetto dell’esperienza, cioè una durata nel tempo, o al modo in cui l’oggetto si presenta a noi. La seconda riguarda il modo in cui dovremmo interpretare “immediatamente sensibile”. Le parole di James suggeriscono che il presente specioso sia la durata stessa, scelta come oggetto di una certa esperienza. Ma “immediatamente sensibile” ammette un certo numero di ambiguità. In virtù di ciò potremmo definire il presente specioso come:

  1. La durata della memoria a breve termine;
  2. La durata che viene percepita non come durata, bensì come istantanea;
  3. La durata che è direttamente percepita — cioè, percepita non attraverso l’intermediazione di un certo numero di altre percezioni, forse istantanee;
  4. La durata che è percepita sia come presente, sia come estesa nel tempo.

Se James intende la prima di queste, ciò spiegherebbe certamente la sua idea che il presente specioso possa durare fino ad un minuto. Ma questo non sembra avere molto a che fare con l’esperienza della presentezza nello specifico, dato che possiamo conservare certamente qualcosa nella memoria a breve termine e tuttavia riconoscerla come passata. James potrebbe pensare ai casi in cui stiamo ascoltando una frase: se non trattenessimo in qualche maniera tutte le parole nella nostra mente cosciente, non la capiremmo nel suo insieme. Eppure, è chiaro che le parole non vengono esperite simultaneamente, perché il risultato sarebbe inevitabilmente incomprensibile. (2) è illustrato dal fatto familiare che alcuni movimenti sono così veloci che li vediamo come se fossero una macchia, ad esempio quando osserviamo un ventilatore. In realtà, ciò che sta avvenendo in tempi differenti è presentato come se stesse accadendo in un istante. Ma questo non è quello che si intende normalmente per presente specioso. (3) è un’interpretazione che si trova nella letteratura (vedi, ad esempio, Kelly 2005), ma non è ovvio che sia ciò che aveva in mente James. Dal momento che è interessato alla fenomenologia della percezione del tempo, se un’esperienza costituisca o meno una percezione diretta o indiretta di un intervallo non sembra essere una questione fenomenologica. (Inoltre, come sottolinea Kelly, potremmo pensare che sia strano supporre che parti passate dell’intervallo possano essere esperite direttamente). Quanto detto ci porta a (4): una durata che è percepita come presente e come temporalmente estesa. Il presente di questa esperienza è “specioso” in quanto, a differenza del presente oggettivo (se esiste una cosa del genere —vedi la sezione “La metafisica della percezione temporale”, qui sotto) è un intervallo e non un istante privo di durata. Il presente reale o oggettivo deve essere senza durata perché, come ha argomentato Agostino, in un intervallo di qualsiasi durata, ci sono parti precedenti e parti successive. Quindi, se qualsiasi parte dell’intervallo fosse presente, allora ci dovrebbe essere un’altra parte passata o futura.

Ma è possibile percepire qualcosa come esteso e allo stesso tempo come presente? Se ascoltiamo una qualche breve battuta musicale, ci sembrerebbe di sentirla come presente, e tuttavia — poiché è una battuta, piuttosto che un singolo accordo — sentiamo anche le note come successive, e quindi come estese su un certo intervallo di tempo. Se questo non sembra del tutto convincente, si consideri la percezione del moto. Come argomenta Broad (1923), “vedere la lancetta dei secondi che si muove è una cosa molto diversa dal “vedere” che la lancetta delle ore si è mossa”. Non è che vediamo la posizione attuale della lancetta dei secondi e ricordiamo dov’era un secondo fa: vediamo proprio il movimento. Questo porta al seguente argomento:

(1) Ciò che percepiamo, lo percepiamo come presente.

(2) Noi percepiamo il movimento.

(3) Il movimento avviene in un intervallo.

Dunque: ciò che percepiamo come presente avviene in un intervallo.

Eppure, c’è più di un’aria di paradosso in questo argomento. Se le parti successive del movimento (o di una battuta musicale, o qualsiasi cambiamento che percepiamo) sono percepite come presenti, allora sicuramente sono percepite come simultanee. Ma se sono percepite come simultanee allora il movimento sarà semplicemente una macchia, come nei casi in cui è troppo veloce per essere percepito come movimento. Il fatto che non lo vediamo come tale suggerisce che non vediamo le parti successive come simultanee, e quindi non le vediamo come presenti. Ma allora come possiamo spiegare la distinzione verso cui Broad dirige la nostra attenzione?

Un modo per uscire dall’impasse è suggerire che nella percezione del moto (e di altri tipi di cambiamento) sono in corso due processi ben distinti. Il primo è la percezione di stati successivi come successivi, ad esempio la differente posizione della lancetta dei secondi. Il secondo è la percezione del movimento puro. Tale percezione, che può coinvolgere un sistema più primitivo rispetto alla prima, non implica il riconoscimento di elementi precedenti o successivi (Le Poidevin 2007, capitolo 5). In alternativa, potremmo tentare di spiegare il fenomeno dell’esperienza temporale senza ricorrere affatto alla nozione di presente specioso (vedasi Arstila, 2018).

 

5. Passato, presente e il passaggio del tempo

La sezione precedente ha sottolineato l’importanza di distinguere la percezione del presente dal percepire qualcosa come presente. Inoltre, possiamo percepire come presenti oggetti che sono passati. Infatti, data la velocità finita della trasmissione della luce e del suono (e la velocità finita della trasmissione delle informazioni dai recettori al cervello), sembra che ciò che percepiamo sia sempre e solo il passato. Tuttavia, ciò non ci dice di per sé cosa significhi percepire qualcosa come presente piuttosto che come passato. Ciò non spiega neanche la caratteristica più sorprendente della nostra esperienza del presente, ovvero che sia in costante mutamento. Il passaggio (o l’apparente passaggio) del tempo è la sua caratteristica più sorprendente e qualsiasi spiegazione riguardante la nostra percezione del tempo deve rendere conto di questo aspetto della nostra esperienza.

Di seguito un tentativo per spiegare questo punto. Il primo problema consiste nello spiegare perché la nostra esperienza temporale sia limitata in un modo in cui la nostra esperienza spaziale non lo è. Possiamo infatti percepire oggetti che si trovano in una varietà di relazioni spaziali con noi: vicino, lontano, a sinistra o a destra, in alto o in basso, ecc. La nostra esperienza non è limitata alle immediate vicinanze (anche se chiaramente la nostra esperienza spaziale è spazialmente limitata nella misura in cui gli oggetti sufficientemente lontani ci sono invisibili). Ma, anche se percepiamo il passato, non lo percepiamo come tale, bensì come presente. Inoltre, la nostra esperienza non solo sembra, ma è proprio temporalmente limitata: noi non percepiamo il futuro, e non continuiamo a percepire eventi transitori molto a lungo dopo che l’informazione di questi ha raggiunto i nostri sensi. Ora, c’è una semplice risposta alla domanda sul perché non percepiamo il futuro, e la risposta è di natura causale. In breve, le cause precedono sempre gli effetti e poiché la percezione è un processo causale, nel senso che percepire qualcosa significa esserne causalmente influenzati, noi possiamo percepire solo eventi precedenti, mai successivi. Così abbiamo spiegato un limite temporale della nostra esperienza. E l’altro?

Non sembra esserci alcuna ragione logica per cui non dovremmo esperire direttamente il passato più remoto. Potremmo appellarci al principio che non ci può essere azione a distanza temporale, così che qualcosa di lontanamente passato possa solo influenzarci causalmente attraverso eventi più prossimi. Ma questa è una giustificazione inadeguata. Noi possiamo esperire un albero spazialmente distante solamente in virtù dei suoi effetti sugli oggetti vicini a noi (la luce riflessa dall’albero che entra in contatto con la nostra retina), ma questo non è contemplato da coloro che sposano una teoria realista diretta della percezione. Essi, infatti, affermano che vediamo ancora l’albero, non qualche oggetto più immediato.

Forse allora dovremmo cercare una strategia differente che si appella a considerazioni biologiche, come la seguente. Per essere agenti efficaci nel mondo, dobbiamo rappresentare accuratamente che cosa sta accadendo in questo momento: essere costantemente asincroni con la realtà mentre svolgiamo le nostre attività significherebbe andare in contro ad estinzione piuttosto immediata. Ora, siamo fortunati in quanto, anche se percepiamo solo il passato, si tratta nella maggior parte dei casi di un passato molto recente, proprio in virtù del fatto che la trasmissione della luce e del suono, sebbene limitata, è estremamente rapida. Inoltre, nonostante le cose cambino, sempre nella maggior parte dei casi, lo fanno ad una velocità di gran lunga inferiore rispetto a quella con cui le informazioni provenienti da oggetti esterni viaggiano verso di noi. Così, quando formiamo le credenze circa ciò che sta accadendo nel mondo, esse sono largamente accurate. (Vedi Butterfield 1984 per un resoconto più dettagliato). Ma, essendo state registrate, le informazioni in arrivo hanno bisogno di spostarsi nella memoria per lasciare spazio a informazioni più recenti. Sebbene le cose cambino lentamente rispetto alla velocità della luce e del suono, proprio perché cambiano non possiamo elaborare simultaneamente informazioni contrastanti. Quindi la nostra efficacia come agenti dipende dal fatto che non continuiamo ad esperire uno stato di cose transitorio (piuttosto che farlo come un film al rallentatore), una volta che le informazioni sono state assorbite. L’evoluzione ha permesso che non esperiamo altro che il passato molto recente (ad eccezione di quando guardiamo il cielo).

Percepire qualcosa di presente significa semplicemente percepirlo: non è necessario postulare alcunché di accessorio nella nostra esperienza che sia “l’esperienza della presentezza”. Da ciò ne consegue che non è possibile una “percezione della passatezza”. Inoltre, se quest’ultima fosse qualcosa che siamo in grado di percepire, allora potremmo percepire tutto in questa maniera, in quanto ogni evento è passato nel momento in cui viene percepito. Ma anche se non percepiamo nulla come passato (nello stesso momento in cui percepiamo l’evento in questione) potremmo intelligibilmente parlare in senso largo di esperienza della passatezza: l’esperienza che abbiamo quando qualcosa termina. È stato suggerito che i ricordi — nello specifico episodi di memoria delle nostre esperienze di eventi passati — sono accompagnati da una sensazione di passatezza (vedi Russell 1921). Il problema che dovrebbe risolvere quest’idea è che il ricordo di un episodio è semplicemente un ricordo di un evento: rappresenta l’evento semplice, piuttosto che il fatto che l’evento è passato. Quindi, dobbiamo postulare qualcos’altro che ci indichi il fatto che l’evento ricordato sia passato. Una posizione alternativa, che non si appella ad aspetti fenomenologici della memoria, consiste nel considerare i ricordi come ciò che ci permette di formare credenze tensionali orientate al passato, ed è in virtù di questo che essi rappresentano un evento come passato.

Abbiamo quindi un candidato in grado di fornire una spiegazione per la nostra esperienza di “situatività” in un particolare momento nel tempo, vale a dire il presente (specioso). E poiché il contenuto di questa esperienza è in costante mutamento, la posizione nel tempo si sposta. Ma c’è ancora un ulteriore enigma. Il cambiamento nella nostra esperienza e l’esperienza del cambiamento non sono la medesima cosa. Noi vogliamo sapere non solo che cosa significa percepire un evento dopo un altro, ma anche cosa voglia dire percepire un evento che avviene dopo l’altro. Solo allora saremo in grado di capire la nostra esperienza del passaggio del tempo. Passiamo così alla percezione dell’ordine temporale.

 

6. L’ordine del tempo

Come avvertiamo la relazione di precedenza tra gli eventi? Una risposta allettante e semplice sostiene la percezione della precedenza sia solo una sensazione causata da istanze di precedenza, esattamente come una sensazione di rosso è causata da un’istanza di rossezza. Hugh Mellor (1998) rigetta questa posizione per il seguente motivo: se questa fosse la spiegazione corretta, allora non potremmo distinguere tra x che è precedente a y, e x che è successivo a y, perché ogni volta che c’è un’istanza di una relazione, c’è anche un’istanza dell’altra. Ma chiaramente siamo in grado di distinguere i due casi, quindi non può essere semplicemente una questione di percezione di una relazione, ma qualcosa che riguarda la nostra percezione dei termini correlati. Ma essa non può esaurire il significato di percezione della precedenza. Consideriamo di nuovo l’orologio di Broad. Per prima cosa, percepiamo la lancetta delle ore in una posizione, diciamo le 3, e successivamente la percepiamo in una posizione diversa indicante le 3 e mezza. Così ho due percezioni, una successiva all’altra. Anche se possiamo essere coscienti della relazione temporale delle due posizioni della lancetta, non potremmo tuttavia percepire questa relazione, nel senso che non vedremmo il movimento della lancetta. Al contrario, vediamo che la lancetta dei secondi si muove da una posizione all’altra: vediamo le posizioni successive come successive.

La proposta di Mellor consiste nell’affermare che io percepisco x prima di y in virtù del fatto che la mia percezione di x influenza causalmente la mia percezione di y. Quando vedo la lancetta dei secondi in una posizione, ho nella mia memoria a breve termine un’immagine (o un’informazione in qualche forma) della sua posizione immediatamente precedente, e questa immagine influenza la mia percezione attuale. Il risultato è una percezione di movimento: l’ordine percepito delle diverse posizioni non dev’essere necessariamente lo stesso di quello temporale, ma sarà lo stesso dell’ordine causale delle percezioni di esse. E poiché le cause precedono sempre i loro effetti, l’ordine temporale percepito comporta un ordine temporale corrispondente nelle percezioni. Dainton (2001) ha obiettato che, se ciò fosse corretto, non dovremmo essere in grado di ricordare di aver percepito la precedenza, dal momento che ricordiamo solo ciò che possiamo realmente percepire. Ma non sembra esserci alcuna ragione per negare che essa non conti come percezione genuina, solo perché la percezione della precedenza può coinvolgere la memoria a breve termine.

C’è un’ulteriore disanalogia tra la percezione del colore e la percezione dell’ordine temporale. Ciò che è percepito nel caso del colore è qualcosa che ha una locazione spazio-temporale definita. La relazione di precedenza invece non è qualcosa che ha una locazione evidente. Ma le cause hanno delle locazioni, quindi la percezione della precedenza è piuttosto difficile da riconciliare con la teoria causale della percezione, rispetto alla percezione del colore (Le Poidevin 2004, 2007).

Effettivamente, l’idea di Mellor è che il cervello rappresenti il tempo per mezzo del tempo, rendendo la rappresentazione del tempo unica: gli eventi ordinati temporalmente sono rappresentati da esperienze altrettanto ordinate temporalmente. (Per esempio, il cervello non rappresenta oggetti spazialmente separati per mezzo di percezioni spazialmente separate, o cose arancioni per mezzo di percezioni arancioni). Ma perché il tempo dovrebbe essere unico in questo senso? Diversamente, il tempo può essere rappresentato spazialmente (come nei cartoni animati, nei grafici e negli orologi analogici) o numericamente (come nei calendari e negli orologi digitali). Quindi forse il cervello può rappresentare il tempo con altri mezzi. Una ragione per supporre che debba avere altri mezzi a sua disposizione è che il tempo ha bisogno di essere rappresentato nella memoria (sia che a era prima di b, sia l’esperienza di vedere a occorrere prima di b) e nell’intenzionalità (intendo deliberare F dopo aver deliberato G), ma non c’è un modo ovvio in cui la posizione di Mellor sulla “rappresentazione del tempo con il tempo” possa essere estesa a questi.

Secondo il modello di Mellor, il meccanismo con cui l’ordine temporale è percepito è sensibile al tempo in cui le percezioni avvengono, ma è indifferente al loro contenuto (ciò di cui le percezioni sono fatte). Daniel Dennett (1991) propone un modello diverso, in cui il processo è indipendente dal tempo, ma sensibile al contenuto. Per esempio, il cervello potrebbe dedurre l’ordine temporale degli eventi vedendo quale sequenza rende conto dell’ordine causale di quegli eventi. Uno dei vantaggi del modello di Dennett è che può rendere conto dei casi piuttosto sconcertanti di reversione temporale, laddove l’ordine percepito non segua l’ordine delle percezioni. (Vedi Dennett 1991 per una discussione di questi casi, e anche Roache 1999 per un tentativo di riconciliarli con la posizione di Mellor).

 

7. La metafisica della percezione temporale

Fornendo una spiegazione dei vari aspetti della percezione temporale abbiamo inevitabilmente usato concetti che pensiamo abbiano una controparte oggettiva nel mondo: il passato, l’ordine temporale, la causalità, il cambiamento, il passaggio del tempo e così via. Ma una delle lezioni più importanti della filosofia, per molti autori, è che ci può essere un divario, forse anche un abisso, tra la nostra rappresentazione del mondo e il mondo stesso, anche ad un livello abbastanza astratto. (Sarebbe giusto aggiungere che, per altri autori, non è proprio questa la lezione che la filosofia insegna). La filosofia del tempo non fa eccezione. Infatti, è interessante notare come molti filosofi abbiano assunto la posizione che, nonostante le apparenze, il tempo, o qualche aspetto del tempo, è irreale. In questa sezione finale, daremo un’occhiata a come tre dibattiti metafisici riguardanti la natura del mondo si intreccino con le teorie della percezione del tempo.

Il primo dibattito riguarda la realtà della tensionalità, cioè la nostra divisione del tempo in passato, presente e futuro. Il tempo è davvero diviso in questo modo? Ciò che è presente scivola sempre più nel passato? O questo quadro teorico riflette semplicemente la nostra prospettiva su una realtà in cui non esiste un momento privilegiato, il presente, ma semplicemente una serie ordinata di momenti? I teorici della A-teoria dicono che la nostra immagine ordinaria e tensionale del mondo riflette il mondo per come è realmente: il passaggio del tempo è un fatto oggettivo. I teorici della B-teoria lo negano. (I termini A-teoria e B-teoria derivano dalla distinzione fatta da McTaggart (1908) tra due modi in cui gli eventi possono essere ordinati nel tempo, o come una A-serie — vale a dire, in termini di passato, presente o futuro — o come una B-serie — cioè, a seconda che siano precedenti, successivi o simultanei ad altri eventi).

Per i teorici B, gli unici fatti temporali oggettivi riguardano le relazioni di precedenza e simultaneità tra gli eventi. (Ignoro qui le complicazioni introdotte dalla teoria della relatività ristretta, poiché la teoria B — e forse anche la teoria A — può essere riformulata in termini compatibili con la relatività ristretta). I teorici B non negano che le nostre credenze tensionali, come la credenza che un fronte freddo stia passando ora, o che il matrimonio di Sally sia avvenuto due anni fa, possano essere vere, ma affermano che ciò che rende vere tali credenze non è un fatto riguardante il passato, la presenza o il futuro degli eventi, ma fatti a-tensionali riguardanti la precedenza e la simultaneità (vedi Mellor 1998, Oaklander e Smith 1994). Secondo una versione della B-teoria, per esempio, la mia credenza che ci sia un fronte freddo che sta passando è vera perché il passaggio del fronte è simultaneo alla formazione della mia credenza. Ora, una sfida molto seria per il teorico a-tensionale è spiegare perché, se il tempo non passa nella realtà, sembra che lo faccia. Quindi, qual è, secondo i teorici della B-teoria, la base della nostra esperienza dello scorrere del tempo?

Le spiegazioni che abbiamo considerato sopra, in primis delle restrizioni temporali sulla nostra esperienza, e in secundis della nostra esperienza dell’ordine temporale, non hanno fatto esplicitamente appello a nozioni tensionali, o A-teoriche. I fatti a cui ci siamo appellati sembrano puramente B-teorici: le cause sono sempre precedenti ai loro effetti; le cose tipicamente cambiano lentamente in relazione alla velocità di trasmissione della luce e del suono; le nostre capacità di elaborazione delle informazioni sono limitate; ci possono essere collegamenti causali tra ricordi ed esperienze. Quindi può darsi che il teorico B possa assolvere l’obbligo di spiegare perché il tempo sembra passare. Ma rimangono due dubbi. Primo, forse il teorico A può fornire una spiegazione più semplice della nostra esperienza. Secondo, potrebbe risultare che i presunti fatti della B-serie dipendano da quelli della A-serie, così che, per esempio, a e b sono simultanei in virtù del fatto che entrambi sono presenti.

Tuttavia, è chiaro che non esiste un argomento diretto dall’esperienza alla teoria A, poiché il presente dell’esperienza, essendo temporalmente esteso e riguardante il passato, è molto diverso dal presente oggettivo postulato dalla teoria A. Inoltre, non si può dare per scontato che il passaggio oggettivo del tempo spieghi qualsiasi cosa si pensa che sia l’esperienza del passaggio del tempo. (Vedi Prosser 2005, 2007, 2012, 2016, 2018).

La seconda questione metafisica che ha un’influenza cruciale sulla percezione del tempo è collegata alla disputa sulla teoria A/ B, ed è il dibattito tra presentisti ed eternalisti. I presentisti ritengono che esista solo il presente, mentre gli eternalisti concedono la stessa realtà a tutti i tempi (per un’articolazione dei vari tipi di presentismo, e le sfide che essi devono affrontare, si veda Bourne 2006). I due dibattiti, A-teoria contro B-teoria e presentismo contro eternalismo, non sono esattamente sovrapponibili. Probabilmente, la teoria B si impegna all’eternalismo, ma gli A-teorici potrebbero non sostenere necessariamente il presentismo (anche se Bourne sostiene che dovrebbero farlo).

Come potremmo collegare tutto ciò alla questione della percezione? Secondo la teoria indiretta (o, come viene talvolta chiamata, “rappresentazionale”) della percezione, noi percepiamo gli oggetti esterni solo percependo qualche oggetto intermedio, un dato sensoriale. Secondo la teoria diretta, al contrario, la percezione degli oggetti esterni non implica tale intermediario. Ora, gli oggetti esterni si trovano a distanze variabili da noi e, come notato sopra, poiché la luce e il suono viaggiano a velocità finita, ciò significa che lo stato degli oggetti che percepiamo si trova necessariamente nel passato. Nel caso delle stelle, dove le distanze sono molto considerevoli, l’intervallo di tempo tra la luce che lascia la stella e la nostra percezione può essere di molti anni. Il presentista sostiene che gli stati, gli eventi e gli oggetti del passato non sono più reali. Ma se tutto ciò che percepiamo nel mondo esterno è passato, allora sembra che gli oggetti della nostra percezione (o almeno gli stati degli oggetti che percepiamo) sono irreali. È arduo conciliare questo punto con la teoria della percezione diretta. Sembra quindi che i presentisti si impegnino alla teoria indiretta della percezione. (Vedi Power 2010a, 2010b, 2018, Le Poidevin 2015b.)

La terza e ultima questione metafisica che discuteremo in merito alla percezione del tempo riguarda l’asimmetria causale. La spiegazione del nostro senso di essere situati in un momento che abbiamo considerato nella sezione “Passato, presente e passaggio del tempo” poggiava sul presupposto che la causalità è asimmetrica. È stato suggerito che gli eventi successivi non possono influenzare quelli precedenti, come un fatto indipendente dalla mente, e questo è il motivo per cui non percepiamo il futuro, bensì solamente il passato. Ma i tentativi di spiegare la base dell’asimmetria causale, in termini per esempio di dipendenza controfattuale, o in termini probabilistici, sono notoriamente problematici. Una conclusione che potremmo trarre dalle difficoltà di ridurre l’asimmetria causale ad altre asimmetrie è che l’asimmetria causale è primitiva, e quindi irriducibile. Un’altra è che la ricerca di una posizione che vede l’asimmetria come indipendente dalla mente è sbagliata. Forse la causalità è intrinsecamente simmetrica, ma qualche caratteristica della nostra costituzione psicologica e della nostra relazione con il mondo fa apparire la causalità asimmetrica. Questo prospettivismo causale è la via seguita da Huw Price (1996). Che l’asimmetria causale debba essere spiegata in parte dalla nostra costituzione psicologica, in modo analogo alla nostra comprensione di qualità secondarie come il colore, è un rovesciamento radicale dei nostri assunti ordinari. Però la nostra comprensione ordinaria di un certo numero di caratteristiche apparentemente oggettive del mondo — tensionalità, simultaneità assoluta — ha incontrato sfide altrettanto radicali. Ora, se l’asimmetria causale è dipendente dalla mente in questo modo, allora non possiamo appellarci ad essa per spiegare la nostra esperienza dell’asimmetria temporale — la differenza tra passato e futuro.

Inoltre, non è affatto chiaro che una posizione prospettivista possa spiegare la percezione dell’ordine temporale. Il meccanismo suggerito da Mellor (vedi la sezione “L’ordine del tempo”) sfrutta l’asimmetria della causalità: è il fatto che la percezione di A influenza causalmente la percezione di B, ma non viceversa, che dà luogo alla percezione che A sia seguito da B. Possiamo rappresentarlo schematicamente come segue (dove la freccia sta per una relazione causale asimmetrica):

P(A)P(B)P(A<B)

Ma se non c’è un’asimmetria oggettiva, allora qual è la spiegazione? Naturalmente, possiamo ancora definire l’ordine causale in termini di relazione di intermediazione causale, e possiamo dire che l’ordine percepito segue l’ordine causale oggettivo delle percezioni. Quindi da un lato, laddove A è percepito come seguito da B, la percezione di B è sempre causalmente tra la percezione di A e la percezione che A sia seguito da B (il trattino rappresenta una relazione causale simmetrica):

P(A)– P(B)– P(A<B)

D’altra parte, quando B è percepito come seguito da A, la percezione di A è sempre causalmente tra la percezione di B e la percezione che B è seguito da A:

P(B) – P(A)) – P(B<A)

Ma cosa, secondo la visione prospettivista causale, escluderebbe il caso seguente?

P(B<A) – P(A) – P(B) – P(A<B)

Un caso del genere soddisferebbe i vincoli di cui sopra. Ma è un caso in cui A è percepito da un osservatore sia come precedente che come successivo a B, e sappiamo che un tale caso non si verifica mai nell’esperienza. “È percepito da x come seguito da” è una relazione asimmetrica (supponendo che abbiamo a che fare con una singola modalità sensoriale), e quindi una relazione che può essere fondata sulla relazione causale solo se la relazione causale è essa stessa asimmetrica. Ora, se il prospettivismo non può rispondere alla sfida di spiegare perché, quando B è percepito come successivo ad A, A non è mai percepito dallo stesso osservatore come successivo a B, sembra che la nostra esperienza dell’ordine temporale, nella misura in cui ha una spiegazione causale, richieda che la causalità sia oggettivamente asimmetrica.

Una strategia che il prospettivista causale potrebbe adottare (anzi, l’unica a sua disposizione) è quella di spiegare il principio asimmetrico di cui sopra in termini di qualche asimmetria oggettiva non-causale. Price, per esempio, ammette un’asimmetria termodinamica oggettiva, nel senso che una serie ordinata di stati dell’universo mostrerà quello che lui chiama un “gradiente termodinamico”: l’entropia sarà più bassa a un’estremità della serie, che alla fine. Dovremmo resistere alla tentazione di dire che l’entropia aumenta, perché sarebbe come affermare che una strada va in salita piuttosto che in discesa senza concedere la natura prospettica di descrizioni come “in salita”. Una tale asimmetria termodinamica potrebbe spiegare la percezione dell’ordine temporale? Questa è una domanda su cui il lettore dovrebbe riflettere.

 

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Strumenti accademici

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Voci correlate

Augustine, Saint | consciousness: temporal | memory | perception: the problem of | presentism Essere e divenire in fisica moderna | time

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