
Traduzione di Mattia Corsini e Filippo Pelucchi.
Revisione di Luca Gasparinetti, pagina originale di George Graham.
Versione: Inverno 2020 (aggiornata).
The following is the translation of George Graham’s entry on “Behaviorism” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2020/entries/behaviorism/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at <https://plato.stanford.edu/entries/behaviorism>. We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.
A volte è stato detto che “ciò che fanno gli organismi è comportarsi”. Il comportamentismo si basa su questa assunzione e il suo obiettivo è promuovere lo studio scientifico del comportamento. In particolare, non il comportamento di gruppi sociali o di culture, bensì quello dei singoli organismi, come persone e animali.
In questa voce sono considerati diversi tipi di comportamentismo. Inoltre, sono presentate le varie ragioni per rifiutare o sposare l’approccio comportamentista. A tal proposito, i contributi di questa posizione verranno considerati come utili allo studio del comportamento. Nel far ciò, ci si concentrerà maggiormente sul cosiddetto “comportamentismo radicale” proposto dal comportamentista che ha ricevuto maggiori attenzioni da filosofi, scienziati e dal pubblico in generale, B. F. Skinner (1904-1990). In questo contributo si potranno trarre anche delle lezioni generali sulla condotta della scienza comportamentale.
- 1. Che cos’è il comportamentismo?
- 2. Tipi di comportamentismo
- 3. Radici del comportamentismo
- 4. Popolarità del comportamentismo
- 5. Perché essere un comportamentista
- 6. La visione di Skinner sulla società
- 7. Perché essere anti-comportamentista
- 8. Conclusione
- Bibliografia
- Altre risorse in Internet
- Voci correlate
1. Che cos’è il comportamentismo?
Bisogna prestare attenzione alle parole che terminano con il suffisso “ismo”. Spesso infatti presentano delle variazioni di significato oscillanti tra definizioni più rigide e definizioni più fluide. Nel nostro caso, il “comportamentismo” non fa eccezione. In breve, il comportamentismo è una posizione – un modo di concepire i vincoli empirici sull’attribuzione degli stati psicologici – e una teoria – un modo di fare scienza psicologica o comportamentale.
L’illustre filosofo Wilfred Sellars (1912 –89), ha osservato che una persona può qualificarsi come comportamentista, almeno a livello di propensione verso questa corrente, se si ostina a confermare “ipotesi su eventi psicologici in termini di criteri comportamentali” (1963, p. 22). In questo senso, il comportamentista è qualcuno che richiede prove comportamentali a favore di una qualunque ipotesi psicologica. Secondo tale posizione, non c’è alcuna differenza sciibile tra due stati d’animo (credenze, desideri, ecc.) a meno che non si possa dimostrare che ci sia un qualche aspetto che differisca nel comportamento associato a ciascuno stato. Per fare un esempio, consideriamo l’attuale credenza di una persona, la quale crede che stia piovendo. Se non vi è differenza nel suo comportamento tra credere che stia piovendo e credere che non stia piovendo, allora non c’è motivo di attribuire una credenza piuttosto che un’altra. In questo modo, l’attribuzione è empiricamente vuota o non vincolata.
Probabilmente, non c’è nulla di realmente interessante nel comportamentismo inteso nelle sue accezioni generali. Semplicemente pone enfasi su prove comportamentali che sono ineludibili non solo nella scienza psicologica, ma anche nei discorsi ordinari sulla mente e sul comportamento. Chiaramente si può discutere di come le prove comportamentali rivestano un ruolo primario (specialmente nella scienza), ma aldilà di questa suggestione il ruolo del comportamentismo è indiscutibile.
Tuttavia, tale ragionamento non è valido per la teoria comportamentista, che come si vedrà è stata ampiamente e vigorosamente dibattuta. Alla luce di questa considerazione, questa voce analizza la teoria e non l’atteggiamento. Questo perché la teoria comportamentista ha infuocato il dibattito stimolando sia i sostenitori che i critici, in quanto si propone di essere una teoria, o un insieme di teorie, in grado di esplicitare le modalità in cui il comportamento è un aspetto di prima importanza non solo nella scienza della psicologia, ma nella metafisica del comportamento umano e animale.
La teoria comportamentista si impegna, nel suo senso più pieno e completo, a dimostrare la validità delle seguenti tre serie di affermazioni:
- La psicologia è la scienza del comportamento. Essa non è la scienza della mente interiore – intesa come qualcosa di diverso dal comportamento.
- Il comportamento può essere descritto e spiegato senza fare alcun riferimento a eventi mentali o processi psicologici interiori. Le fonti del comportamento sono esterne (nell’ambiente), non interne (nella mente, nella testa).
- Nel corso dello sviluppo della teoria in psicologia, se termini o concetti mentali vengono impiegati in qualche maniera nella descrizione o nella spiegazione del comportamento, allora (a) questi termini o concetti dovrebbero essere eliminati e sostituiti da termini comportamentali o (b) possono e dovrebbero essere tradotti o parafrasati attraverso concetti comportamentali.
Queste tre serie di assunzioni sono logicamente distinte e prese indipendentemente, aiutano a formare un diverso tipo di comportamentismo. Il comportamentismo “metodologico” si impegna alla verità di (1). Il comportamentismo “psicologico” si impegna alla verità di (2). Il comportamentismo “analitico” (noto anche come comportamentismo “filosofico” o “logico”) si impegna alla verità della sotto-affermazione in (3), per cui termini o concetti mentali possono, e devono, essere tradotti in concetti comportamentali.
Talvolta vengono impiegate altre nomenclature per classificare i diversi comportamentismi. Georges Rey (1997, p. 96), ad esempio, classifica i comportamentismi come “metodologico”, “analitico” e “radicale”, laddove per quest’ultimo Rey intende quello che classifico come comportamentismo psicologico. Riservo invece il termine “radicale” al comportamentismo psicologico di B. F. Skinner il quale impiega tale nomenclatura per descrivere la sua propria posizione (vedi Skinner 1974, p. 18). Nello schema di classificazione utilizzato in questa voce, il comportamentismo radicale è un sottotipo di comportamentismo psicologico, sebbene principalmente combini tutti e tre i tipi di comportamentismo (metodologico, analitico e psicologico).
2. Tre tipi di comportamentismo
Il comportamentismo metodologico è una teoria normativa sulla condotta scientifica della psicologia. Anziché occuparsi di stati o eventi mentali o cercare di fornire spiegazioni del comportamento sulla base dell’elaborazione delle informazioni interne, essa afferma che la psicologia dovrebbe concentrarsi sul comportamento degli organismi (animali umani e non-umani). Secondo il comportamentismo metodologico, il riferimento a stati mentali, come le credenze o i desideri di un animale, non aggiunge nulla a ciò che la psicologia può, e dovrebbe, comprendere sulle fonti del comportamento. Gli stati mentali infatti sono entità private che, dato il carattere manifesto e osservabile della scienza, non formano veri e propri oggetti di studio empirico. Chiunque voglia trovare indicazioni bibliografiche, il comportamentismo metodologico è un tema dominante negli scritti di John Watson (1878–1958).
Il comportamentismo psicologico è invece un programma di ricerca all’interno della psicologia. Si propone di spiegare il comportamento umano e animale in termini di stimoli fisici esterni, risposte, storie di apprendimento e (per alcuni tipi di comportamento) rinforzi. Per quanto riguarda questa posizione, si trovano riferimenti bibliografici in Ivan Pavlov (1849–1936), Edward Thorndike (1874–1949) e Watson. La sua espressione più completa e influente è presente nel lavoro di B.F. Skinner sui programmi di rinforzo.
Per illustrare questo punto, si consideri un topo affamato che si trova in una camera speciale, nella quale, se un movimento particolare (come premere una leva quando una luce è accesa) è seguito dalla presentazione del cibo, allora la probabilità che il topo prema la leva quando la luce è accesa aumenta. Le presentazioni sono rinforzi, le luci sono stimoli (discriminatori), mentre le pressioni sulla leva sono risposte: in breve, tali processi o associazioni rappresentano una storia di apprendimento.
Il comportamentismo analitico o logico è una teoria all’interno della filosofia sul significato o sulla semantica di termini o concetti mentali. Tale teoria sostiene che l’idea stessa di uno stato o condizione mentale si riduce ad una disposizione comportamentale o ad una famiglia di tendenze comportamentali, che emergono dal comportamento di una persona in diverse situazioni. In questo senso, quando per esempio attribuiamo una credenza a qualcuno, non stiamo dicendo che lui/lei si trova in un particolare stato o condizione interna. Piuttosto, stiamo caratterizzando la persona in termini di ciò che potrebbe fare in particolari situazioni o interazioni ambientali. In generale, il comportamentismo analitico si può far risalire al lavoro di Gilbert Ryle (1900–1976) e all’opera successiva di Ludwig Wittgenstein (1889–1951) (forse non senza delle controversie interpretative, nel caso di quest’ultimo). Più recentemente, il filosofo-psicologo U.T. Place (1924–2000) ha sostenuto un tipo di comportamentismo analitico limitato a stati mentali intenzionali o rappresentazionali, come le credenze, che egli considerava un tipo di mentale, anche se non l’unico (vedi Graham e Valentine 2004). Probabilmente, una versione di comportamentismo analitico o logico si può trovare anche nel lavoro di Daniel Dennett sull’attribuzione degli stati di coscienza tramite un metodo che chiama “etero-fenomenologia” (Dennett 2005, pp. 25 – 56). (Vedi anche Melser 2004.)
3. Le radici del comportamentismo
Ogni tipo di comportamentismo (metodologico, psicologico, analitico che sia) ha dei fondamenti storici. Il comportamentismo analitico risale infatti al movimento filosofico noto come positivismo logico (vedi Smith 1986) secondo cui il significato delle affermazioni usate nella scienza viene compreso in termini di condizioni sperimentali o osservazioni che ne verifichino la correttezza. Tale teoria, nota in psicologia come “verificazionismo”, è alla base del comportamentismo analitico nella maniera in cui i concetti mentali vengono tradotti e intrepretati in termini comportamentali.
Il comportamentismo analitico aiuta a evitare una posizione metafisica nota come dualismo delle sostanze, vale a dire la teoria secondo la quale gli stati mentali hanno luogo in una speciale sostanza mentale non-fisica (la mente immateriale). Al contrario, per il comportamentismo analitico, la credenza che possiedo quando arrivo in tempo per un appuntamento dal dentista alle 14:00, cioè che ho un appuntamento alle 14:00, non è la proprietà di una sostanza mentale: credere è un insieme di tendenze corporee. Inoltre, non possiamo identificare la credenza sul mio arrivo indipendentemente da questo o da altre tendenze. Quindi, non possiamo nemmeno trattarlo come la causa dell’arrivo. Come insegnava Hume, causa ed effetto sono concetti che esistono separatamente. Alla luce di ciò, credere di avere un appuntamento per le 14:00 non è distinto dal mio arrivo e quindi non può essere parte dei suoi fondamenti causali.
Le radici storiche del comportamentismo psicologico affondano, in parte, nell’associazionismo classico degli empiristi britannici, soprattutto di John Locke (1632–1704) e di David Hume (1711–1776). Secondo l’associazionismo classico, il comportamento intelligente è il prodotto dell’apprendimento associativo, vale a dire un risultato di associazioni o accoppiamenti tra esperienze o stimoli percettivi da un lato, e idee o pensieri dall’altro, tramite cui persone e animali imparano a conoscere l’ambiente, la struttura causale del mondo e ad agire. Risulta più utile però considerare l’associazione come l’acquisizione di conoscenze sulle relazioni tra gli eventi. Infatti, l’intelligenza nel comportamento è un segno di tale conoscenza.
Se l’associazionismo classico si basava su entità introspettive laddove in un primo momento del processo associativo l’associazione avveniva tra esperienze e stimoli percettivi, e successivamente si associavano idee o pensieri, per il comportamentismo psicologico invece vi sono dei cambiamenti. Motivato da interessi sperimentali, questa posizione afferma che per comprendere le origini del comportamento, il riferimento a stimolazioni (esperienze) dovrebbe essere sostituito dal riferimento a stimoli (eventi fisici nell’ambiente) e che il riferimento a pensieri o idee dovrebbe essere eliminato (o spostato) a favore del riferimento alle risposte (comportamento manifesto, movimenti motorii). Con questa mossa, il comportamentismo psicologico risulta essere come l’associazionismo classico senza però appellarsi ad eventi mentali interiori.
Ma gli esseri umani non parlano di entità, pensieri, sensazioni ecc. anche se questi non sono riconosciuti dal comportamentismo, o compresi più correttamente come tendenze comportamentali? I comportamentisti psicologici considerano la pratica di parlare dei propri stati d’animo, e di riferire introspettivamente quegli stati, come dati utili negli esperimenti psicologici, ma senza ammettere la soggettività metafisica o la presenza non-fisica di quegli stati. Sebbene ci siano diversi tipi di cause dietro i rapporti introspettivi, i comportamentisti psicologici ritengono che questi, e altri elementi dell’introspezione, si possano sottoporre ad un’analisi comportamentale. (Per ulteriori discussioni, vedi la sezione 5 di questa voce). (Vedi, per fare un confronto, il metodo etero-fenomenologico di Dennett; Dennett 1991, pp. 72–81)
Quindi il compito del comportamentismo psicologico è quello di specificare i tipi di associazione; capire come gli eventi ambientali controllano il comportamento; scoprire e chiarire che tipo di relazioni funzionali governano la formazione delle associazioni; prevedere come cambierà il comportamento al variare dell’ambiente. Inoltre, la parola “condizionamento” è usata per specificare il processo coinvolto nell’acquisizione di nuove associazioni. Per esempio, gli animali nei cosiddetti esperimenti di condizionamento “operante” piuttosto che imparare a premere le leve colgono la relazione tra eventi nel loro ambiente (che un particolare comportamento, ad esempio premere la leva nelle presenze di una luce, fa comparire il cibo).
Nelle sue radici storiche, il comportamentismo metodologico condivide con il comportamentismo analitico l’influenza del positivismo. Uno degli obiettivi principali del positivismo era quello di unificare la psicologia con la scienza naturale. A tal proposito, Watson ha scritto che “la psicologia, per come la vede un comportamentista, è una branca sperimentale puramente oggettiva della scienza naturale. I suoi obiettivi teorici sono […] la previsione e il controllo” (1913, p. 158). Watson ha anche scritto in merito allo scopo della psicologia: “Dato lo stimolo, prevedere quale reazione avrà luogo; oppure, data la reazione, indicare quale sia la situazione o lo stimolo che ha causato tale reazione” (1930, p. 11).
Sebbene logicamente distinti, il comportamentismo metodologico, psicologico e analitico si trovano talvolta riuntiti in un unico comportamentismo. Il comportamentismo radicale di Skinner che combina tutte e tre le forme di comportamentismo ne è un esempio. Sebbene in maniera piuttosto vaga, egli segue restrizioni analitiche nel parafrasare termini mentali comportamentali, quando non possono essere eliminati dal discorso esplicativo. In Verbal Behaviour (1957) e altrove, Skinner cerca infatti di mostrare come si possano dare interpretazioni comportamentali ai termini mentali. In About Behaviorism (1974) afferma che quando la terminologia mentale non può essere eliminata, allora può essere “tradotta in comportamento” (p. 18, Skinner racchiude l’espressione tra virgolette).
Per concludere, il comportamentismo radicale occupandosi del comportamento degli organismi e non dell’elaborazione interna (se trattata o descritta in modo diverso dal comportamento manifesto) risulta essere una forma di comportamentismo metodologico. Il comportamentismo radicale, inoltre, concepisce il comportamento come un riflesso degli effetti di frequenza tra gli stimoli, il che significa che in questo aspetto assume una forma di comportamentismo psicologico.
4. Popolarità del comportamentismo
Il comportamentismo, di qualunque forma si parli, è stato un programma che ha riscosso una notevole notorietà e che ha spinto molti studenti a confrontarsi con le sue tesi, a partire dagli anni ‘30 del XX secolo almeno fino agli inizi della svolta cognitiva che maturò all’incirca tra il 1960 e il 1985 (vedi Bechtel, Abrahamsen e Graham, 1998, pp. 15–17). Oltre a Ryle e Wittgenstein, i filosofi con simpatie per il comportamentismo includevano Carnap (1932–1933), Hempel (1949) e Quine (1960). Quest’ultimo, ad esempio, ha adottato un approccio comportamentista per lo studio del linguaggio affermando che la nozione di attività psicologica o mentale non abbia posto in una spiegazione scientifica delle origini o del significato del discorso. Parlare in modo scientificamente disciplinato del significato di un’espressione significa infatti parlare di stimoli per l’espressione, il suo cosiddetto “significato di stimolo”. Inoltre, Hempel (1949) ha affermato che “tutte le affermazioni psicologiche che sono significative […] sono traducibili in affermazioni che non coinvolgono concetti psicologici”, ma solo concetti per il comportamento fisico (p. 18).
Tra gli psicologi il comportamentismo era ancora più popolare che tra i filosofi. Oltre a Pavlov, Skinner, Thorndike e Watson, l’elenco dei comportamentisti tra gli psicologi includeva, tra gli altri, E.C. Tolman (1886–1959), C.L. Hull (1884–1952) ed E.R. Guthrie (1886–1959). Tolman, ad esempio, ha scritto che “tutto ciò che è importante in psicologia […] può essere investigato essenzialmente attraverso la continua analisi sperimentale e teorica dei fattori che determinano il comportamento dei topi in un punto a scelta di un labirinto” (1938, p. 34).
I comportamentisti hanno fondato riviste, società organizzate e programmi di laurea in psicologia che riflettevano sul comportamentismo. Inoltre, si sono organizzati in diversi tipi di centri specializzati di ricerca, le cui differenze derivavano da fattori quali i diversi approcci al condizionamento e alla sperimentazione. Alcuni sono stati denominati nei modi seguenti: “analisi sperimentale del comportamento”, “analisi del comportamento”, “analisi funzionale” e, naturalmente, “comportamentismo radicale”. Queste etichette a volte erano responsabili dei titoli delle principali società e riviste del comportamentismo, tra cui la Society for the Advancement of Behavior Analysis (SABA) e il Journal of the Experimental Analysis of Behavior (fondato nel 1958) e il Journal of Applied Behavior Analysis (fondato nel 1968).
Il comportamentismo, inoltre, ha prodotto un tipo di terapia, nota come “terapia comportamentale” (vedi Rimm e Masters 1974; Erwin 1978). Ha sviluppato tecniche di gestione del comportamento per bambini autistici (vedi Lovaas e Newsom 1976) ed economie simboliche per la gestione degli schizofrenici cronici (vedi Stahl e Leitenberg 1976). Ha alimentato le discussioni su come comprendere meglio il comportamento degli animali e sull’importanza degli studi di laboratorio su tale comportamento in relazione all’ambiente naturale (vedi Schwartz e Lacey 1982).
Il comportamentismo, nonostante il largo consens,o è stato vittima di attacchi circa alcune tesi della sua posizione. Una delle difficoltà riguarda la confusione sugli effetti del rinforzo sul comportamento (vedi Gallistel 1990). Nel suo senso originale, uno stimolo come il cibo è un rinforzo solo se il fatto di presentarlo aumenta la frequenza di una risposta in un tipo di condizionamento associativo, noto come “condizionamento operante”. Un problema con questa definizione è che definisce i rinforzi come stimoli che modificano il comportamento. Presentare il cibo, tuttavia, può non avere alcun effetto osservabile sulla frequenza di risposta rispetto al cibo, anche nei casi in cui un animale è senza cibo o affamato. Piuttosto, la frequenza di risposta può essere associata alla capacità di un animale di identificare e ricordare le proprietà temporali o spaziali delle circostanze in cui gli viene presentato uno stimolo (ad esempio, il cibo). Questa e altre difficoltà hanno portato a modificare le assunzioni a cui si impegnava il comportamentismo e a sviluppare nuovi orizzonti di ricerca. Un’alternativa si è diretta verso lo studio del ruolo della memoria a breve termine nel contribuire agli effetti di rinforzo sulla cosiddetta “traiettoria del comportamento” (vedi Killeen 1994).
Un altro ostacolo, nel caso del comportamentismo analitico, è il fatto che le frasi comportamentali, che intendono offrire parafrasi comportamentali dei termini mentali, utilizzano quasi sempre i termini mentali stessi (vedi Chisholm 1957). Nell’esempio della mia credenza di avere un appuntamento dal dentista alle 14:00, si deve anche parlare del mio desiderio di arrivare alle 14:00, altrimenti il comportamento di arrivare alle 14:00 non potrà valere come credenza che io abbia un appuntamento a quell’ora. Il termine “desiderio” è infatti un termine mentale. In generale, i critici del comportamentismo analitico hanno affermato che non possiamo mai sfuggire all’uso di termini mentali nella caratterizzazione del loro significato. Ciò suggerisce che il discorso sul mentale non possa essere sostituito dal discorso comportamentale, almeno non parola per parola. Accogliendo questo suggerimento, forse i comportamentisti analitici potrebbero parafrasare un’intera serie di termini mentali in una volta sola, così da riconoscere che l’attribuzione di uno di questi termini mentali presupponga l’applicazione degli altri (vedi Rey 1997, p. 154–5).
5. Perché essere un comportamentista
Perché qualcuno dovrebbe essere un comportamentista? I motivi principali sono tre (cfr. anche Zuriff 1985).
Il primo motivo è di carattere epistemico o probatorio. La garanzia o l’evidenza per aver detto, perlomeno nel caso in terza persona, che un animale o una persona si trovi in un certo stato mentale, come, ad esempio, il fatto che possieda una certa credenza, è radicata nel comportamento, inteso come comportamento osservabile. Inoltre, lo spazio concettuale o il passaggio tra l’affermazione secondo cui il comportamento giustifica l’attribuzione della credenza e l’affermazione secondo cui credere consista nel comportamento stesso, è un passo breve e in qualche modo attraente. Se osserviamo, ad esempio, come viene insegnato alle persone l’uso dei concetti e dei termini mentali, quali “credere”, “desiderare” e così via, le condizioni di utilizzo sembrano connesse in maniera inseparabile con le tendenze comportamentali che si hanno in determinate circostanze. Se l’attribuzione dello stato mentale ha un legame speciale con il comportamento, allora si è tentati di dire che il mentale consiste solamente in tendenze comportamentali.
Il secondo motivo può essere espresso come segue: una grande differenza tra le spiegazioni mentalistiche (stati mentali presenti nella testa) e tra quelle associazioniste o condizionanti del comportamento, risiede nel fatto che le prime tendono ad assumere un forte innatismo. Questo è vero anche se potrebbe non esserci nulla di intrinsecamente innato nelle spiegazioni mentalistiche (vedi Cowie 1998).
Le spiegazioni mentalistiche tendono ad assumere, e talvolta sposano anche esplicitamente (vedi Fodor 1981), l’ipotesi secondo cui la mente possiede alla nascita, o in maniera innata, un insieme di procedure o regole interne di rappresentazione che vengono implementate quando si impara o si acquisiscono nuove risposte. Il comportamentismo invece è contrario ad istanze innatiste: esso, quindi sostiene, come Skinner e Watson, che non ci siano regole innate con cui gli organismi imparano. L’apprendimento, al contrario, non consiste, perlomeno inizialmente, in un comportamento governato da regole, ma è ciò che compiono gli organismi in risposta a degli stimoli: un organismo, per un comportamentista, impara, per così dire, dai suoi successi e dai suoi errori. “Le regole”, afferma Skinner (1984a), “derivano da eventualità, che specificano stimoli, risposte e conseguenze discriminanti” (p. 583). (Vedi anche Dennett 1978).
Gran parte del lavoro contemporaneo svolto dalle scienze cognitive sull’insieme di modelli noti come “modelli di elaborazione parallela distribuita” (MEPD) sembra condividere l’anti-innatismo del comportamentismo nei confronti dell’apprendimento. La creazione di modelli MEPD infatti adotta un approccio all’apprendimento orientato alla risposta, piuttosto che governato da regole, e questo perché, come il comportamentismo, tali modelli hanno radici nell’associazionismo (vedi Bechtel 1985; confronta Graham 1991 con Maloney 1991). Se i modelli MEPD sono o devono essere in definitiva anti-innatisti, questo dipende da quelle che vengono ritenute regole native o innate (Bechtel e Abrahamsen 1991, pp. 103–105).
Il terzo motivo per appellarsi al comportamentismo, popolare perlomeno a livello storico, è legato al suo disprezzo in riferimento all’elaborazione mentale, o mentale interiore, delle informazioni come cause esplicative del comportamento. Tale disdegno viene esemplificato fortemente dal lavoro di Skinner, che propone un forte scetticismo sui riferimenti esplicativi all’interiorità mentale.
Supponiamo di spiegare il comportamento pubblico di una persona descrivendo come si rappresenta, concettualizza o pensa alla propria situazione. Supponiamo ora che concepisca o pensi uno scenario in un certo modo, non vuoto e con oggetti senza proprietà, ma con cose, alberi, persone, trichechi, muri e portafogli. Supponiamo anche di affermare che una persona non interagisca mai solo con il proprio ambiente, ma piuttosto con l’ambiente altrui mentre lo percepisce, lo vede o lo rappresenta. Quindi, per esempio, pensando a qualcosa come un portafoglio, una persona è intenzionata a prenderlo. Percependo qualcosa come un tricheco, ci si allontana. Classificando qualcosa come un muro, non ci si sbatte contro. Quindi, così inteso, il comportamento è un movimento prodotto in modo endogeno, vale a dire un comportamento che ha la propria origine causale all’interno della persona che pensa o rappresenta la propria situazione in un certo modo.
Skinner si opporrebbe a tali affermazioni, non perché creda che l’occhio “sia innocente” o che l’attività interiore o endogena non si verifichi, ma piuttosto perché pensa che il comportamento debba essere spiegato in termini che non presuppongono la stessa cosa che deve essere spiegata. Il comportamento esterno (pubblico) di una persona non può quindi essere spiegato facendo riferimento al suo comportamento interno (elaborazione interna, attività cognitiva, ad esempio la sua classificazione o l’analisi del suo ambiente) se, in quest’ultimo, il comportamento della persona risulta inspiegabile. A tal proposito, Skinner affermò che “l’obiezione agli stati interni non afferma che questi non esistano, ma che non siano rilevanti all’interno di un’analisi funzionale” (Skinner 1953, p. 35), laddove per “non rilevanti” si intende circolari o regressivi.
Skinner infatti ritiene che poiché l’attività mentale è una forma di comportamento (seppure interiore), l’unico modo non regressivo e non circolare per spiegare il comportamento è fare appello a qualcosa di non-comportamentale. Questo qualcosa di non-comportamentale sono gli stimoli ambientali e le interazioni di un organismo con l’ambiente e il suo rinforzo.
Dunque, il terzo motivo per appellarsi al comportamentismo risiede nel fatto che quest’ultimo cerca di evitare spiegazioni circolari e regressive del comportamento. Esso intende, infatti, astenersi dalla spiegazione di un tipo di comportamento (manifesto) nei termini di un altro tipo (latente), lasciandolo così in un primo momento, senza spiegazione.
Va notato come le opinioni di Skinner in merito alla spiegazione, e alla presunta circolarità di quest’ultima, siano estreme e scientificamente contestabili. Inoltre, va sottolineato che molti autori si sono auto-identificati come comportamentisti, tra cui Guthrie, Tolman e Hull, altri invece mantengono la linea tradizionale, nella sua accezione più ampia, come Killeen (1987) e Rescorla (1990), o si sono opposti alla posizione di Skinner circa i riferimenti esplicativi all’interiorità mentale. Anche lo stesso Skinner non è sempre chiaro sulla sua avversione nei confronti dell’interiorità. Il suo atteggiamento deriva, in parte, non solo da paure di circolarità esplicativa, ma anche da una convinzione. Se al linguaggio della psicologia è consentito di fare riferimento all’elaborazione interna, ciò giustifica in qualche modo il permesso di parlare di sostanze mentali immateriali, agenti dotati di libero arbitrio contro-causale e piccole persone (omuncoli) all’interno dei corpi, cioè entità incompatibili con una visione scientifica del mondo (vedi Skinner 1971; vedi anche Day 1976). Infine, va notato come tale avversione non sia nei confronti di stati mentali interni o di processi di per sé, in quanto, ammette, che pensieri privati ed entità simili esistano. Skinner, quindi, concepisce la possibilità di parlare di eventi interiori, ma solamente a condizione che la loro interiorità sia trattata allo stesso modo del comportamento pubblico o delle risposte manifeste. In questo modo egli sostiene che un’adeguata scienza del comportamento debba descrivere gli eventi che si svolgono all’interno dell’organismo come parti del comportamento stesso (vedi Skinner 1976). “Per quanto mi riguarda”, scrisse nel 1984 in un’edizione speciale di Behavioral and Brain Sciences dedicata al suo lavoro, “qualunque cosa avvenga quando esaminiamo uno stimolo pubblico è sotto tutti gli aspetti simile a quello che succede quando ne osserviamo uno privato per mezzo dell’introspezione” (Skinner 1984b, p. 575; confronta Graham 1984, pp. 558–9).
Skinner non ha molto da dire su come il comportamento interiore (latente, privato, come pensare, classificare e analizzare) possa essere descritto allo stesso modo del comportamento pubblico o manifesto. Ma la sua idea è più o meno la seguente: proprio come possiamo descrivere il comportamento manifesto o il movimento motorio attraverso concetti come stimolo, risposta, condizionamento, rinforzo e così via, allo stesso modo possiamo impiegare gli stessi termini per descrivere il comportamento interiore o latente. Pertanto, un pensiero o una linea di pensiero può rafforzarne un altro, un atto di analisi può servire da stimolo per un lavoro di classificazione e così via. Quindi, le attività puramente “mentalistiche” possono essere, perlomeno in maniera approssimativa, analizzate in termini di concetti comportamentali – un argomento che verrà rivisto più avanti nella sezione 7.
6. La visione di Skinner sulla società
Skinner è l’unica figura importante nella storia del comportamentismo ad offrire una visione del mondo sociale basata sul suo impegno per la causa comportamentista. Egli elaborò una teoria e una cornice narrativa in Walden Two (1948) che raffigura come potrebbe essere una società umana ideale se progettata secondo i principi comportamentali (vedi anche Skinner 1971). La visione di Skinner sulla società illustra la sua avversione nei confronti del libero arbitrio, degli omuncoli e del dualismo, nonché le sue ragioni positive per affermare che il comportamento di una persona dipenda dalla storia delle interazioni ambientali in cui essa è coinvolta.
Una possibile caratteristica del comportamento umano che Skinner rifiuta volutamente è quella secondo cui le persone creano liberamente o creativamente i propri ambienti (vedi Chomsky 1971, Black 1973). Egli protesta che “è nella natura di un’analisi sperimentale del comportamento umano, la rimozione delle funzioni precedentemente assegnate a una persona libera o autonoma per trasferirle, una ad una, all’ambiente di controllo” (1971, p. 198).
Di fronte alla cornice sociale delineata da Skinner sono state formulate diverse critiche tra cui una delle più persuasive, e certamente una delle più frequenti, indirizzata alla sua visione della società umana ideale. Nello specifico, riguarda una domanda posta al fondatore immaginario di Walden Two, Frazier, da parte del filosofo Castle, il quale chiese quale fosse il modo migliore per esistere in società o in comunità per un essere umano. Per bocca di Frazier, Skinner risponde esaltando i valori della salute, dell’amicizia, della tranquillità, del riposo e così via sottolineando però che la domanda sia in realtà troppo generica e incompleta. Tuttavia, questi valori sembrano non costituire le fondamenta di un sistema sociale.
Infatti, si palesa una difficoltà decisiva per la teoria sociale non appena ci si chiede nel dettaglio in che modo debba essere presentato un progetto per una società nuova ed ideale. (Vedi Arnold 1990, pp. 4–10). Skinner identifica le basi della società con i principi comportamentali e con gli stimoli formativi, sperando che essi riducano le ingiustizie sistematiche presenti nei sistemi sociali. Descrive anche alcune pratiche (riguardanti l’educazione dei bambini e simili) che hanno lo scopo di contribuire alla felicità umana. Tuttavia, offre solo vagamente le descrizioni della vita quotidiana dei cittadini di Walden Two, senza fornire nessun suggerimento su come risolvere al meglio le controversie derivanti da stili di vita alternativi che sono prima facie coerenti con i principi comportamentali (vedi Kane 1996, p. 203). Egli presta scarsa attenzione, se non nulla, al seguente problema generale e cruciale: la risoluzione interpersonale dei conflitti e il ruolo svolto dagli accordi istituzionali nella risoluzione di quest’ultimi.
In un saggio pubblicato in The Behavior Analyst (1985), quasi quarant’anni dopo la pubblicazione di Walden Two, Skinner, nelle vesti di Frazier, cercò di chiarire maggiormente la sua caratterizzazione delle circostanze umane ideali. A tal proposito, affermò che nella società umana ideale “le persone fanno naturalmente le cose che devono fare per mantenersi […] e trattarsi bene l’un l’altro, e naturalmente fanno un centinaio di altre cose che amano fare perché non devono farle” (p. 9). Tuttavia, evidentemente, “fare cento cose che gli esseri umani amano fare” significa solo che Walden Two è definito in modo vago, non che le sue abitudini culturalmente istituite e il carattere delle sue istituzioni meritino di essere emulate.
Quindi, l’incompletezza della descrizione di Skinner della società o della vita umana ideale è così ampiamente riconosciuta che ci si potrebbe chiedere se gli esperimenti reali nella vita di Walden Two possano fornire suggerimenti utili al suo progetto. A tal proposito, sono stati compiuti diversi esperimenti sociali di questo tipo, tra cui, forse il più interessante (in parte perché la comunità si è evoluta lontana dalle radici skinneriane), la Twin Oaks Community in Virginia, negli Stati Uniti (vedi Altre risorse in Internet).
7. Perché essere anti-comportamentista
Il comportamentismo viene respinto dagli scienziati cognitivi che sviluppano intricati modelli interni di elaborazione delle informazioni cognitive. Le sue routine di laboratorio o i suoi metodi sperimentali vengono trascurati da etologi cognitivi e psicologi ecologici, entrambi convinti che le sue tecniche siano irrilevanti per studiare come gli animali e le persone si comportano nel loro ambiente naturale e sociale. La sua tradizionale relativa indifferenza nei confronti delle neuroscienze e il rispetto che viene riservato alle contingenze ambientali invece è respinto dai neuroscienziati, certi che lo studio diretto del cervello sia l’unico modo per comprendere le vere cause scatenanti del comportamento.
Nonostante le critiche, il comportamentismo non è affatto scomparso. Elementi chiave sopravvivono sia nella terapia comportamentale che nella teoria dell’apprendimento degli animali basata su esperimenti condotti in laboratorio (di cui si dirà maggiormente più avanti). Anche nella metafisica della mente, i temi comportamentisti sopravvivono nel dibattito nei panni del funzionalismo, che definisce gli stati mentali come stati che svolgono ruoli causal-funzionali negli animali o nei sistemi in cui si trovano. Paul Churchland, in merito al funzionalismo, scrisse che: “la caratteristica essenziale o distintiva di qualsiasi tipo di stato mentale è l’insieme delle relazioni causali che porta a un […] comportamento fisico” (1984, p. 36). Questa posizione è simile all’idea comportamentista secondo cui il riferimento al comportamento e alle relazioni di stimolo/risposta sono essenziali per qualsiasi spiegazione abbia lo scopo di chiarire cosa significhi comportarsi o essere soggetti all’attribuzione di stati mentali nello schema del comportamentismo analitico o logico.
I sostenitori della cosiddetta ipotesi della mente estesa (IME), ad oggi ampiamente discussa, condividono anche una certa affinità con il comportamentismo o perlomeno con quello proposto da Skinner. L’ipotesi che definisce l’IME sostiene infatti che la rappresentazione “mentale” sia una questione che riguarda il cervello o la testa nel mondo e nell’ambiente culturale (Levy 2007). Secondo tale ipotesi, le rappresentazioni, intese come cose esterne alla testa, intrattengono speciali relazioni di individuazione con apparati esterni o con forme di attività culturale. I timori di Skinner nel descrivere il potere della rappresentazione mentale come qualcosa confinato alla testa (cervello, mente interiore) sono, perlomeno vagamente, paragonabili allo spostamento di IME nel descrivere la rappresentazione come estesa dal punto di vista ambientale.
Le cose stanno così. Eppure, il comportamentismo non è più il programma di ricerca dominante.
Ma perché l’influenza del comportamentismo è diminuita? La ragione più profonda e complessa del suo declino riguarda la tesi secondo cui il comportamento può essere spiegato senza fare riferimento all’attività mentale non comportamentale e interiore (cognitiva, rappresentazionale o interpretativa). Infatti, il comportamento, per Skinner, può essere spiegato solo facendo riferimento alla sua relazione “funzionale” (termine di Skinner) o alla co-variazione con l’ambiente e alla storia dell’interazione ambientale dell’animale. Inoltre, condizioni neurofisiologiche e neurobiologiche sostengono o implementano queste relazioni funzionali o causali, ma non servono come fonti indipendenti o ultime per le spiegazioni del comportamento che non possiamo spiegare “restando interamente all’interno [di un animale]. Alla fine dobbiamo rivolgerci alle forze che operano sull’organismo dall’esterno” Skinner (1953). “A meno che non ci sia un punto debole nella nostra catena causale tale che il secondo anello [quello neurologico] non sia legittimamente determinato dal primo [stimoli ambientali], o il terzo [comportamento] dal secondo, il primo e il terzo anello devono essere legittimamente collegati” (p. 35). “Informazioni valide sul secondo anello possono far luce su questa relazione, ma non possono in alcun modo alterarla.” (ibid.) Sono così “variabili esterne di cui il comportamento è una funzione.” (ibid.)
Skinner non assunse un atteggiamento trionfale nei confronti delle neuroscienze che secondo lui identificano più o meno solo i processi fisici dell’organismo che stanno alla base delle interazioni animale/ambiente. In questo, Skinner ricalca il motivo probatorio o epistemico della precedente descrizione di tali interazioni da parte del comportamentismo radicale. “L’organismo”, dice, “non è vuoto, e non può essere adeguatamente trattato semplicemente come una scatola nera” (1976, p. 233). “Oggi viene fatto qualcosa che influenzerà domani il comportamento dell’organismo” (p. 233). Le neuroscienze descrivono quindi meccanismi all’interno della scatola che consentono allo stimolo rinforzante attuale di influenzare il comportamento di domani. La scatola neurale non è vuota, ma non è in grado, tranne nel caso di un malfunzionamento o di un guasto, di disimpegnare l’animale dai modelli di comportamento passati che sono stati rinforzati. Non può, infine, esercitare un’autorità compensativa indipendente o non ambientale sul comportamento.
Per molti critici del comportamentismo sembra ovvio che, come minimo, l’occorrenza e il carattere del comportamento (specialmente di quello umano) non dipendano principalmente dalla storia rinforzata di un individuo, anche se questo è un fattore, ma dal fatto che l’ambiente o la storia dell’apprendimento è rappresentato da un individuo e dal modo in cui viene rappresentato. Il fatto che io mi rappresenti l’ambiente limita, o comunica, le relazioni funzionali o causali presenti tra il mio comportamento e l’ambiente. Inoltre, da una prospettiva anti-comportamentista, può disimpegnare parzialmente il mio comportamento dalla sua storia condizionante o rinforzata. Quindi, non importa quanto instancabilmente e ripetutamente sono stato rinforzato per indicare o mangiare un gelato: una storia del genere è debole se non vedo un potenziale stimolo come un gelato, o lo rappresento a me stesso come gelato o se voglio nascondere il fatto che qualcosa è un gelato per gli altri. In ultima analisi, la mia storia condizionante, non dipendente da una mia rappresentazione, è a livello comportamentale meno importante dell’ambiente o della mia storia di apprendimento da me rappresentata o interpretata.
Allo stesso modo, per molti critici del comportamentismo, se la rappresentazione è presente tra l’ambiente e il comportamento, questo implica che l’atteggiamento di Skinner, verso il ruolo svolto dai meccanismi cerebrali nella produzione o nel controllo del comportamento, è troppo severo o rigido. Il cervello infatti non è una semplice banca dati passiva delle interazioni comportamento/ambiente (vedi Roediger e Goff 1998). Il sistema nervoso centrale, che altrimenti sostiene la mia storia rinforzata, contiene invece sistemi o sottosistemi neuro-computazionali che implementano o codificano qualsiasi contenuto rappresentazionale fornito dall’ambiente circostante. Inoltre, è anche una macchina di interpretazione attiva o un motore semantico, in quanto esegue, spesso in modo critico, attività di controllo del comportamento slegato dall’ambiente. Tale discorso concernente la rappresentazione o l’interpretazione, tuttavia, è una prospettiva da cui il comportamentismo — sicuramente quello di Skinner — desidera e cerca di allontanarsi.
Una delle aspirazioni principali del comportamentismo tradizionale consisteva nel tentativo di liberare la psicologia dalla necessità di avanzare teorie su come gli animali e le persone rappresentano (internamente, nella testa) il loro ambiente. La rivendicazione di tale libertà è stata storicamente importante in quanto sembrava che le connessioni comportamentali/ambientali fossero molto più chiare e gestibili dal punto di vista sperimentale rispetto alle rappresentazioni interne. Tuttavia, per il comportamentismo è difficile immaginare una regola più restrittiva per la psicologia rispetto a quella che proibisce le ipotesi avanzate in merito alla memorizzazione e all’elaborazione rappresentazionale. Stephen Stich, ad esempio, contesta nei confronti di Skinner che “ora disponiamo di un’enorme quantità di dati sperimentali che, a quanto pare, non avrebbero senso se non postulassimo qualcosa di simile” ai meccanismi di elaborazione dell’informazione presenti nelle teste degli organismi (1998, p. 649).
Una seconda ragione per rifiutare il comportamentismo poggia le sue basi sulla considerazione che alcuni elementi del mentale – alcuni aspetti, in particolare, della vita mentale cosciente delle persone – sono caratterizzati dal possesso di “qualia” o di qualità che si presentano come immediate o fenomeniche. Provare dolore, ad esempio, non significa semplicemente incorrere in un appropriato comportamento doloroso all’interno delle giuste circostanze ambientali, ma vuol dire avere un’esperienza “simile” al dolore (come qualcosa di noioso o acuto, forse). Una creatura puramente comportamentista, uno “zombie”, per così dire, può incorrere in comportamenti dolorosi, includendo anche le risposte al dolore cutaneo, ma è completamente privo di ciò che è qualitativamente distintivo e proprio del dolore (la sua dolorosità). (Vedi anche Graham 1998, pp. 47 – 51 e Graham e Horgan 2000. Sulla portata fenomenica della mente umana, vedi Graham, Horgan e Tienson 2009).
Il filosofo-psicologo U.T. Place, sebbene ben disposto all’applicazione delle idee comportamentiste alle questioni mentali, sosteneva che i qualia fenomenici non possano essere analizzati in termini comportamentisti. Affermò invece che non sono né comportamento né disposizioni comportamentali. “Essi sono percepiti”, disse, “nel momento in cui si ha un’esperienza che fa venire alle luce i qualia” (2000, p. 191; ristampata in Graham e Valentine 2004). Sono caratteristiche istantanee di processi o di eventi piuttosto che disposizioni manifestate nel corso del tempo. Eventi mentali qualitativi (come sensazioni, esperienze percettive e così via), per Place, si comportano come disposizioni fondamentali piuttosto che come mere disposizioni. In effetti, si è tentati di ritenere che gli aspetti qualitativi del mentale influenzino gli elementi non qualitativi dei processi interni e che, ad esempio, contribuiscano all’eccitazione, all’attenzione e alla ricettività al condizionamento associativo.
La terza ragione si deve a Noam Chomsky, uno dei critici più influenti e dannosi per il comportamentismo. In una recensione del libro di Skinner sul comportamento verbale (vedi sopra), Chomsky (1959) ha affermato che i modelli comportamentisti di apprendimento linguistico non possono spiegare diversi fatti sull’acquisizione del linguaggio, come la sua rapida acquisizione da parte dei bambini piccoli, che a volte viene chiamato “fenomeno della esplosione lessicale”. Le capacità linguistiche di un bambino sembrano essere radicalmente sotto-determinate dall’evidenza del comportamento verbale nel breve periodo in cui il bambino esprime tali capacità. All’età di quattro o cinque anni, i bambini hanno infatti una capacità pressoché illimitata di comprendere e produrre frasi che non hanno mai sentito prima. Inoltre, Chomsky ha anche affermato la presunta falsità che l’apprendimento delle lingue dipenda dall’applicazione di rinforzi dettagliati. Un bambino madrelingua inglese, in presenza di una casa, non pronuncia ripetutamente “casa” supportato da rinforzi precedenti. Il linguaggio in quanto tale sembra essere appreso in un certo senso senza essere esplicitamente e il comportamentismo non offre un resoconto del perché le cose stiano così. Le speculazioni di Chomsky sulle realtà psicologiche, alla base dello sviluppo del linguaggio, includono l’ipotesi che le regole o i principi alla base del comportamento linguistico siano invece astratti (applicabili a tutte le lingue umane) e innati (ossia parte della nostra dotazione psicologica nativa come esseri umani). Infatti, quando una persona viene messa alla prova per pronunciare una frase grammaticale, questa ha accesso ad un numero virtualmente infinito di possibili risposte, e l’unico modo per comprendere questa capacità generativa virtualmente infinita è supporre che una persona possieda una potente e innata grammatica astratta (alla base di qualunque competenza possa avere in una o più lingue naturali).
Il problema a cui si riferisce Chomsky riguardante la competenza comportamentale e quindi delle prestazioni che superano le spiegazioni dell’apprendimento individuale, il che va oltre la semplice questione del comportamento linguistico nei bambini. Sembra essere un fatto fondamentale che, in quanto esseri umani, il nostro comportamento e le nostre capacità annesse spesso superino i limiti delle spiegazioni di rinforzo individuali. Esse sono spesso troppo povere nei dettagli per determinare in modo univoco cosa facciamo o come lo facciamo. Un buon apprendimento, quindi, sembra richiedere strutture rappresentazionali preesistenti o innate o vincoli di principio all’interno dei quali si verifichi. (Vedi anche Brewer 1974, ma confronta con Bates et al. 1998 e Cowie 1998).
Ma gli argomenti contro il comportamentismo sono definitivi in maniera decisiva? Paul Meehl ha notato decenni fa che le teorie in psicologia sembrano scomparire non sotto la forza di una confutazione decisiva, ma piuttosto perché i ricercatori perdono interesse nei loro orientamenti teorici (Meehl 1978). Un’implicazione di ciò è che un “ismo” un tempo popolare, non essendo stato decisamente confutato, può riguadagnare parte della sua precedente importanza se muta o si trasforma in modo da incorporare le risposte alle critiche. Allora, cosa può significare questo per il comportamentismo? Ciò significa che una qualche versione della teoria potrebbe tornare in auge.
Skinner ha affermato che le attività neurali sono alle base delle relazioni comportamento/ambiente e che il contributo dell’organismo a tali relazioni non si riduce alle proprietà neurofisiologiche. Ma ciò non significa che il comportamentismo non possa essere un utile alleato delle neuroscienze. Il riferimento alle strutture cerebrali (neurobiologia, neurochimica e così via) può infatti aiutare a spiegare il comportamento anche se tali riferimenti, in definitiva, non spostano l’attenzione sulle contingenze ambientali in una spiegazione comportamentista.
Questa è una lezione di modellazione animale in cui i temi comportamentisti godono ancora di attualità. I modelli animali di dipendenza, abitudine e apprendimento strumentale sono particolarmente degni di nota. Questo perché portano la ricerca comportamentale a un contatto più stretto di quanto non facesse il comportamentismo psicologico tradizionale con la ricerca sui meccanismi cerebrali alla base del rinforzo, in particolare il rinforzo positivo (West 2006, pp. 91–108). Un risultato di questo contatto è la scoperta che i sistemi neurali sensibilizzati responsabili del valore o della forza del rinforzo accresciuto possono essere dissociati dall’utilità edonica o dalla qualità piacevole del rinforzo (vedi Robinson e Berridge 2003). Il potere di uno stimolo di rafforzare il comportamento può non dipendere dal fatto che sia una fonte o una causa di piacere. L’attenzione ai meccanismi cerebrali alla base del rinforzo costituisce infatti anche il fulcro di uno dei programmi di ricerca più attivi nelle attuali neuroscienze, la cosiddetta neuroeconomia, che sposa lo studio dei sistemi di ricompensa del cervello con modelli di valutazione e processo decisionale economico (vedi Montague e Berns 2002; Nestler e Malenka 2004; Ross et al 2008). Una mossa corretta del comportamentismo può essere quella di acquistare parte della valuta concettuale della neuroeconomia, soprattutto perché alcuni sostenitori del programma si considerano comportamentisti nello spirito, se non letteralmente, e onorano i lavori concettuali, circa l’analisi sperimentale del comportamento e su come i modelli di comportamento si relazionano ai modelli di ricompensa o rinforzo, di personalità come George Ainslie, Richard Herrnstein e Howard Rachlin, (vedi Ross et al. 2008, specialmente p. 10). Un presupposto importante in neuroeconomia è che le spiegazioni complete delle interazioni organismo/ambiente associno fatti su cose, come i programmi di rinforzo, richiamandosi al modello neuro-computazionale e alla neurochimica e neurobiologia del rinforzo.
Ci sono altre potenziali fonti di rinnovamento? La continua popolarità della terapia comportamentale è degna di nota perché offre un potenziale dominio di applicazione di test per il regime del comportamentismo. Le prime versioni della terapia comportamentale cercavano di applicare risultati limitati dai paradigmi del condizionamento skinneriano o pavloviano ai problemi del comportamento umano. Infatti, non si dovrebbe parlare di menti; ma solo di comportamento: stimoli, risposte e rinforzi. La terapia così plasma comportamenti non pensati. Le generazioni successive di terapia comportamentale invece hanno allentato queste restrizioni concettuali: i suoi sostenitori si riferiscono a sé stessi come terapisti cognitivi comportamentali (ad esempio Mahoney, 1974; Meichenbaum, 1977). Così descrivono i problemi comportamentali dei pazienti facendo riferimento alle loro credenze, desideri, intenzioni, ricordi e così via. Anche il linguaggio del pensiero e delle credenze autoriflessive (la cosiddetta “meta-cognizione”) figura in alcune spiegazioni sulle difficoltà e sugli interventi comportamentali (Wells 2000). Uno degli obiettivi di questo linguaggio è incoraggiare i pazienti a monitorare e auto-rafforzare il proprio comportamento. In questo senso, l’auto-rinforzo è una caratteristica essenziale dell’autocontrollo comportamentale (Rachlin 2000; Ainslie 2001).
Ci si potrebbe chiedere se la terapia cognitivo-comportamentale sia coerente con la teoria comportamentista. Tale considerazione dipende in larga misura da come vengono interpretate credenze e desideri. Se si intendono come stati che in qualche modo si riversano nell’ambiente e sono individuati in termini di ruolo non mentalistico e comportamentale nelle interazioni organismo / ambiente, ciò sarebbe coerente con la teoria comportamentista tradizionale. Rifletterebbe infatti il principio del comportamentismo logico o analitico, secondo cui, se i termini mentali devono essere usati nella descrizione e nella spiegazione del comportamento, devono essere definiti o parafrasati in termini comportamentali non mentalistici. Le prospettive di individuazione di credenze/desideri in termini non mentali ed esternisti ambientali possono sembrare dubbie, specialmente nei casi di atteggiamenti coscienti (vedi Horgan, Tienson e Graham 2006). Ma l’argomento delle forme e dei limiti della terapia comportamentale e la gamma della sua plausibile applicazione sono aperti ad un’ulteriore e continua esplorazione.
8. Conclusione
Nel 1977 Willard Day, psicologo comportamentista oltre che editore e fondatore della rivista Behaviorism (che ora è conosciuta come Behavior and Philosophy), pubblicò “Why I am not a cognitive psychologist” (Skinner 1977) di Skinner. Quest’ultimo iniziò l’articolo affermando che “le variabili, delle quali il comportamento umano è una funzione, risiedono nell’ambiente” (p. 1) e concluse osservando che “i costrutti cognitivi forniscono […] un resoconto fuorviante” di ciò che si trova all’interno di un essere umano (p. 10).
Più di un decennio prima, nel 1966 Carl Hempel aveva annunciato la sua defezione dal comportamentismo:
Per poter caratterizzare […] modelli comportamentali, propensioni o capacità […] non abbiamo bisogno solamente di un vocabolario comportamentista adatto, ma anche di termini psicologici. (p. 110)
Hempel giunse a ritenere che fosse errato supporre che il comportamento umano potesse essere inteso esclusivamente in termini non-mentali e comportamentali.
La psicologia e la filosofia contemporanea condividono in gran parte la convinzione di Hempel secondo cui la spiegazione del comportamento non possa tralasciare la rappresentazione del mondo da parte di ciascuna creatura. La psicologia deve quindi usare termini psicologici e il comportamento senza cognizione è cieco. Alla luce di ciò, la teorizzazione psicologica che non fa riferimento ai processi cognitivi interni è estremamente compromessa. Affermare questo, ovviamente, non significa precludere a priori che il comportamentismo possa recuperare parte della sua importanza. Come concepire i processi cognitivi (anche dove localizzarli) rimane una questione fortemente dibattuta (vedi Melser 2004; vedi anche Levy 2007, pp. 29–64). Eppure, affinché il comportamentismo possa recuperare parte della sua importanza, è necessario che venga attuata una riformulazione delle sue dottrine in modo tale da risultare in sintonia con gli sviluppi (come quello della neuroeconomia) delle neuroscienze e dei nuovi orientamenti terapeutici.
Il punto di vista o il contributo speciale di Skinner nei confronti del comportamentismo collega la scienza del comportamento con il linguaggio delle interazioni organismo/ambiente. Noi umani, però, non solo corriamo, ci accoppiamo, camminiamo e mangiamo in questo o quell’ambiente, ma, allo stesso tempo, pensiamo, classifichiamo, analizziamo, immaginiamo e teorizziamo. Oltre al nostro comportamento esteriore, abbiamo vite interiori altamente complesse, in cui siamo attivi, sovente in maniera fantasiosa, nelle nostre teste, pur rimanendo spesso bloccati come pali e fermi come pietre. Se si vuole, è possibile chiamare la nostra vita interiore “comportamento”, ma questa disposizione linguistica non significa che la probabilità o il verificarsi di eventi interiori sia provocata dalle stesse contingenze ambientali del comportamento manifesto o dei movimenti corporei. Ciò non significa che comprendere una frase o comporre una voce per questa enciclopedia consista nelle stesse modalità generali di risposte discriminatorie come imparare a muovere il proprio corpo alla ricerca di una fonte di cibo. Quindi, il modo in cui il mondo della rappresentazione interna della mente collega il paese del comportamentismo rimane il territorio non completamente segnato degli “ismi”.
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