Intenzionalità

Traduzione di Mattia Corsini, Marco Faccenda e Giacomo Penna. 

Revisione di Giuseppe Flavio Artese.

Versione Inverno 2020. 

The following is the translation of Pierre Jacob’s entry on “Intentionality” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy.  The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2020/entries/intentionality/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at <https://plato.stanford.edu/entries/intentionality>. We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

In filosofia, l’intenzionalità è la capacità delle menti e degli stati mentali di concernere, rappresentare o raffigurare cose, proprietà e situazioni. Affermare che gli stati mentali di un individuo sono intenzionali equivale a dire che essi sono rappresentazioni mentali o che hanno dei contenuti. Inoltre, nella misura in cui un parlante pronuncia parole provenienti da un linguaggio naturale o riprende immagini o simboli da un linguaggio formale allo scopo di trasmettere ad altri il contenuto dei suoi stati mentali, anche questi artefatti avranno dei contenuti o un’intenzionalità. “Intenzionalità” è un termine filosofico: da quando è stato introdotto in filosofia da Franz Brentano nell’ultimo quarto del XIX secolo, è stata usata per riferirsi agli enigmi della rappresentazione, trovandosi in un punto d’incontro tra la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio. L’immagine di un cane, un nome proprio (ad es. “Fido”), il sostantivo comune “cane” o il concetto espresso dalla parola possono significare, rappresentare o descrivere una o molte creature pelose che abbaiano. Un pensiero completo, una frase completa o un’immagine possono concernere o descrivere una situazione. Come potrebbero alcune delle cose rappresentate (ad esempio, i dinosauri) essere arbitrariamente distanti nello spazio e nel tempo dalla rappresentazione (ad esempio, un pensiero umano o un’espressione sui dinosauri occorsa nel 2018), mentre altri (ad esempio, i numeri) potrebbero non essere affatto nello spazio e nel tempo? Come potrebbero alcune rappresentazioni (ad esempio, termini puntuali come “dinosauro”) persino raffigurare sé stesse? In che modo una rappresentazione complessa (ad esempio, un pensiero completo o una proposizione intera) eredita il suo significato o il suo contenuto dai significati o dai contenuti dei suoi componenti? Come si dovrebbe interpretare la relazione tra il contenuto iconico delle rappresentazioni pittoriche e il contenuto concettuale delle rappresentazioni simili a proposizioni (pensieri ed espressioni)? Come si dovrebbe intendere la relazione tra il contenuto dello stato mentale di un individuo e i significati dei simboli esterni usati dall’individuo per esprimere i suoi stati mentali interni? Le rappresentazioni del mondo fanno parte del mondo che rappresentano? Tutti gli stati mentali di un individuo sono intenzionali o solo alcuni di essi? La voce si divide in dieci sezioni:


1. Perché si chiama intenzionalità?

I dibattiti contemporanei sulla natura dell’intenzionalità sono parte integrante delle discussioni sulla natura delle menti: cosa sono le menti e cosa si prova ad avere una mente? Tali questioni sorgono all’interno di un contesto di domande ontologiche e metafisiche circa la natura fondamentale degli stati mentali: stati come percepire, ricordare, credere, desiderare, sperare, conoscere, intendere, esperire o avere sensazioni e così via. Cosa si prova a possedere tali stati mentali? In che modo il mentale si relaziona al fisico, cioè in che modo gli stati mentali sono messi in relazione con il corpo di un individuo, con i suoi stati cerebrali, con il suo comportamento e con le situazioni?

Perché si chiama intenzionalità? Per ragioni che saranno presto chiarite, nel suo uso filosofico, il significato della parola “intenzionalità” non dovrebbe essere confuso con il significato ordinario della parola “intenzione”. Come suggerito dal significato della parola latina tendere, che è il termine etimologico da cui deriva “intenzionalità”, l’idea rilevante alla base dell’intenzionalità è quella della direzione mentale verso (o di un occuparsi di) oggetti, come se la mente fosse concepita come un arco mentale le cui frecce possono essere adeguatamente puntate verso diversi bersagli. Nella logica e nella filosofia medievale, la parola latina intentio era usata in riferimento a ciò che i filosofi e i logici contemporanei oggigiorno chiamano “concetto” o “intensione”: qualcosa che può essere vero sia per cose e proprietà non-mentali – cose e proprietà che si trovano al di fuori della mente – che per cose e proprietà mentali. Supponendo che un concetto sia esso stesso qualcosa di mentale, una intentio potrebbe essere vera anche per delle cose mentali. Ad esempio, il concetto di cane, che è una intentio di primo livello, si applica ai singoli cani o alla proprietà di essere un cane. Inoltre, cade sotto varie intentiones di livello superiore che si applicano ad essa, come “essere un concetto”, “essere uno stato mentale”, ecc. Se è così, allora, mentre l’intentio di primo livello è vera per gli oggetti non-mentali, le intentiones di livello superiore possono essere vere per qualcosa di mentale. Si può notare che, seguendo questa linea di pensiero, i concetti che sono veri per le cose mentali sono presumibilmente più complessi, dal punto di vista logico, dei concetti che sono veri per le cose non-mentali.

Sebbene il significato della parola “intenzionalità” nella filosofia contemporanea sia correlata al significato di parole come “intensione” (o “intensionalità” con la s) e “intenzione”, tuttavia non dovrebbe essere confuso con nessuno dei due. D’altro canto, nell’inglese contemporaneo, “intensional” e “intensionality” significano “non-estensionale” e “non-estensionalità”, dove sia estensionalità che intensionalità sono caratteristiche logiche di termini singoli e proposizioni. Ad esempio, “creatura con un cuore” e “creatura con un rene” hanno la stessa estensione perché sono vere in riferimento a degli stessi individui: tutte le creature con un rene sono creature con un cuore. Ma le due espressioni hanno intensioni diverse perché la parola “cuore” non ha la stessa estensione, per non parlare del significato, della parola “rene”. D’altro canto, l’intenzione e l’intendere sono stati mentali specifici che, a differenza di credenze, giudizi, speranze, desideri o paure, giocano un ruolo saliente nell’eziologia delle azioni. Al contrario, l’intenzionalità è una caratteristica pervasiva di molti diversi stati mentali: credenze, speranze, giudizi, intenzioni, amore e odio manifestano tutti intenzionalità. In effetti, Brentano sosteneva che l’intenzionalità è il marchio distintivo del mentale: gran parte della filosofia della mente del XX secolo è stata plasmata da quella che, in questa voce, verrà definita “la terza tesi di Brentano”.

Inoltre, vale la pena distinguere diversi livelli di intenzionalità. Molti degli stati psicologici di un individuo con intenzionalità (ad esempio, le credenze) riguardano (o rappresentano) cose, proprietà e situazioni non-mentali. Molti si riferiscono anche agli stati psicologici di un altro individuo (ad esempio, le sue credenze). Le credenze circa le credenze degli altri mostrano ciò che è noto come “intenzionalità di ordine superiore”. Dallo studio seminale (1978) dei primatologi David Premack e Guy Woodruff intitolato “Does the chimpanzee have a theory of mind?””, sotto l’intestazione di “teoria della mente”, molta ricerca sperimentale degli ultimi trent’anni è stata dedicata alle questioni psicologiche sul fatto che non-primati umani possano attribuire stati psicologici intenzionali ad altri e su come i bambini umani sviluppino la loro capacità di attribuire ad altri individui stati psicologici dotati di intenzionalità (cfr. i commenti dei filosofi Jonathan Bennett, Daniel Dennett e Gilbert Harman al giornale di Premack e Woodruff e la voce Psicologia ingenua come teoria).

Il concetto di intenzionalità ha svolto un ruolo centrale sia nella tradizione della filosofia analitica che nella tradizione fenomenologica. Come vedremo, alcuni filosofi si spingono fino ad affermare che l’intenzionalità è caratteristica propria di tutti gli stati mentali. La caratterizzazione dell’intenzionalità di Brentano è piuttosto complessa. Al centro c’è la nozione brentaniana dell’ “inesistenza intenzionale di un oggetto”, che sarà analizzata nella sezione successiva.

2. Inesistenza intenzionale

Molte delle discussioni contemporanee sulla natura dell’intenzionalità furono anticipate da Franz Brentano (1874, 88-89) nella sua opera Psychology From an Empirical Standpoint , dalla quale vengono citati due famosi paragrafi:

Ogni fenomeno mentale è caratterizzato da ciò che gli scolastici medievali chiamavano l’inesistenza intenzionale (o mentale) di un oggetto, e ciò che potremmo chiamare, anche se non del tutto inequivocabilmente, riferimento a un contenuto, direzione verso un oggetto (che non deve essere inteso qui come il significato dell’oggetto), o oggettività immanente. Ogni fenomeno mentale, all’interno di sé, comprende qualcosa come un oggetto, anche se, quanto appena detto, non viene realizzato sempre alla stessa maniera. Nella presentazione qualcosa viene presentato, nel giudizio qualcosa viene affermato o negato, nell’amore amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato e così via.

Questa inesistenza intenzionale è una caratteristica peculiare dei fenomeni mentali: nessun fenomeno fisico mostra nulla di simile. Possiamo, quindi, definire i fenomeni mentali dicendo che sono quei fenomeni che contengono intenzionalmente un oggetto al loro interno.

Leggendo queste righe, sorgono numerose domande: cosa intende Brentano quando afferma che l’oggetto verso il quale la mente si dirige “non deve essere inteso come significato dell’oggetto”? Cosa significa per un fenomeno (mentale o meno) esibire “l’inesistenza intenzionale di un oggetto”? Che cosa significa dire che un fenomeno “comprende qualcosa come un oggetto all’interno di sé”? Il “riferimento a un contenuto” e la “direzione verso un oggetto” esprimono due idee distinte? O sono due modi diversi usati per esprimere la medesima idea? Se l’intenzionalità può mettere in relazione una mente con qualcosa che o non esiste o esiste interamente nella mente, di che tipo di relazione si tratta?

Questi due brevi paragrafi, ricchi di idee complesse, astratte e discutibili, hanno fissato i punti all’ordine del giorno di tutte le successive discussioni filosofiche sull’intenzionalità alla fine del XIX e XX secolo. Sono seguiti alcuni dibattiti sul significato dell’espressione brentaniana “inesistenza intenzionale”. Con quest’ultima, Brentano intendeva che gli oggetti verso i quali la mente è diretta sono interni alla mente stessa (in sé nella mente)? O intendeva che la mente può essere diretta verso oggetti inesistenti? Oppure entrambi? (Vedasi Crane, 1998 per ulteriori discussioni).

Alcune delle principali idee della tradizione fenomenologica possono essere ricondotte a tale questione. Seguendo l’esempio di Edmund Husserl (1900, 1913), che fu sia il fondatore della fenomenologia che uno studente di Brentano, il senso dell’analisi fenomenologica è mostrare che la proprietà essenziale dell’intenzionalità di essere diretta verso qualcosa non è contingente da un reale bersaglio fisico indipendentemente dall’ atto intenzionale in sé. Per raggiungere questo obiettivo, due concetti sono stati fondamentali per l’interpretazione internista dell’intenzionalità di Husserl: il concetto di noema (noemata al plurale) e il concetto di epoche (cioè, “mettere tra parentesi”) o riduzione fenomenologica. Con la parola “noema”, Husserl si riferisce alla struttura interna degli atti mentali. La riduzione fenomenologica è stata pensata per aiutare a giungere all’essenza degli atti mentali, sospendendo tutti i presupposti ingenui riguardo la differenza tra entità reali e fittizie (su questi complessi concetti fenomenologici vedasi gli articoli di Føllesdal e altri, comodamente raccolti in Dreyfus (1982). Per ulteriori discussioni vedasi Bell (1990) e Dummett (1993).

Nei due paragrafi citati precedentemente, Brentano traccia un intero programma di ricerca basato su tre tesi distinte. Secondo la prima tesi, è costitutivo del fenomeno dell’intenzionalità, in quanto si manifesta in stati mentali come amare, odiare, desiderare, credere, giudicare, percepire, sperare e molti altri, il fatto che questi stati siano diretti verso cose diverse da sé stessi. In base alla seconda, è peculiare degli oggetti verso cui la mente è diretta, per virtù dell’intenzionalità, la proprietà che Brentano chiama “inesistenza intenzionale”. Secondo la terza tesi, l’intenzionalità è il marchio distintivo del mentale: tutti gli stati mentali, e solamente essi, manifestano intenzionalità.

A differenza della terza tesi di Brentano, le prime due difficilmente possono essere separate l’una dall’altra. La prima può essere facilmente riformulata in modo da essere inaccettabile, a meno che non venga accettata anche la seconda tesi. Supponiamo che sia costitutivo della natura dell’intenzionalità il fatto che non si possano esemplificare stati mentali quali amare, odiare, desiderare, credere, giudicare, percepire, sperare e così via, a meno che non ci sia qualcosa da amare, odiare, desiderare, credere, giudicare, percepire, sperare e così via. Se è così, allora segue dalla natura stessa dell’intenzionalità (come descritto dalla prima tesi) che non esista nulla in grado di mostrare intenzionalità, a meno che non ci siano oggetti – oggetti intenzionali – che rispettano la proprietà brentaniana dell’inesistenza intenzionale.

Ora, se si accettano le prime due tesi di Brentano, allora si solleva una questione ontologica fondamentale per la logica filosofica. La questione è se tali oggetti intenzionali esistano o meno . Il dovuto riconoscimento dell’intenzionalità ci costringe a postulare la categoria ontologica degli oggetti intenzionali? Questa questione ha comportato una rilevante divisione all’interno della filosofia analitica. La risposta prevalente (o ortodossa) è un fragoroso “No”. Ma un’importante minoranza di filosofi, che verranno chiamati teorici dell’ “oggetto intenzionale”, ha sostenuto invece, una risposta affermativa alla domanda. Dal momento che non è necessario che gli oggetti intenzionali esistano, secondo i teorici dell’ “oggetto intenzionale” ci sono cose che non esistono. Secondo i loro critici, determinate cose non sono possibili. Esamineremo direttamente l’approccio dei teorici dell’ “oggetto intenzionale” nella sezione 7. Prima di farlo, nella sezione 3 esamineremo il modo in cui i singoli pensieri, riguardanti particolari concreti nello spazio e nel tempo, possono essere, e sono stati, interpretati come paradigmi di relazioni intenzionali autentiche. Sulla base di questo costrutto relazionale, il pensiero particolare ordinario di un individuo in riferimento ad un particolare fisico concreto comporta una relazione genuina tra quest’ultimo e la mente dell’individuo. Nelle sezioni 4-5, esamineremo due enigmi che sorgono in seguito al paradigma ortodosso. In primo luogo, affronteremo l’enigma su come sia possibile che una persona razionale possa credere a un oggetto a cui si fa riferimento con un termine particolare che istanzia una proprietà, e allo stesso tempo non credere allo stesso oggetto a cui fa riferimento un termine particolare distinto che istanzia la stessa proprietà. La sezione 4 è dedicata alla soluzione di Frege a questo enigma. Nella sezione 5, esamineremo la soluzione di Russell all’enigma sulle affermazioni esistenziali negative vere. Nella sezione 6, vedremo come la teoria del riferimento diretto sia emersa all’interno del paradigma ortodosso a partire sia dalla critica della nozione di senso da parte di Frege, sia dell’assunto di Russell secondo cui la maggior parte dei nomi propri nei linguaggi naturali sono descrizioni definite camuffate.

3. La natura relazionale dei pensieri singolari

Molte relazioni non-intenzionali mettono in contatto particolari concreti nello spazio e nel tempo. Se e quando lo fanno, ciò a cui essi si riferiscono non può non esistere. Se Cleopatra bacia Cesare, allora devono esistere sia Cleopatra che Cesare. Non è così per le relazioni intenzionali. Se Cleopatra ama Cesare, allora presumibilmente c’è qualche particolare concreto nello spazio e nel tempo che Cleopatra ama. Ma si potrebbe anche amare Anna Karenina (non un particolare concreto nello spazio e nel tempo, ma un personaggio fittizio). Allo stesso modo, i costituenti della relazione di ammirazione (un’altra relazione intenzionale) non sono necessariamente particolari concreti nello spazio e nel tempo. Si può ammirare non solo Albert Einstein, ma anche Sherlock Holmes (un personaggio fittizio). Come testimonia il seguente passaggio dall’Appendice all’edizione del 1911 del suo libro del 1874, questa asimmetria tra relazioni non intenzionali e relazioni intenzionali ha messo in difficoltà Brentano:

Ciò che è caratteristico di ogni attività mentale è, come credo di aver mostrato, il riferirsi a qualcosa come un oggetto. A questo proposito, ogni attività mentale sembra essere qualcosa di relazionale. […] In altre relazioni entrambi i termini — sia il fondamento che il termine— sono reali, ma in questo caso il primo termine lo è — il fondamento è reale. […] Se prendo qualcosa di relativo […] qualcosa di più grande o più piccolo per esempio, allora, se la cosa più grande esiste, esiste anche quella più piccola. […] Qualcosa che è vero per le relazioni di somiglianza e differenza vale anche per le relazioni di causa ed effetto. Perché ci sia una tale relazione, sia l’oggetto che causa che quello che viene causato devono esistere. […] Il riferimento mentale è completamente diverso. Se qualcuno pensa a qualcosa, chi pensa deve certamente esistere, ma l’oggetto del suo pensiero non deve esistere affatto. Infatti, se costui nega qualcosa, l’esistenza dell’oggetto è esattamente ciò che viene escluso ogni volta che la sua negazione è corretta. Dunque, l’unica cosa che è richiesta dal riferimento mentale è la persona che pensa. Il termine della cosiddetta relazione non ha affatto bisogno di esistere nella realtà. Per questo motivo, si potrebbe dubitare che in questo caso stiamo avendo davvero a che fare con qualcosa di relazionale, e non, piuttosto, con qualcosa di simile a qualcosa di relazionale sotto un certo aspetto, che potrebbe quindi essere meglio chiamato “quasi-relazionale”.

Mentre il paradigma ortodosso è chiaramente compatibile con la possibilità che i pensieri generali possano interessare oggetti astratti (ad esempio i numeri) e proprietà e relazioni astratte, nessuna delle quali esistente nello spazio e nel tempo, sorgono problemi importanti rispetto a pensieri singolari formulati come relazioni intenzionali nei confronti di oggetti inesistenti o fittizi. Due assunti connessi costituiscono il nucleo del paradigma ortodosso: il primo assunto sostiene che il problema della relazione intenzionale dovrebbe essere risolto alla luce di relazioni non-intenzionali; il secondo afferma che le relazioni intenzionali che sembrano interessare entità inesistenti (ad esempio, quelle fittizie) dovrebbero essere chiarite facendo riferimento a relazioni intenzionali che interessano particolari esistenti nello spazio e nel tempo.

Il paradigma della relazione intenzionale che soddisfa il quadro ortodosso è l’intenzionalità di quelli che vengono definiti come pensieri “singolari”, ossia quei pensieri veri che sono diretti verso individui o particolari concreti che esistono nello spazio e nel tempo. Un pensiero particolare è tale che non sarebbe disponibile – non potrebbe essere preso in considerazione – a meno che non esista l’individuo concreto che è l’oggetto del pensiero. A differenza dei contenuti proposizionali dei pensieri generali, che interessano solo universali astratti come proprietà e/o relazioni, il contenuto proposizionale di un pensiero particolare potrebbe implicare in aggiunta una relazione con un individuo concreto o particolare. Il contrasto tra proposizioni “particolari” e “generali” è stato molto rimarcato da Kaplan (1978, 1989). In una prospettiva leggermente diversa, Tyler Burge (1977) ha descritto i pensieri singolari come concettualizzati in modo incompleto o de re come pensieri la cui relazione con gli oggetti a cui si riferiscono è fornita dal contesto. Secondo alcune teorie , l’oggetto del pensiero particolare è addirittura parte di esso. Nella visione ortodossa, parte dell’importanza dei veri pensieri singolari in relazione alla spiegazione dell’intenzionalità, risiede nel fatto che alcuni di essi interessano oggetti concreti percepibili. I pensieri singolari riguardanti oggetti concreti possono sembrare più semplici e primitivi di quelli generali o di quelli sulle entità astratte.

Si consideri, ad esempio, il caso in cui l’attribuzione della credenza (1) è vera:

  1. Ava crede che Lionel Jospin sia un socialista.

Intuitivamente, la credenza attribuita ad Ava in (1) esibisce intenzionalità nel senso che è una credenza su o riguardo Lionel Jospin e sulla proprietà di essere socialista. Oltre ad essere una credenza (cioè, una disposizione particolare diversa da un volere, un desiderio, una paura o un’intenzione), l’identità della credenza di Ava dipende dal suo contenuto proposizionale. Ciò che Ava crede viene espresso dalla frase incassata “che…”, la quale può stare da sola come in (2):

  1. Lionel Jospin è un socialista.

A prima vista, un enunciato come (2) è vero se e solo se un dato individuo concreto esemplifica la proprietà di essere socialista. Presumibilmente, è necessario per la veridicità della proposizione in cui Ava crede che- la proposizione espressa da un enunciato come (2) – tratti di Jospin e della proprietà di essere socialista. Proprio in virtù di tale credenza, Ava deve quindi stare in relazione – una relazione di credenza – con Jospin e con la proprietà di essere un socialista. Si noti che Ava può avere una credenza su Jospin e sulla proprietà di essere socialista anche qualora non abbia mai visto Jospin di persona.

Dall’interno del paradigma ortodosso, una parte centrale del problema dell’intenzionalità può essere portata alla luce dalla riflessione sulle condizioni per cui i semplici pensieri singolari su individui concreti sono veri. Questo è il problema della natura relazionale dei contenuti delle vere credenze singolari. Per sollevare questo problema, non è necessario ricorrere a credenze false o astratte sulle entità fittizie. Basta considerare come possa sorgere un pensiero vero riguardante un individuo concreto che esiste nello spazio e nel tempo. Da un lato, la credenza di Ava sembra essere una credenza particolare su un individuo concreto. Sembra essenziale, per la credenza di Ava, avere esattamente il contenuto proposizionale che ha. E sembra essenziale, per il contenuto proposizionale della credenza di Ava, che ella debba essere posta in relazione a qualcun altro che può essere molto distante da lei nello spazio o nel tempo. Dall’altro lato, la credenza di Ava è un suo stato interno. Come afferma John Perry (1994, 187), le credenze e gli altri cosiddetti “atteggiamenti proposizionali” sembrano essere “fenomeni mentali locali”. Come può essere essenziale per un suo stato interno che Ava si trovi in ​​relazione a qualcun altro? Come si possono conciliare i caratteri locali e relazionali degli atteggiamenti proposizionali?

4. Come possono credenze distinte riguardare il medesimo oggetto?

La questione della natura relazionale dei contenuti di veri pensieri singolari può essere resa più fine dal seguente enigma che ha impegnato Gottlob Frege (1892): come si possono razionalmente sostenere due credenze singolari distinte che riguardano entrambe il medesimo oggetto? Come vedremo tra poco, questo enigma è collegato ad un secondo: l’enigma di come un’asserzione che esprime una credenza circa l’identità possa essere sia vera che informativa. Se la relazione di credenza fosse una relazione genuina, allora assomiglierebbe all’atto di tirare un calcio: se Jacques Chirac ha tirato un calcio a Lionel Jospin e se Lionel Jospin era il primo ministro francese nel 2001, allora Jacques Chirac ha tirato un calcio al primo ministro francese nel 2001. Quanto appena detto non vale per le credenze, come vedremo tra poco. Si noti che in circostanze ordinarie, la parola “credenza” può essere utilizzata per denotare o lo stato di una persona, o il contenuto di quello stato.

Sin dai tempi di Frege, è stata pratica comune nella filosofia analitica studiare la struttura intenzionale di gran parte del pensiero umano indagando la struttura logica del linguaggio, usata dai parlanti per esprimerlo o per attribuirlo ad altri. (Vedasi, ad esempio, Dummett (1973) per una valida giustificazione.) Supponiamo che Ava creda correttamente che Espero stia brillando vedendo Espero brillare. Supponiamo anche che non riesca a credere che Fosforo stia brillando perché, sebbene creda correttamente che Espero sia chiamato “Espero”, crede erroneamente che “Fosforo” sia il nome di un altro pianeta (che in questo momento non vede) e non sa che “Fosforo” è in effetti un altro nome per Espero. Quindi, mentre la prima credenza è vera, la seconda è falsa:

  1. Ava crede che Espero stia brillando.
  2. Ava crede che Fosforo stia brillando.

Dato che “Espero” e “Fosforo” sono solo due nomi del medesimo oggetto, come può Ava credere una cosa e non credere l’altra? Dato che “Espero” e “Fosforo” si riferiscono al medesimo oggetto, sembra che “Espero brilla” sia vero se e solo se “Fosforo brilla” risulta vero e se questi due enunciati esprimano la stessa proposizione. Se ciò che è essenziale nella proposizione in cui crede Ava è che ci si riferisce ad Espero e alla proprietà di brillare, come può credere una cosa e non credere l’altra, visto che entrambe le sue credenze riguardano Espero?

Un altro enigma correlato è quello riguardante gli enunciati di identità e come possano essere sia veri che informativi. È chiaro che Ava non poteva dubitare del fatto che “Espero è Espero” esprima una verità. Ma sembra invece chiaro che possa – e in effetti lo fa – dubitare del fatto che “Espero è Fosforo” esprima una verità. In effetti, nel momento in cui ella apprende che “Espero è Fosforo” esprime una verità, Ava rimane stupita. Come può essere? (Vedasi Richard 1990 e Salmon 1986.)

Frege (1892) ha offerto una soluzione molto importante a entrambi gli enigmi. Questa nota soluzione si basa sulla sua famosa distinzione tra riferimento (o Bedeutung ) e senso (o Sinn ) di un nome proprio italiano. Il senso, che è il modo di presentazione del riferimento, è presumibilmente qualcosa di astratto che può essere sia istanziato da un individuo concreto e presente alla (o afferrato da) una mente. Questa distinzione ricorda in qualche modo la distinzione tra estensione e intensione ed è in contrasto con l’opinione di John Stuart Mill (1884) secondo cui i nomi propri hanno una denotazione e nessuna connotazione.

La ragione per cui (3) e (4) possono, secondo Frege, avere valori di verità diversi è che gli enunciati completi – (3) e (4)- e quelli introdotti dalle preposizioni “che” in (3) e (4) – vale a dire (5) e (6) – non esprimono la medesima proposizione. Esprimono proposizioni (o pensieri) differenti. Frege usa il tedesco Gedanke per “pensiero”.

  1. Espero brilla.
  2. Fosforo brilla.

Come possono (5) e (6) esprimere proposizioni diverse? A differenza di circostanze non ordinarie come (3) e (4), in cui figurano le preposizioni “che”, in circostanze ordinarie come (5) e (6), “Espero” e “Fosforo” hanno lo stesso Bedeutung (o riferimento). Ma hanno sensi diversi (Sinn) o differenti modalità di presentazione del loro riferimento comune. Secondo Frege, ciò che è essenziale per il pensiero o la proposizione espressa dall’enunciato contenente un termine particolare è il suo senso, non il suo riferimento. Le proposizioni hanno come componenti essenziali i sensi, non gli individui. Ava non ne è a conoscenza. Ma dato che l’ignoranza non è irrazionalità, Ava può razionalmente credere che Espero brilli e credere che Fosforo non brilli. Allo stesso modo, un enunciato che esprime una credenza sull’identità può essere sia vero che informativo, perché i due termini singolari che affiancano il segno di identità in un enunciato di identità hanno sia un senso che un riferimento. L’enunciato di identità è vero perché i due termini hanno il medesimo riferimento ed è informativo perché hanno sensi diversi o presentano il loro riferimento comune attraverso modalità di presentazione diverse.

Dal punto di vista di Frege, in (3) e (4), “Espero” e “Fosforo” non hanno il loro riferimento usuale (o Bedeutung ), vale a dire il pianeta (Venere) a cui si applicano entrambi: hanno un riferimento “obliquo”. In (3), il riferimento obliquo di “Espero” è il suo senso usuale. In (4), il riferimento obliquo di “Fosforo” è il suo senso usuale. E abbiamo già convenuto che “Espero” e “Fosforo” in (5) e (6) hanno sensi usuali diversi. Quindi in (3), “Espero” ha un senso “obliquo” o “indiretto”, che è la modalità di presentazione del senso usuale che “Espero” ha in (5). Allo stesso modo, in (4) “Fosforo” ha un senso “obliquo”, che è la modalità di presentazione del senso usuale che “Fosforo” ha in (5). Secondo Frege, un pensiero o una credenza possono riguardare un individuo concreto (il suo riferimento), ma ciò che conta per l’individuazione (o l’identità) del contenuto del pensiero non è il riferimento del termine particolare, ma il senso o la modalità di presentazione del riferimento, cioè qualcosa di astratto. Per ulteriori discussioni, vedasi la voce su Gottlob Frege.

5. Credenze vere esistenziali negative

Quando Brentano rifletteva sulla natura “quasi-relazionale” dell’intenzionalità dei pensieri che si riferiscono a cose la cui esistenza non è necessaria, scrisse che se qualcuno “sta negando qualcosa, l’esistenza dell’oggetto è esattamente ciò che viene escluso ogni qualvolta che la negazione di quest’ultimo risulta corretta”. Pertanto, egli riteneva che si potesse negare correttamente e coerentemente l’esistenza di cose che non esistono. Dimostrare che ciò è possibile, tuttavia, è un compito tutt’altro che facile. La versione dell’enigma che impegnava sia Alexius Meinong (un allievo di Brentano) che Bertrand Russell all’inizio del XX secolo è l’enigma delle credenze vere esistenziali negative. Come può una persona credere, in maniera corretta, che Pegaso non esista? Affinché una persona possa credere correttamente che Pegaso non esista, deve avere una credenza il cui contenuto è il medesimo espresso da un enunciato vero della frase (7).

  1. Pegaso non esiste.

Come può la proposizione espressa dall’enunciato (7) essere allo stesso tempo vera e riferirsi a Pegaso? L’enigma sorge dall’osservazione che se la proposizione è vera, allora presumibilmente non si tratta di Pegaso dal momento che afferma che Pegaso non esiste. Al contrario, se si tratta di Pegaso, allora esso deve esistere. Ma se fosse così, allora essa non può essere vera, poiché nega l’esistenza di Pegaso. Quindi, l’enigma assume la forma di un dilemma: o la proposizione espressa da (7) è falsa o non riguarda Pegaso. Perlomeno, l’enigma è generato a partire dalla seguente coppia di premesse: “Pegaso” è un nome proprio e i nomi propri devono avere un riferimento. La prima premessa è giusta?

Nel suo articolo del 1905, On denoting, Russell abbracciò la visione secondo cui né “Pegaso” né, in realtà, la maggior parte dei nomi propri appartenenti ai vari linguaggi naturali sono veri nomi propri “logici”. Egli appoggiava la posizione epistemologica secondo cui, a meno che non si conosca direttamente qualcosa, non si può usare nel pensiero o nel linguaggio un autentico nome proprio “logico” che vi si riferisca. Né si può intrattenere un pensiero particolare vero su di esso. Se non si conosce direttamente un oggetto, allora è necessario, invece, formulare un pensiero generale che non riguarda un individuo particolare. Di fatto, Russell (1911, 1919) aveva una duplice visione della conoscenza: da un lato, pensava che essa consistesse in una relazione che si può instaurare solamente tra la mente di qualcuno e i suoi dati sensoriali; dall’altro lato, egli riteneva che si potesse venire a conoscenza degli universali (come ad esempio i colori). Se la maggior parte, se non tutti, i nomi dei linguaggi naturali non sono autentici nomi “logici”, allora cosa sono e qual è la loro funzione all’interno del pensiero e nella comunicazione umana? Secondo Russell, sono descrizioni definite come “camuffate” o abbreviate, cioè sono abbreviazioni per una qualche descrizione definita. La loro funzione logica è quella di una descrizione definita.

A prima vista, la forma grammaticale della frase quasi-italiana ‘il F è G’ indica che è possibile esprimere una proposizione soggetto-predicato (o particolare) vera se e solo se l’oggetto che esemplifica la proprietà espressa dal predicato ‘F’ esemplifica anche quella espressa dal predicato ‘G’. Ma Russell (1905) elaborò un metodo — la sua famosa teoria delle descrizioni definite — per eliminare l’articolo determinativo italiano ‘il’ (come nel caso il F) per mezzo di una formula logica di primo ordine che coinvolge solo quantificatori e variabili. In base alla sua analisi, la frase ‘il F è G’ può essere parafrasata nella proposizione generale esistenziale quantificata (8):

  1. ∃x[Fx & ∀y(Fy → y=x) & Gx]

(8) è vera se e solo se c’è un solo individuo che è sia F che G, mentre sarà falsa nel caso in cui nulla o più di una cosa è sia F che G.

Combinata con la premessa che ‘Pegaso’ non è un nome ma una descrizione definita mascherata — la quale è un’abbreviazione per ad esempio ‘il cavallo alato’ — la teoria delle descrizioni definite di Russell porta così alla soluzione dell’enigma sulle credenze vere esistenziali negative. La soluzione consiste nell’accettare il secondo aspetto del dilemma: la proposizione non riguarda Pegaso. Per questo motivo, si può, in maniera corretta, credere che Pegaso non esista, dato che ciò che si crede è quel che viene espresso dall’enunciato (7), vale a dire la proposizione vera per cui non esiste un individuo unico che è un cavallo alato. Chiaramente, la soluzione di Russell all’enigma delle credenze vere esistenziali negative mostra come, utilizzando gli stessi termini di Brentano, “se qualcuno pensa a qualcosa, colui che sta pensando deve certamente esistere, ma l’oggetto del suo pensiero non deve esistere affatto” e inoltre il pensiero può essere vero. Per ulteriori discussioni, vedi la voce su Bertrand Russell.

6. Riferimento diretto

All’interno del paradigma ortodosso nella filosofia della mente e del linguaggio degli anni ’60 e ’70 c’è stata un’importante deviazione rispetto alle implicazioni delle dottrine di Frege e soprattutto di Russell per quanto riguarda l’intenzionalità. La cosiddetta “teoria del riferimento diretto” ha contribuito a riaffermare l’idea che gli individui concreti contino di più per l’identità dei pensieri particolari che gli esseri umani intrattengono, di quanto le dottrine di Frege/Russell permettano. Secondo la distinzione di Frege tra senso e riferimento, ciò che conta per l’identità di un pensiero circa un individuo concreto non è il pensiero individuale, ma il senso astratto attraverso il quale è pensato. Secondo Russell, la maggior parte dei pensieri che sembrano prima facie riguardare individui concreti non sono in realtà pensieri singolari ma proposizioni generalmente quantificate. Buona parte dell’impeto per la teoria del riferimento diretto provenne da implicazioni sulla semantica della logica modale circa l’intenzionalità di pensieri particolari e credenze.

Saul Kripke (1972) notò in contesti modali un’importante differenza tra il comportamento di un nome proprio e il comportamento di una descrizione definita co-referenziale che esprime una proprietà contingente o non essenziale del suo referente. Si considerino i due enunciati (9) e (10), ciascun dei quali contenente un operatore modale come ‘potrebbe’ (che esprime una possibilità), così che il primo contenga un nome proprio mentre il secondo contenga una descrizione definita co-referenziale:

9. Jacques Chirac potrebbe essere stato un socialista.

10. Il presidente della Francia eletto nel 2002 potrebbe essere stato un socialista.

La descrizione definita “il presidente della Francia eletto nel 2002” si dà il caso che sia vera per Jacques Chirac, di cui esprime una proprietà contingente (quella di essere stato un socialista). Esiste certamente un mondo metafisicamente possibile in cui o Chirac non era un candidato alle elezioni presidenziali francesi del 2002 o era un candidato ma ha perso le elezioni.

L’enunciato (9) afferma che esiste un mondo possibile in cui Jacques Chirac è un membro del partito socialista, cosa che in realtà non è. Data la profonda connessione tra l’atto linguistico dell’asserzione e la credenza del parlante, l’enunciato (9) esprime la credenza controfattuale su Chirac, il quale avrebbe potuto essere un socialista. A differenza di (9), l’enunciato (10) è ambiguo. Sotto un certo punto di vista, esso ha le stesse condizioni di verità dell’enunciato (9) e serve per esprimere la stessa credenza. In alternativa, l’enunciato (10) descrive qualcuno che in realtà è un socialista, e che quindi non è Chirac, e che potrebbe essere stato eletto presidente nel 2002.

Emerge pertanto il seguente contrasto. L’enunciato (9) può solo servire per esprimere una credenza o un pensiero controfattuale su Chirac, cioè la credenza che attribuisce a Chirac la proprietà controfattuale di essere un socialista. L’enunciato (10) può servire per esprimere la medesima credenza su Chirac. Ma può anche servire per esprimere una credenza controfattuale completamente differente circa un individuo diverso, che si dà il caso che sia un socialista. Questa diversa credenza controfattuale sarebbe vera, ad esempio, in un mondo possibile in cui Jospin (che è un socialista) ha vinto le elezioni presidenziali del 2002.

Sulla base del fatto che, a differenza di (9), l’enunciato (10) può servire a esprimere due distinte credenze controfattuali, Kripke (1972) ipotizza che un nome proprio sia ciò che lui chiama un designatore rigido. ‘Jacques Chirac’ nell’enunciato (9) è rigido perché in tutti i mondi possibili si riferisce allo stesso e medesimo individuo concreto, cioè all’individuo a cui si riferisce di fatto nel mondo reale. Al contrario, la descrizione definita ‘il presidente della Francia eletto nel 2002’, che si dà il caso che esprima una proprietà contingente di Chirac, non è un designatore rigido perché non prende in considerazione il medesimo individuo in tutti i mondi possibili. Quando viene valutata in riferimento a mondi differenti, essa è vera per individui diversi. Naturalmente, alcune descrizioni definite (come, ad esempio ‘la radice quadrata di 21’) esprimono proprietà essenziali riguardo a ciò di cui sono vere al riguardo (in questo caso, un numero). Secondo Kripke (1980), a differenza dei nomi propri, la cui rigidità è de iure, le descrizioni definite che esprimono proprietà essenziali di un oggetto sono rigide de facto. Per ulteriori discussioni, vedasi la voce sul riferimento.

Presumibilmente, l’obiettivo della teoria del riferimento diretto è enfatizzare la profondità del divario tra l’intenzionalità dei pensieri singolari e l’intenzionalità dei pensieri generali. Gli individui concreti non sono componenti dei contenuti di questi ultimi. Ma sono componenti del contenuto dei primi. Tre argomenti sono stati sostenuti al fine di smantellare il disdegno russelliano per la peculiare intenzionalità dei pensieri particolari esprimibili con nomi propri: un argomento modale, un argomento epistemologico e quello che può essere definito un argomento “trascendentale”.

Secondo l’argomento modale, se il nome proprio ‘Cicerone’ fosse solo l’abbreviazione di una descrizione definita, ad esempio, ‘l’oratore romano che denunciò Catilina’, ne seguirebbe che la frase ‘Cicerone è l’oratore romano che ha denunciato Catilina’ esprima una verità necessaria, cioè una proposizione vera in tutti i mondi possibili. Ma questo sembra assurdo: vi è sicuramente un mondo possibile in cui Cicerone non ha denunciato Catilina.

Secondo l’argomento epistemologico, partendo dal medesimo assunto, la frase ‘Cicerone è l’oratore romano che denunciò Catilina’ esprime una proposizione conoscibile a priori, per cui non ha senso immaginare che gli storici possano scoprire mediante ricerche empiriche che, di fatto, qualcun altro abbia denunciato Catilina o che nessuno l’abbia fatto. Ma anche questo sembra assurdo.

Infine, in base all’argomento trascendentale, le persone usano nomi propri nel pensiero e nella comunicazione verbale per rintracciare, selezionare e scambiare informazioni preziose su particolari concreti. Sebbene possano mancare di informazioni esprimibili da una descrizione definita — men che meno da una descrizione definita particolare — per identificare in modo univoco molti particolari concreti, le persone riescono comunque a garantirne il riferimento. Inoltre, man mano che una persona arriva ad apprendere sempre più informazioni su un oggetto o su una persona, essa arriva ad associare diverse descrizioni definite al referente di un nome proprio. Ne consegue che nessuna descrizione definita sembra adatta ad afferrare il contenuto di un nome proprio.

Secondo la teoria del riferimento diretto, la funzione di tali dispositivi linguistici come nomi propri, deittici e dimostrativi è quella di presentare un individuo o un particolare concreto all’interno della proposizione e/o della credenza espressa. Per usare l’espressione calzante di David Kaplan (1979, 387), un individuo concreto è “intrappolato” all’interno di una proposizione particolare. La teoria del riferimento diretto sembra un utile antidoto contro la tendenza di Frege/Russell di minimizzare il contributo dei particolari concreti nell’individuazione dei pensieri particolari degli esseri umani. Tre correnti di pensiero nella recente filosofia della mente e del linguaggio si sono basate sulla teoria del riferimento diretto. In primo luogo, molte delle intuizioni della teoria del riferimento diretto sono state estese dai pensieri riguardanti individui concreti ai pensieri riguardanti tipi naturali da Kripke (1972) e Putnam (1974). Questa estensione svolge un ruolo cruciale all’interno della visione esternista degli stati mentali intenzionali (vedasi la sezione 10). In secondo luogo, i neo-fregeani hanno risposto alla sfida della teoria del riferimento diretto fornendo una nozione adeguata di “oggetto-dipendente” o di senso “de re” (vedasi Evans, 1982 e McDowell, 1984). (Per una risposta all’enigma di Frege su come due credenze distinte possano riferirsi al medesimo oggetto alla luce della teoria del riferimento diretto, vedasi Salmon, 1986). In terzo luogo, i fondamenti metafisici ed epistemologici dei pensieri particolari (e delle proposizioni particolari) hanno dato origine a una ricca discussione sul contrasto tra due ampie prospettive: descrittivismo e singolarismo. Secondo il descrittivismo, possiamo pensare gli oggetti solo pensando alle proprietà che istanziano. Secondo il singolarismo, invece, non tutti i pensieri sugli oggetti sono mediati da pensieri sulle loro proprietà. Per ulteriori discussioni, vedasi gli articoli raccolti in Jeshion (ed.) (2010), in particolare Recanati (2010).

7. Esistono oggetti intenzionali?

Le sezioni 4, 5 e 6 hanno descritto tre mosse effettuate in filosofia analitica, all’interno del paradigma ortodosso, in risposta agli enigmi sollevati dall’intenzionalità dei pensieri particolari in merito a particolari concreti. Nello specifico, sia la disputa tra la teoria del riferimento diretto che la distinzione fregeana tra senso e riferimento o l’assunto russelliano secondo cui i nomi propri ordinari sono descrizioni definite camuffate, possono essere visti come interni al paradigma ortodosso – secondo cui vi sono solo oggetti esistenti, cioè particolari concreti nello spazio e nel tempo. Brentano, tuttavia, ha abbozzato la possibilità di un paradigma alternativo basato sull’assunzione per cui gli oggetti intenzionali possono essere oggetti inesistenti o oggetti astratti. (Per una panoramica generale sul ruolo di Brentano nello sviluppo della teoria non ortodossa degli oggetti intenzionali nella filosofia austriaca, vedasi Smith, 1994.)

Per vedere come la teoria degli oggetti intenzionali scaturisca dalla caratterizzazione dell’intenzionalità di Brentano, bisogna ricordare (vedasi la sezione 2) che dalla natura dell’intenzionalità ne consegue (come descritto dalla prima tesi di Brentano) che nulla potrebbe manifestare intenzionalità a meno che non vi siano oggetti – oggetti intenzionali – che soddisfano la proprietà che Brentano chiamava “inesistenza intenzionale”. Si consideri il seguente schema di inferenza consentito dalla regola della generalizzazione esistenziale e istanziato dalla relazione non intenzionale espressa dal verbo “baciare” in (11):

11a. Cleopatra baciò Cesare.
11b. Cleopatra baciò qualcosa.

Se (11a) è vera, lo è anche (11b). La domanda è: questo corretto schema di inferenza è istanziato anche dalle seguenti coppie (12)-(15) che coinvolgono relazioni intenzionali?

12a. Cleopatra amava Cesare.
12b. Cleopatra amava qualcosa.

13a. Gli antichi greci adoravano Zeus.
13b. Gli antichi greci adoravano qualcosa.

14a. Ponce de Leon ha cercato la fonte della giovinezza.
14b. Ponce de Leon ha cercato qualcosa.

15a. I criminologi moderni ammirano Sherlock Holmes.
15b. I criminologi moderni ammirano qualcosa.

Per un verso, a differenza di (11), (12)-(15) coinvolgono relazioni intenzionali. Per un altro verso, a differenza della relazione intenzionale in (12), le relazioni intenzionali in (13)-(15) sembrano coinvolgere particolari che non esistono (o che non sono esistiti) nello spazio e nel tempo. I teorici dell’oggetto intenzionale sostengono che le inferenze sopra citate, le quali coinvolgono relazioni sia non intenzionali che intenzionali, rappresentano informazioni che richiedono una spiegazione coerente. In altre parole, il teorico dell’oggetto intenzionale accetta, mentre il suo critico rifiuta, la validità della regola della generalizzazione esistenziale sia per le relazioni intenzionali che per quelle non intenzionali, indipendentemente dal fatto che gli oggetti delle relazioni intenzionali siano o meno particolari concreti nello spazio e nel tempo. Secondo l’ipotesi non ortodossa per cui lo schema di inferenza istanziato da (11) possa essere istanziato anche da (12)-(15), la seconda coordinata di ogni coppia (11)-(15) dovrebbe essere simbolizzata in notazione logica in questo modo

11c. ∃x(Cleopatra baciò x)
12c. ∃x(Cleopatra amava x)
13c. ∃x(Gli antichi greci adoravano x)
14c. ∃x(Ponce de Leon cercava x)
15c. ∃x(I criminologi moderni ammirano x)

Quindi, la disputa tra il teorico dell’oggetto intenzionale e il suo critico è relativa alla domanda se la variabile vincolata dal quantificatore esistenziale standard della logica del primo ordine debba spaziare non solo su particolari concreti esistenti nello spazio e nel tempo, ma anche su tutti gli altri tipi di entità. Si può notare che la questione è parallela alla contrapposizione tra l’interpretazione oggettiva e quella sostitutiva del quantificatore esistenziale, poiché la disputa sull’ammissione di oggetti intenzionali è del tutto interna all’interpretazione oggettiva del quantificatore. La domanda che sorge per il teorico dell’oggetto intenzionale è: qual è la migliore teoria degli oggetti su cui (13c)-(15c) sembrano quantificare?

Meinong (1904) supponeva che oggetti come Zeus, la fontana della giovinezza, Sherlock Holmes, ecc., fossero oggetti inesistenti che esemplificano le proprietà loro attribuite. Dal suo punto di vista, la fontana della giovinezza è un oggetto che istanzia sia la proprietà di essere una fontana che quella di contenere acque che conferiscono la vita eterna. Tuttavia, essa non riesce a istanziare la proprietà dell’esistenza. Meinong sembrava supporre che per ogni gruppo di proprietà, ci sia un oggetto che istanzia quelle stesse proprietà. Alcuni dei risultanti oggetti esistono e altri no. Russell (1905) trovò questa visione degli oggetti intenzionali ontologicamente inaccettabile poiché implica l’accettare entità come le montagne d’oro (che sono incoerenti con le leggi fisiche e chimiche) e i quadrati rotondi (che sono incoerenti con le leggi della geometria). La sua teoria delle descrizioni definite è stata esattamente concepita in modo tale da evitare queste conseguenze ontologiche (vedasi la sezione 5). Tuttavia, chiarendo le distinzioni proposte sia da Meinong che dal suo studente Ernst Mally, Parsons (1980) ha recentemente proposto una teoria degli oggetti inesistenti che si basa sull’assunto che l’esistenza è un tipo speciale di proprietà. Questa teoria utilizza un ∃”, che non implica l’esistenza. Per affermare l’esistenza, egli usa il predicato “E! “. Pertanto, l’asserzione che ci sono oggetti inesistenti può essere rappresentata nella teoria di Parsons senza contraddizione dalla formula logica “∃x(~E!x)”. Inoltre, Parsons fa una distinzione tra proprietà “nucleari” ed “extra-nucleari”. Solo le prime, che sono tipi di proprietà ordinarie e non intenzionali, contribuiscono ad individuare gli oggetti. L’insieme delle proprietà extra-nucleari comprende proprietà intenzionali, proprietà modali ed esistenza. Armato di questa distinzione tra proprietà, Parsons (1980) è stato in grado di evitare le obiezioni di Russell sollevate contro l’ingenua teoria degli oggetti intenzionali di Meinong. (Per ulteriori dettagli, vedasi Parsons, 1980.) Una posizione originale sulla possibilità di avere pensieri veri su oggetti inesistenti, basata sul contrasto tra proprietà pleonastiche (o dipendenti dalla rappresentazione) e non pleonastiche (naturali o sostanziali), è stata sviluppata da Crane (2013).

La teoria degli oggetti intenzionali è stata anche sviluppata in modo leggermente diverso. Ernst Mally (1912), lo studente di Meinong, propose che gli oggetti immaginari e mitologici, così come gli oggetti come i quadrati rotondi, non istanziano le proprietà loro attribuite ma “posseggono” quelle proprietà in un modo diverso. Per Mally, la fontana della giovinezza è “determinata” dalle proprietà di essere una fontana e di contenere acque che conferiscono la vita eterna, ma questo oggetto non istanzia quelle proprietà nel senso tradizionale. Considerata la distinzione di Mally, il fatto che ci sia un oggetto che è determinato dalle proprietà di essere d’oro e di essere una montagna non contraddice il fatto contingente che non c’è nulla che in realtà istanzia queste due proprietà, né Mally necessita di pensare agli oggetti intenzionali come inesistenti. Piuttosto, egli tratta quest’ultimi come oggetti astratti esistenti. Così, mentre Parsons utilizza due tipi di proprietà per sviluppare una teoria di oggetti inesistenti, un neo-mallyano come Zalta (1988) utilizza due tipi di predicazione – l’esemplificazione (che corrisponde all’instanziazione) e la codifica (che corrisponde alla nozione mallyana di determinazione) – così da sviluppare una teoria degli oggetti astratti. Questi oggetti astratti fanno parte delle spiegazioni sia per entrambe le verità espresse da (13a)-(15a) che per la validità delle inferenze in (13a, b)-(15a,b). In quanto tali, dunque, gli oggetti astratti potrebbero esistere. Tuttavia, si può dire che alcuni oggetti astratti (ad esempio Sherlock Holmes e Zeus) “non esistono” nel senso che nulla esemplifica le proprietà che codificano.

Sebbene il noto articolo di Quine (1948) “On what there is” sollevi serie questioni ontologiche per le teorie degli oggetti intenzionali, sia Parsons che Zalta hanno, nei loro rispettivi lavori, fornito risposte alle domande di Quine. Tuttavia, fino ad oggi, molti filosofi contemporanei sono stati riluttanti nell’accettare le teorie dell’oggetto intenzionale per due ragioni. Prima di tutto, essi hanno voluto evitare quelli che sono visti come i pesanti impegni ontologici sostenuti dalle teorie dell’oggetto intenzionale. In secondo luogo, l’ontologia degli oggetti inesistenti e astratti è sembrata difficile da far quadrare con l’ontologia delle scienze naturali contemporanee secondo cui il mondo contiene solo oggetti concreti che esistono nello spazio e nel tempo. (Per ulteriori discussioni vedasi la Sezione 9.)

La teoria degli oggetti intenzionali, tuttavia, può trovare un sostegno nelle seguenti, indubbiamente controintuitive, conseguenze delle rispettive posizioni di Frege e Russell. La teoria di Frege affronta due problemi. A prima vista (13a)-(15a) sembrerebbero esprimere verità. Tuttavia, dal punto di vista di Frege non è così, poiché coinvolgono termini particolari privi di riferimento e, secondo Frege, se una parte di un enunciato è privo di riferimento, allora l’enunciato stesso non può avere alcun valore di verità (vedasi la sezione 4). In secondo luogo, le inferenze in (13)-(15) sembrano essere valide. Ma dal punto di vista di Frege, non si può inferire validamente (13b) da (13a) se (13a) non ha valore di verità. Lo stesso segue per l’altra coppia di frasi (14) e (15). Il punto di vista di Russell affronta due problemi analoghi. In primo luogo, come notato sopra, (13a)-(15a) sembrano essere vere. Ma secondo l’analisi di Russell, nomi propri come “Zeus” in (13a) e “Sherlock Holmes” in (15a) sono descrizioni definite abbreviate e, data la sua definizione di descrizioni definite, sia (13a) che(15a) risultano esprimere false proposizioni esistenzialmente quantificate (vedasi la sezione 5). In secondo luogo, se (13a)-(15a) sono effettivamente false, come sostiene Russell, allora non si può validamente inferire (13b)-(15b) dalle loro rispettive e corrispondenti premesse. Per un recente resoconto della distinzione tra pensieri veri e falsi in merito a oggetti inesistenti, cfr. Crane (2013) e per ulteriori discussioni sul tema generale dell’esistenza, vedi la voce sull’esistenza.

8. L’intensionalità è un criterio di intenzionalità?

All’interno del paradigma ortodosso, una risposta completamente diversa agli enigmi dell’inesistenza intenzionale è stato il tentativo chiarire le difficoltà ontologiche salendo a un livello semantico più alto che può, come dice Willard Van Orman Quine (1960, 272), “portare la discussione in un dominio in cui entrambe le parti si trovano meglio d’accordo sugli oggetti (ossia le parole)”. L’ascesa semantica permette di passare dal parlare di cose al parlare del parlare di cose, cioè le parole. Nella filosofia analitica contemporanea, Roderick Chisholm (1957, 298) è stato il primo a immaginare la formulazione di “un criterio di lavoro tramite il quale possiamo distinguere enunciati che sono intenzionali, o sono usati intenzionalmente, in una certa lingua da enunciati che non lo sono”. L’idea è di esaminare enunciati che riportano l’intenzionalità piuttosto che l’intenzionalità stessa.

L’intensionalità (con una s) è la non-estensionalità. Due caratteristiche sono proprie dell’estensione. In primo luogo, se un contesto linguistico è estensionale, due termini co-referenziali possono essere sostituiti l’uno all’altro salva veritate come illustrato da (16) e (17):

  1. Espero brilla.
  2. Fosforo brilla.

Se (16) è vero, lo è anche (17). In secondo luogo, la legge della generalizzazione esistenziale si applica a (16) o (17) per produrre “∃x(x brilla)”. Con l’intensionalità invece non è così. Come illustrato dagli esempi (3) e (4) ripetuti qui, la verità di (3) non sempre implica la verità di (4):

  1. Ava crede che Espero stia brillando.
  2. Ava crede che Fosforo stia brillando.

Né la generalizzazione esistenziale può essere sempre applicata validamente agli enunciati che riportano una credenza, poiché dal fatto che John crede che gli angeli abbiano le ali, non ne consegue che esistano realmente tali entità affinché John creda che essi abbiano le ali.

Il criterio dell’intensionalità di Chisholm è triplice. In primo luogo, un enunciato riporta un fenomeno intenzionale se contiene un termine particolare che pretende di riferirsi a qualche oggetto ed è tale che né esso né la sua negazione implicano che il presunto riferimento del termine particolare esista o non esista. Il primo criterio consiste nel riconoscere che se una frase contenente un termine particolare riporta un fenomeno intenzionale, allora non soddisfa la legge della generalizzazione esistenziale (da ‘Fa‘ si inferisce ‘∃xFx‘). In secondo luogo, una frase vera riporta un fenomeno intenzionale se contiene un termine particolare ‘a’ e se la sostituzione di ‘a’ con un termine co-referenziale ‘b’ si traduce nel trasformare la frase vera in una frase falsa che differisce dalla prima solo in quanto al fatto che ‘b‘ prende il posto di ‘a‘. Il secondo criterio equivale a riconoscere che se una frase contenente un termine particolare riporta un fenomeno intenzionale, allora essa fallisce il test di sostituibilità dei termini co-referenziali salva veritate. Infine, se una frase complessa contenente una clausola incorporata “che” riporta un fenomeno intenzionale, allora né essa né la sua negazione implicano la verità della proposizione espressa dalla clausola incorporata “che”.

Chisholm (1957) ha sostenuto che i resoconti o le descrizioni di fenomeni intenzionali o psicologici non possono essere ridotti a (o eliminati a favore di) descrizioni di comportamento. L’intensionalità o la non estensionalità dei resoconti d’intenzionalità è stata utilizzata per mostrare che le descrizioni e le spiegazioni dei fenomeni psicologici non possono essere descritte né spiegate in termini di un vocabolario che descrive fenomeni non intenzionali. Come disse Quine (1960, 220), “non si può uscire dal vocabolario intenzionale esponendo i suoi membri in termini diversi”. Chisholm (1957) ha utilizzato questa conclusione per mostrare la correttezza della terza tesi di Brentano secondo cui l’intenzionalità è il marchio del mentale.

La domanda può essere scomposta in due domande. Da un lato, accettare l’intensionalità come il criterio dell’intenzionalità sembra riflettere l’adesione ad una visione linguistica generale dell’intenzionalità nel seguente senso: ciò che conta per lo stato mentale (non linguistico) indicato sono le proprietà linguistiche del suo resoconto verbale. Ci sono almeno due ragioni che giustificano lo scetticismo nei confronti della visione linguistica dell’intenzionalità. Dall’altro lato, ci sono alcune ragioni specifiche per mettere in discussione due dei criteri di Chisholm. Comincio con l’ultimo. Sembra difficile negare che gli stati di conoscenza siano stati con intenzionalità. Almeno, i rapporti sugli stati di conoscenza soddisfano il secondo criterio di non sostituibilità di Chisholm. Dal fatto che l’attribuzione della conoscenza (18) sia vera, non ne consegue che (19) lo sia, anche se “Cicero” e “Tully” sono co-referenziali:

  1. Tom sa che Cicerone ha denunciato Catilina.
  2. Tom sa che Tully ha denunciato Catilina.
  3. Cicerone ha denunciato Catilina.

Tuttavia, a differenza dei rapporti di credenza, i rapporti di conoscenza sono fattivi: (18) non potrebbe essere vero a meno che (20) non fosse vero e Cicerone di fatto denunciò Catilina. Quindi, a differenza dei rapporti sulle credenze, i rapporti sulla conoscenza non soddisfano il terzo criterio di Chisholm. Dato che (20) è estensionale, obbedisce alla legge della generalizzazione esistenziale. Se la verità di (20) segue dalla verità di (18) e se (20) soddisfa la legge della generalizzazione esistenziale, allora lo stesso vale per (18). Se è così, anche i rapporti sulla conoscenza non soddisfano il primo criterio di Chisholm.

Un modo per affrontare questa obiezione potrebbe essere quello di sostenere che i rapporti di conoscenza falliscono il test della generalizzazione esistenziale proprio perché, a differenza degli stati di credenza, gli stati di conoscenza non riescono ad esibire l’inesistenza intenzionale di Brentano: solo le credenze, non gli stati di conoscenza, possono essere dirette verso situazioni che non possono essere attualizzate e verso entità inesistenti. In alternativa, si potrebbe fare una distinzione tra stati con una forte intenzionalità e stati con un’intenzionalità più debole. I rapporti delle prime (come le credenze) soddisfano i tre criteri di Chisholm. I rapporti degli ultimi (come gli stati di conoscenza) non superano solamente il test di sostituzione.

Il problema con questa strategia è che ci sono enunciati che sembrano descrivere relazioni intenzionali e che, a differenza dei rapporti di conoscenza, non sono affatto intensionali, poiché superano il test di sostituzione. Questo è il caso degli enunciati che riguardano ciò che Fred Dretske (1969) definisce come percezione non epistemica. Se, quando era vivo, qualcuno vedeva lo scrittore francese Romain Gary, allora egli ipso facto vedeva Ajar, perché Ajar non era altro che Romain Gary. Tuttavia, se egli non fosse riuscito a sapere che ‘Ajar’ era un altro nome per Romain Gary, vedendo Romain Gary, egli avrebbe fallito nel vedere che l’uomo di fronte a lui era Ajar. A maggior ragione, in questo senso non epistemico, non si può vedere un individuo a meno che non ci sia un individuo da vedere. Una possibile risposta potrebbe essere di ingoiare il rospo e negare che la percezione non epistemica non sia affatto uno stato intenzionale. Se è così, allora, come nota Zalta (1988, 13), i resoconti linguistici dei fenomeni intenzionali soddisfano almeno uno dei criteri di intensionalità di Chisholm.

Se vedere è intenzionale, allora non tutti i rapporti di intenzionalità sono intensionali. Che non tutti i rapporti di intenzionalità siano intensionali è un problema per la visione linguistica secondo cui l’intensionalità è il criterio dell’intenzionalità. Un secondo problema è che l’intensionalità è anche una caratteristica degli enunciati che riguardano fenomeni diversi dall’intenzionalità. Gli enunciati che comportano o riguardano modalità come la necessità, le leggi naturali o la causalità esibiscono tutti intensionalità. Quindi, ad esempio, la verità di (21) non implica la verità di (22) anche se tutto ciò che accade per esemplificare la proprietà Q accade per esemplificare la proprietà R:

  1. Si tratta di una legge naturale che tutti i Ps sono Q.
  2. È una legge naturale che tutti Ps sono R.

Ma la necessità, le leggi naturali o la causalità non manifestano, a prima vista, quelle che Brentano considerava le caratteristiche definitive dell’intenzionalità. Sembra quindi che l’intensionalità che un fenomeno riporta non sia né necessaria né sufficiente per l’intenzionalità del fenomeno riportato. Probabilmente, ‘P’, ‘Q’ e ‘R’ in (21)-(22) non sono affatto termini particolari. Se sono considerati come tali, dunque, anche se possono essere veri per lo stesso gruppo di individui, essi non si riferiscono o esprimono una e una sola proprietà. In ogni caso, il punto illustrato dalla nomicità è che l’intensionalità di un resoconto linguistico non è sufficiente per l’intenzionalità del fenomeno riportato.

9. Si può naturalizzare l’intenzionalità?

Come abbiamo visto nella sezione 8, Quine (1960, 220), uno tra i principali critici degli oggetti intenzionali (nel senso descritto nella sezione 7), concorda con Chisholm (1957) sul fatto che il vocabolario intenzionale non può essere ridotto a qualche vocabolario non intenzionale. Chisholm (1957) si servì di questa conclusione per mostrare la correttezza della terza tesi di Brentano secondo cui l’intenzionalità è il marchio del mentale. A partire dalla medesima conclusione, Quine (1960, 221) presentò un importante dilemma con implicazioni sia epistemologiche che ontologiche. Il primo corno del dilemma consiste nell’accettare “l’indispensabilità degli idiomi intenzionali e l’importanza di una scienza autonoma dell’intenzione” e nel rifiutare un’ontologia fisicalista, mentre il secondo consiste nell’accettare il fisicalismo e rinunciare all'”infondatezza” degli idiomi intenzionali e alla “superficialità” di una scienza dell’intenzione. Questo dilemma è stato influente nella filosofia della mente contemporanea.

L’eredità comune di Chisholm (1957) e Quine (1960) è la visione linguistica dell’intenzionalità (accettata ad esempio da Dennett 1969). Se l’intensionalità è effettivamente il criterio distintivo dell’intenzionalità, allora si può certamente mettere in discussione la tesi brentaniana secondo cui solo i fenomeni mentali mostrano intenzionalità notando che alcuni fenomeni non mentali mostrano qualcosa di molto simile all’inesistenza intenzionale di Brentano, vale a dire le proposizioni dei linguaggi naturali. Quest’ultime hanno un significato e, in virtù di questo, possono essere, proprio come gli stati d’animo, dirette verso cose diverse da loro stesse, di cui alcune delle quali non hanno neanche bisogno di esistere nello spazio e nel tempo. Le proposizioni dei linguaggi naturali, tuttavia, sono fenomeni non mentali.

Una risposta influente a tale obiezione che si rivolge a questa specifica parte della terza tesi di Brentano è stata il concedere uno status intenzionale degradato e dipendente alle proposizioni (vedasi Haugeland 1981, Searle 1980, 1983, 1992, Fodor 1987). Secondo questa tesi, né le proposizioni dei linguaggi naturali hanno alcun significato intrinseco se considerate nella loro autonomia, né gli enunciati di tali proposizioni hanno un contenuto intrinseco. Le proposizioni dei linguaggi naturali non avrebbero alcun significato a meno che quest’ultimo non venga loro conferito da persone che le usano per esprimere i loro pensieri e per comunicarli agli altri. Gli enunciati prendono in prestito qualsiasi intenzionalità “derivata” che posseggono grazie all’intenzionalità “originale” (o “primitiva”) degli esseri umani dotati di mente che li usano per i loro scopi (vedasi Dennett 1987 per un dissenso). Se, come ha sostenuto Jerry Fodor (1975, 1987, 1994, 1998, 2008), esiste un “linguaggio del pensiero” costituito da simboli mentali con proprietà sintattiche e semantiche, allora probabilmente sono le proprietà semantiche di tali simboli i portatori principali dell’intenzionalità ‘originale’. (Vedi la voce riguardante l’ipotesi del linguaggio del pensiero.)

Quindi la domanda è: qualche fenomeno non mentale mostra intenzionalità originale? Tale quesito viene reso più urgente dal dilemma di Quine, secondo il quale si deve scegliere tra la terza tesi di Brentano e un’ontologia fisicalista. I cosiddetti “materialisti eliminativi” (vedasi Churchland 1989) optano risolutamente per il secondo corno del dilemma di Quine e negano unicamente e semplicemente la realtà delle credenze e dei desideri umani. Come conseguenza della negazione della realtà di quest’ultimi, i materialisti eliminativi devono affrontare la sfida sollevata dall’esistenza di oggetti fisici la cui esistenza dipende dalle intenzioni, dalle credenze e dai desideri dei loro ideatori, come ad esempio gli artefatti umani. Altri, come Daniel Dennett (1971, 1978, 1987), che rifiutano la distinzione tra intenzionalità originale e derivata, assumono una posizione cosiddetta “strumentalista”: a loro parere, l’idioma intenzionale non riesce a descrivere o spiegare alcun fenomeno reale. Tuttavia, in assenza di una conoscenza dettagliata delle leggi fisiche che governano il comportamento di un sistema fisico, l’idioma intenzionale è una posizione utile per prevedere il comportamento di un sistema. Tra i filosofi attratti da un’ontologia fisicalista, pochi hanno accettato la negazione materialista della realtà delle credenze e dei desideri. Inoltre, molti di loro non hanno trovato facile rispondere alla enigmatica domanda sollevata dalla posizione strumentalista: come può l’idioma intenzionale fare previsioni utili se non riesce a descrivere e spiegare qualcosa di reale?

Un numero significativo di filosofi fisicalisti condivide l’idea di conciliare l’esistenza dell’intenzionalità con un’ontologia fisicalista (per una forte esposizione vedasi Field 1978, 78-79). Supponendo che l’intenzionalità sia un aspetto centrale per il mentale, il compito è quello di mostrare, usando i termini di Dennett (1969, 21), che non c’è un “divario incolmabile tra mentale e fisico” o che si può sostenere sia il fisicalismo che il realismo intenzionale. Dal momento che gli stati intenzionali riguardano o sono su cose diverse da loro stessi, affinché uno stato esibisca intenzionalità è necessario che abbia delle proprietà semantiche. Come ha affermato Jerry Fodor (1984), la preoccupazione naturalistica dei realisti intenzionali che sono allo stesso modo fisicalisti, è che “la semantica si riveli permanentemente recalcitrante nell’essere integrata nell’ordine naturale”. Dato che per un’ontologia fisicalista, l’intenzionalità o le proprietà semantiche non possono essere “caratteristiche fondamentali del mondo”, il compito è mostrare “come un sistema interamente fisico potrebbe comunque mostrare stati intenzionali” (Fodor, 1987). Come sostiene Dretske (1981), il compito è mostrare come “cuocere una torta mentale usando solo lievito fisico e farina”. È importante notare come l’opinione di Brentano secondo cui “nessun fenomeno fisico manifesta” intenzionalità è semplicemente inaccettabile per un fisicalista: se il fisicalismo è vero, allora alcuni fenomeni fisici sono anche fenomeni mentali. Dunque, la domanda per un fisicalista è: qualsiasi fenomeno non-mentale può manifestare intenzionalità?

Chiaramente, un modo per alleviare la tensione tra fisicalismo e realismo intenzionale è sostenere che l’intenzionalità può essere, e di fatto è, esibita da fenomeni non mentali. Ci sono state diverse proposte all’interno della filosofia analitica degli ultimi vent’anni per suggerire come realizzare questo programma, che è stato chiamato “la naturalizzazione dell’intenzionalità”. La strategia comune consiste nel dimostrare che Brentano ha sbagliato a sostenere che solo i fenomeni mentali possano manifestare intenzionalità. Questa strategia è legata all’ipotesi secondo cui le relazioni intenzionali, i cui relata sono particolari concreti, dovrebbero avere il primato sulle relazioni intenzionali nelle quali i “relata” non lo sono (cfr. sezione 7). Illustrerò due proposte distinte che tentano di realizzare questo obiettivo comune.

Una strategia influente per dimostrare che i fenomeni non mentali possono manifestare intenzionalità è stata la proposta informativa-teoretica di Fred Dretske (1980, 1981, 1994) secondo la quale un dispositivo che trasporta informazioni manifesta un certo grado di intenzionalità. Questa posizione è un’estensione della nozione di significato naturale di Paul Grice (1957): a differenza della parola italiana “fuoco”, che significa fuoco non naturalmente, il fumo significa fuoco naturalmente. La parola “fuoco” può essere simbolica in assenza di un qualunque fuoco: può aver lo scopo di esprimere un pensiero su cosa fare se ce ne fosse stato uno o forse di indurre qualcun altro a pensare falsamente che ve n’è sia uno. Tuttavia, non ci può essere fumo se non c’è un fuoco. Come vedremo a breve, il fatto che vi possono essere rappresentazioni errate è una caratteristica sia dell’intenzionalità originale delle credenze che dell’intenzionalità derivata degli enunciati.

In sostanza, l’approccio teorico dell’informazione afferma che il dispositivo S trasporta informazioni riguardanti delle instanziazioni della proprietà G se e solo se l’attività di S (S’s) di essere F è nomicamente correlata con le istanziazioni di G. Se S non fosse F, a meno che la proprietà G non fosse istanziata, allora l’essere F dell’attività di S’s porterebbe informazioni sulla, o come direbbe Dretske, indicherebbe G-neità. Un’impronta digitale trasporta informazioni sull’identità dell’essere umano il cui dito è stato impresso. Delle macchie su un volto umano contengono informazioni su una malattia. L’altezza della colonna di mercurio in un termometro porta informazioni sulla temperatura. Un indicatore del gas sul cruscotto di un’auto porta informazioni sulla quantità di carburante nel serbatoio dell’auto. La posizione di un ago in un galvanometro porta informazioni sul flusso di corrente elettrica. Una bussola porta informazioni sulla posizione del Polo Nord. In tutti questi casi, una proprietà di un dispositivo fisico coincide nomicamente con una proprietà fisica istanziata nel suo ambiente (per una discussione critica del programma informativo, vedasi Kistler 2000, Loewer 1987, 1998 e Putnam 1986).

Ora, nella misura in cui non è una legge che gli orsi polari vivano al Polo Nord, anche se capita loro di vivere lì, una bussola non riuscirà a portare informazioni su dove gli orsi polari vivono nonostante il fatto che porti informazioni sul polo nord. Se è così, i resoconti su ciò che indica una bussola mostrano una delle caratteristiche dell’intensionalità di Chisholm, vale a dire i termini coestensivi non sono liberamente sostituibili salva veritate in tali relazioni. Se invece è legge che vi sia covarianza tra variazioni di temperatura e le variazioni della pressione atmosferica, allora in virtù dell’indicare la temperatura, l’altezza della colonna di mercurio in un termometro indicherà anche la pressione atmosferica. Se esiste una legge che mette in relazione il flusso della corrente alle differenze di voltaggio, indicando la prima (corrente), un galvanometro indicherà anche la seconda (voltaggio). Si può, tuttavia, credere, e anche sapere, che c’è un flusso di corrente tra due punti senza credere, per non parlare di sapere, che ci sia una differenza di tensione tra i due punti, se non si conosce la legge che afferma che, se c’è flusso di corrente elettrica tra due punti, c’è anche una differenza di voltaggio tra questi due punti (vedasi Jacob 1997 per la discussione).

Quindi, sebbene i resoconti delle informazioni portate da tali dispositivi fisici esibiscano parte dell’intensionalità esibita dai resoconti di stati mentali intenzionali, l’intensionalità esibita da questi ultimi è chiaramente più forte dell’intensionalità esibita dai primi. Da un lato, l’approccio teorico dell’informazione con la sua debole nozione di intenzionalità istanziata da oggetti non-mentali, trova difficoltà nello spiegare come la forte intenzionalità degli stati mentali venga generata. Dall’altro, dato che la relazione d’informazione è l’opposto di una correlazione nomica, è difficile per la semantica informativa spiegare le rappresentazioni errate così come la normatività dei contenuti degli stati mentali. Vedasi la voce sulle teorie causali del contenuto mentale.

 Una seconda proposta influente, per affrontare le difficoltà lasciate in sospeso dall’approccio teorico dell’informazione, e per mostrare che alcuni fenomeni non mentali possono esibire intenzionalità, è stata data dall’approccio teleo-semantico di Ruth Millikan (1984, 1993, 2000, 2004). L’approccio teleo-semantico di Millikan si basa su due presupposti di base, il primo dei quali è che (a differenza di un segno naturale) una rappresentazione intenzionale è un relatum in una relazione a “tre-luoghi” che coinvolge due meccanismi: un produttore della rappresentazione e un consumatore, che sono entrambi dispositivi cooperativi le cui attività sono vantaggiose per entrambi. La seconda assunzione di Millikan è che la relazione di non esistenza intenzionale di Brentano sia esibita da funzioni biologiche. Dato qualsiasi tipo di scopo o progetto biologico, esso potrebbe non essere soddisfatto. Ad esempio, se la funzione o lo scopo del cuore di un mammifero è pompare sangue, allora il cuore di un mammifero dovrebbe pompare sangue anche qualora dovesse fallire nel farlo. Si può notare, tuttavia, che mentre gli organi biologici hanno funzioni che potrebbero non essere soddisfatte, non esibiscono ipso facto intenzionalità nel senso pieno di Brentano: né un cuore né uno stomaco riguardano o sono su qualcosa. L’affermazione di Millikan, tuttavia, non è che avere una funzione sia sufficiente per il concernere qualcosa, ma che essa sia necessaria. Presumibilmente, un dispositivo non può riguardare o rappresentare nulla a meno che non possa travisare ciò a cui si riferisce. Discutibilmente, per un dispositivo travisare ciò a cui si riferisce significa che quella cosa non funziona correttamente. Ma a meno che il dispositivo non abbia qualche funzione, esso non può semplicemente non funzionare bene. Se questo è corretto, allora niente potrebbe essere un sistema rappresentazionale — niente potrebbe avere contenuto o intenzionalità — a meno che non abbia quella che Millikan (1984) chiama una funzione ‘propria’.

La nozione rilevante di una funzione qui è quella biologica teleologica, non quella disposizionale: la funzione di un organo non è ciò che l’organo è disposto a fare, ma ciò che è stato selezionato per fare (vedasi Millikan 1984 e Neander 1995). Probabilmente, niente può avere una funzione a meno che non provenga da qualche processo storico di selezione o altro. I processi di selezione sono processi designati. La maggior parte dei sostenitori della teleo-semantica accettano la spiegazione eziologica delle funzioni secondo la quale la funzione di un dispositivo è un effetto selezionato, cioè un effetto prodotto dal dispositivo che spiega la continua proliferazione delle occorrenze di questo tipo di dispositivo. Dunque, secondo le teorie “teleo-semantiche”, il fine è la principale fonte di funzione, che a sua volta è la fonte del contenuto o dell’intenzionalità. Tali teorie sono chiamate teorie “teleo-semantiche” in virtù della connessione tra fine o teleologia e contenuto. Una questione controversa è se l’approccio teleologico sostenuto da Millikan possa essere combinato con la semantica informativa in modo che S si possa dire che rappresenti le istanze della proprietà F se e solo se la funzione dell’attività di S (S’s) è quella di portare informazioni su F. Contro questa proposta, Millikan (2004) ha sostenuto che le informazioni portate da un segno dipendono dalle sue cause, non dai suoi effetti. Ma secondo la teleo-semantica e l’approccio eziologico alle funzioni, la funzione di un dispositivo è uno dei suoi effetti: essa non dipende dalle sue cause. Per ulteriori discussioni, vedi la voce sulle teorie teleologiche del contenuto mentale e gli articoli raccolti in Ryder, Kinsbury e Williford (eds.) (2011).

 Ora, i processi di selezione possono essere intenzionali o non intenzionali. Gli artefatti (comprese le parole e altri simboli dei linguaggi naturali) derivano le loro funzioni da alcuni processi intenzionali. Mentre i meccanismi psicologici (ad esempio, i meccanismi di formazione delle credenze) derivano le loro funzioni proprie da un processo di selezione non-intenzionale, i particolari stati di credenze hanno derivato funzioni proprie. Il processo non-intenzionale paradigmatico è il processo di selezione naturale con cui Charles Darwin ha spiegato l’evoluzione filogenetica delle specie biologiche: la selezione naturale decide quali sono gli organismi che sopravvivono. Ma nessun agente intenzionale è responsabile della decisione. Millikan (1984, 2004, 2005) ha anche esteso il suo approccio teleo-semantico ai contenuti dei segni convenzionali intenzionali (cioè i simboli linguistici). Se questa sorta di proposta teleo-semantica potesse essere completamente elaborata, allora prenderebbe due piccioni con una fava. Da un lato, indicherebbe un modo in cui l’intenzionalità delle menti deriva dall’intenzionalità delle funzioni biologiche (vedasi Rowlands 1999 per la discussione). D’altra parte, mostrerebbe che parte della normatività degli stati mentali è già esibita da funzioni biologiche (vedasi Neander, 1995). Entrambe le domande sono attualmente argomenti di molte discussioni nella filosofia della mente. Molti filosofi come Davidson (1980), Kripke (1982), McDowell (1994) e Putnam (1988, 1994), ad esempio, hanno espresso seri dubbi sul programma o fornito motivi di scetticismo. Per ulteriori discussioni, vedasi i saggi in MacDonald e Papineau (eds.) 2006, e anche le voci sulle teorie teleologiche del contenuto mentale e sulle nozioni teleologiche in biologia. Successivamente Burge (2010) ha criticato i tentativi di naturalizzare l’intenzionalità facendo appello alla nozione di funzione biologica sulla base del fatto che è, secondo la sua prospettiva, un grave errore identificare il successo rappresentazionale (verità o accuratezza) con l’adempimento di una funzione biologica, e il fallimento rappresentazionale (falsità o inaccuratezza) con il fallimento di una funzione biologica. Diversamente dal successo o fallimento rappresentazionale (o semantico), l’adempimento o il fallimento di una funzione biologica è, secondo Burge, un successo o fallimento pratico.

10. L’intenzionalità si manifesta in tutti i fenomeni mentali?

Percezioni, credenze, desideri e intenzioni e molti altri “atteggiamenti proposizionali” sono stati mentali intenzionali. Questi riguardano o rappresentano oggetti e situazioni in una particolare modalità o formato psicologico. Percezioni, credenze, desideri e intenzioni illustrano una dualità basilare dell’intenzionalità che caratterizza il mentale: la dualità tra mente-a-mondo e mondo-a-mente per quanto riguarda le direzioni di adattamento. Per chiarire questa dualità, Elizabeth Anscombe (1957, 56) prende in considerazione una semplice “lista della spesa”. L’elenco può essere utilizzato o come una serie di istruzioni per l’azione di un cliente in un negozio oppure come lista da parte di un detective il cui scopo è quello di carpire ciò che il cliente sta acquistando. Nel primo caso, l’elenco non deve essere rivisto alla luce di ciò che si trova nel sacchetto della spesa del cliente, mentre nel secondo è necessario che ciò avvenga. Se dovesse verificarsi una mancata corrispondenza tra il contenuto del sacchetto della spesa e l’elenco utilizzato dal cliente, la colpa dovrebbe essere posta sul cliente e non sull’elenco. In caso di mancata corrispondenza tra il contenuto del sacchetto e l’elenco registrato dal detective, quest’ultimo dovrebbe correggere la sua lista.

Basandosi sull’intuizione di Anscombe, Searle (1983) sostiene che ci sono due “direzioni di adattamento” opposte che gli atti linguistici o gli stati mentali possono esemplificare: proprio come l’atto linguistico di un’asserzione ha una direzione di adattamento parola-a-mondo, le credenze e le percezioni hanno una direzione di adattamento mente-a-mondo. La funzione di un atto linguistico di una asserzione è quella di dichiarare un fatto o una situazione reale. Allo stesso modo, la funzione di una credenza e di una percezione è quella di corrispondere ad un fatto. A differenza delle asserzioni, le regole hanno una direzione di adattamento mondo-a-parola. A differenza delle credenze e delle percezioni, i desideri e le intenzioni hanno una direzione di adattamento mondo-a-mente. La funzione di una regola è quella di rappresentare una situazione non reale possibile o impossibile. Allo stesso modo, la funzione di un desiderio e di un’intenzione è quella di rappresentare una situazione non reale possibile o impossibile.

Ora sorgono i seguenti quesiti: Brentano e la tradizione fenomenologica hanno ragione? Tutti gli stati mentali manifestano intenzionalità? L’intenzionalità è una caratteristica di ogni aspetto dell’esperienza umana? Tutte le forme di coscienza sono coscienza di qualcosa? Ogni stato mentale possiede l’una o l’altra direzione di adattamento? Le sensazioni (ad esempio, dolori), sentimenti, emozioni (ad esempio, depressione) manifestano tutte intenzionalità? Queste domande sono molto dibattute nella filosofia della mente contemporanea. Prima di esaminare varie risposte contraddittorie a queste domande, è opportuno porsi una domanda preliminare: indipendentemente dal fatto che Brentano avesse ragione o meno, perché dovremmo volere un marchio del mentale?

Quest’ultima questione è stata resa ancora più urgente da alcune recenti osservazioni del linguista Noam Chomsky (2000, 75, 106), secondo cui il naturalismo metodologico impone di usare termini come “mente” e “mentale” allo stesso modo di termini come “chimico”, “ottico” o “elettrico”. Infatti, dal momento che non cerchiamo di determinare il vero criterio dell’elettrico o il marchio della sostanza chimica, per parità naturalistica di ragionamento, sostiene Chomsky, non dovremmo più cercare un criterio del mentale. Se abbiamo bisogno di criteri diversi rispettivamente per la sostanza chimica e per l’ottica, allora è un vero e proprio problema se la parola italiana “mentale” possa essere giustamente applicata a cose diverse come, ad esempio, un dolore e la credenza che 5 sia un numero primo. Come ha detto Richard Rorty (1979, 22), “il tentativo di agganciare insieme dolori e credenze sembra ad hoc – non sembrano avere nulla in comune fra loro, tranne il nostro rifiuto di chiamarli ‘fisici’”. Dunque, la sua conclusione è che la parola “mentale” non esprime alcuna proprietà singola, né tantomeno un “tipo naturale”. Secondo la prospettiva irrealista di Rorty, la parola “mentale” è solamente una parte di un gioco linguistico accademico senza alcuna importazione scientifica esplicativa.

Pertanto, l’immagine irrealista radicale della mente di Rorty si basa sull’osservazione che i dolori e le credenze aritmetiche sembrano non avere nulla in comune. Anche se non molti filosofi della mente contemporanei accetterebbero la visione irrealista della mente di Rorty, la maggior parte riconosce che se le menti sono reali, allora sorgono due problemi: il problema dell’intenzionalità e il problema della coscienza o dell’esperienza fenomenica cosciente. Molti di loro affermerebbero che una soluzione al problema dell’intenzionalità non è ipso facto una soluzione al problema della coscienza. Per quale motivo?

Gli esseri umani possono sperimentare il mondo in tante maniere attraverso varie modalità sensoriali distinte (vista, udito, tatto, olfatto). Inoltre, sono anche coscienti delle parti del loro corpo come quando, ad esempio, provano dolore. Il problema della coscienza è spesso chiamato “il problema dei qualia” perché gli stati con un forte carattere fenomenico — come dolori, sensazioni visive o olfattive — sono stati che sembrano introspettivamente dotati di una forte qualità soggettiva intrinseca. Il problema generale della coscienza è quello di spiegare, riprendendo la famosa frase di Thomas Nagel (1974), “ciò che si prova” ad essere una determinata creatura con un’esperienza fenomenica. Qual è il carattere fenomenico — la fenomenologia — delle varie forme dell’esperienza umana? Pochi, se non alcuni, filosofi fisicalisti o meno, tendono a supporre che, a differenza dell’intenzionalità, la coscienza fenomenica possa essere esemplificata da fenomeni non mentali. Infatti, non molti negherebbero che, sebbene dolori, sensazioni visive, olfattive e uditive siano esperienze molto diverse tra di loro, tuttavia manifestino una proprietà comune chiamata “coscienza fenomenica”. Sia da un punto di vista scientifico che da una prospettiva fisicalista, il problema che emerge è se la coscienza fenomenica sia fisica e se possa essere spiegata in termini fisici, cioè come risultato di processi che avvengono nel cervello.

Come molti filosofi sono disposti a riconoscere, il concetto espresso dalla parola “coscienza” ha bisogno di molti chiarimenti. Vale la pena menzionare tre di questi chiarimenti, due dei quali consistono in un paio di distinzioni di David Rosenthal (1986). Una distinzione è tra la coscienza della creatura e lo stato di coscienza, mentre l’altra è tra coscienza transitiva e intransitiva. Infatti, si può dire che una creatura è “intransitivamente” cosciente se è viva e normalmente reattiva agli stimoli, mentre smette di essere intransitivamente cosciente quando è in un sonno senza sogni, k.o., drogata o in coma. Al contrario, si può dire che una creatura è “transitivamente” cosciente se è consapevole delle cose, delle proprietà e delle relazioni presenti nel suo ambiente. Quindi, mentre una creatura può essere sia intransitivamente cosciente che transitivamente cosciente di qualcosa, uno stato mentale può essere solo intransitivamente cosciente. Pertanto, un aspetto importante del problema della coscienza è come tracciare la linea di demarcazione tra stati mentali coscienti e non coscienti. Un terzo chiarimento riguarda la distinzione di Ned Block (1995) tra coscienza di accesso (o A-coscienza) e coscienza fenomenica (o P-coscienza). Mentre si dice che uno stato è A-cosciente se è pronto all’uso per il ragionamento e per il controllo razionale diretto dell’azione e della parola (cioè disponibile o accessibile a diversi meccanismi cognitivi), la P-coscienza di uno stato riguarda ciò che si prova ad essere in quello stato (indipendentemente dal fatto che abbia o meno una A-coscienza). In un recente lavoro, Block (2007) ha sostenuto che molte evidenze dell’investigazione scientifica cognitiva del sistema visivo confermano la sua distinzione tra P-coscienza e A-coscienza. Ad esempio, in base alla sua interpretazione, gli esperimenti sulla cecità al cambiamento oltre che l’indagine neuropsicologica su pazienti umani affetti da lesione cerebrale con sindrome di negligenza mostrano che l’attenzione e la memoria operativa sono parti necessarie della A-coscienza, ma non della P-coscienza. Infatti, ciò che rende uno stato A-cosciente consiste nel fatto che il suo contenuto venga messo a disposizione di vari sistemi cognitivi (ad esempio, attenzione e memoria). Inoltre, un individuo non può riportare di aver visto uno stimolo se questo non è stato assistito e memorizzato nella memoria operativa. Ma Block (2007) fornisce le prove per dimostrare che un individuo può essere P-cosciente del contenuto di uno stimolo non segnalabile, ossia uno stimolo il cui contenuto non è stato né assistito né memorizzato nella memoria operativa. Per argomenti che supportano tale tesi, vedasi Dretske (2004, 2007). L’interpretazione di Block dei dati scientifici cognitivi è stata criticata dai sostenitori scientifici del cosiddetto “modello dello spazio di lavoro globale neuronale” della coscienza: vedasi ad esempio, Dehaene et al. (2006), Naccache e Dehaene (2007), il quale è un commentario a Block (2007). Il modello dello spazio di lavoro globale neuronale della coscienza si adatta bene alla posizione di Dennett (1991, 2005) sull’intenzionalità e sulla coscienza che lui stesso ha soprannominato il modello della “fama (nel cervello) della coscienza”. (Per ulteriori discussioni su questi temi, vedasi la voce sull’attenzione.)

Da un lato, la nozione di coscienza transitiva della creatura sembra una stretta cugina della nozione di intenzionalità. Dall’altro, ciò che rende cosciente lo stato mentale di una persona è che essa può avervi accesso. Presumibilmente, una persona può avere accesso cosciente a uno dei suoi stati mentali A-coscienti in virtù del fatto che ad esso è diretto qualche altro stato mentale (ad esempio, un pensiero o una credenza). Quindi avere stati con intenzionalità sembra essere una condizione affinché qualsiasi stato mentale sia A-cosciente. Ne consegue che se il problema della coscienza deve essere chiaramente distinto dal problema dell’intenzionalità, la questione chiave è quella di spiegare come uno stato mentale possa essere P-cosciente.

Molti filosofi non accettano la terza tesi di Brentano secondo cui l’intenzionalità è il marchio di tutti gli stati mentali. Essi non respingono la seconda tesi di Brentano sulla base del fatto che l’intenzionalità può essere esibita da alcuni oggetti non mentali. La rifiutano perché, come Block (1996) e Peacocke (1983), difendono una posizione che può essere chiamata “anti-intenzionalismo”, secondo la quale lo stato mentale cosciente di una persona ha un carattere fenomenico che non può essere spiegato né dalla sua propria intenzionalità (se ne ha alcuna), tantomeno dall’intenzionalità di qualcun altro e dei suoi stati mentali. Né abbracciano l’atteggiamento irrealista di Rorty nei confronti del mentale. Alcuni filosofi, che ricadono sotto l’etichetta di “anti-intenzionalismo”, potrebbero accettare la tesi che l’intenzionalità e il mentale sembrano coincidere. Ma, dal momento che essi affermano che l’intenzionalità a sua volta derivi dalla coscienza fenomenica, non sono così convinti dal nucleo della tesi di Brentano secondo cui l’intenzionalità sia il marchio costitutivo del mentale.

Gli anti-intenzionalisti, che rifiutano sia l’irrealismo di Rorty sia la tesi di Brentano secondo cui l’intenzionalità è il vero marchio del mentale, possono essere divisi in due gruppi. Alcuni, come Ned Block (1995, 1996), accetterebbero una doppia visione secondo la quale gli stati mentali rientrano in una divisione tra stati intenzionali e stati fenomenici. Come vedremo tra poco, questa divisione è negata dagli intenzionalisti. Tra gli intenzionalisti e i realisti fenomenici, che accettano la doppia visione, si trova la visione intermedia di filosofi come Colin McGinn (1989), Sydney Shoemaker (1996) e Charles Siewert (1998), che vedono un’intima connessione tra stati intenzionali e fenomenici.

 Altri anti-intenzionalisti, come John Searle (1990, 1992) e Galen Strawson (1994), fanno un ulteriore passo avanti e rifiutano entrambe le tesi di Brentano e la duplice visione della mente. Essi ritengono che la coscienza sia il vero criterio del mentale. Probabilmente, come affermato sopra, essi potrebbero anche accettare la tesi che l’intenzionalità coincida con il mentale, ma ritengono certamente che l’intenzionalità derivi dalla coscienza. Da un lato, Strawson (1994) sostiene chiaramente che la coscienza fenomenica è il vero criterio del mentale. D’altra parte, Searle (1992) abbraccia quello che chiama “il principio di connessione”, secondo il quale, a meno che uno stato mentale non sia a disposizione della coscienza, esso non si qualifica come genuinamente mentale. Di conseguenza, Searle (1992) sembra sostenere l’idea che essere a disposizione per la coscienza sia il criterio del mentale. Adesso, l’idea che la disponibilità alla coscienza sia il vero criterio del mentale implica che gli stati e i processi che sono studiati dalla scienza cognitiva, e che non sono disponibili alla coscienza, non si qualificano come stati mentali autentici. Questo punto di vista è stato fortemente contestato da Chomsky (2000). Partendo dal presupposto naturale che le credenze siano stati mentali paradigmatici, l’idea che la coscienza fenomenica sia il vero criterio del mentale implica inoltre che si provi qualcosa ad avere un atteggiamento proposizionale come credere che 5 sia un numero primo, una conseguenza che alcuni possono trovare dubbiosa. Se non si prova niente nel credere che 5 sia un numero primo, allora, secondo la posizione in cui la coscienza fenomenica è il criterio del mentale, molti atteggiamenti proposizionali non riuscirebbero a qualificarsi come stati mentali autentici. Tuttavia, molto del recente lavoro nella filosofia della mente è stato dedicato alla difesa della cosiddetta “fenomenologia cognitiva”, secondo la quale si prova qualcosa nel credere che, ad esempio, 5 sia un numero primo. Vedasi la voce sulla coscienza e gli articoli raccolti a Bayne e Montague (eds.) (2011).

Molti dei filosofi che accettano una versione della tesi di Brentano, secondo cui tutti gli stati mentali esibiscono intenzionalità, cercano di mostrare che i misteri della coscienza fenomenica possono essere spiegati (cioè dissolti) o che la coscienza fenomenica derivi dall’intenzionalità. Daniel Dennett (1988, 1991, 2001) è stato il sostenitore più coerente dell’opinione che la distinzione tra coscienza fenomenica e coscienza di accesso è stata sopravvalutata e che i qualia dovrebbero essere “quinati”, cioè risolutamente negati e ignorati.

I cosiddetti “intenzionalisti” sono filosofi che pensano che la coscienza fenomenica possa davvero essere spiegata tramite l’intenzionalità perché ritengono che gli stati fenomenici siano stati intenzionali. Dal punto di vista intenzionalista, le qualità fenomeniche di un’esperienza sono le proprietà rappresentate come appartenenti agli oggetti nell’esperienza. Alcuni intenzionalisti, come Fred Dretske (1995) e Michael Tye (1995), pensano che, mentre i pensieri e gli atteggiamenti proposizionali sono rappresentazioni mentali con contenuto concettuale, i qualia o le esperienze coscienti sono rappresentazioni mentali con contenuto non concettuale (vedasi Dretske 1981, Peacocke 1992, 2001 e i saggi in Crane 1992). Dal loro punto di vista, avere caratteristiche fenomeniche significa possedere un certo tipo di contenuto non concettuale. Nella posizione di Tye (1995), ad esempio, i dolori sono rappresentazioni mentali di parti del corpo e l’esperienza fenomenica di un dolore è il contenuto non concettuale della rappresentazione corporea. Altri intenzionalisti come Elizabeth Anscombe (1965) e specialmente John McDowell (1994), che sono scettici sulla distinzione tra contenuto concettuale e non concettuale, faranno appello ad altri criteri, ad esempio il ruolo funzionale, per spiegare gli stati fenomenici (vedasi la voce sul contenuto mentale non concettuale). Ad esempio, McDowell (1994) sostiene che il contenuto fenomenico dell’esperienza può essere spiegato con una nozione adeguata di contenuto concettuale dimostrativo.

Attualmente ci sono due questioni in sospeso che un approccio intenzionalista alle esperienze fenomeniche deve affrontare. Il primo è se la spiegazione intenzionalista può essere estesa al carattere fenomenico di tutte le esperienze sensoriali e corporee. Questa è attualmente una questione aperta (cfr. Crane, 2007). La seconda questione è se il contenuto non concettuale delle esperienze percettive possa essere oggettivo nel rappresentare e riferirsi a oggetti particolari, o se solo i pensieri concettuali possano essere oggettivi e rappresentare o riferirsi a particolari oggetti. Da un lato, Evans (1982), Dretske (1981, 1995) e Peacocke (1992) assumono che il pensiero proposizionale o il contenuto concettuale sia necessario per ottenere il riferimento a particolari. D’altra parte, Burge (2010) ha offerto importanti considerazioni (per lo più derivate dalla psicologia percettiva) a favore dell’oggettività delle rappresentazioni puramente percettive. Dal punto di vista di Burge, le rappresentazioni percettive sono sia rappresentazioni sensoriali che rappresentazioni oggettive dell’ambiente: esse hanno un contenuto non concettuale, ma non hanno bisogno di essere integrate da capacità concettuali per rappresentare dei particolari.

Infine, secondo la teoria della coscienza del “pensiero di ordine superiore” di David Rosenthal, ciò che rende cosciente lo stato mentale di una persona è che la persona ne è cosciente in virtù di aver formato un pensiero di ordine superiore (o HOT, che sta per Higher Order Thought) su di esso. Inoltre, il carattere fenomenico dell’esperienza sensoriale di una persona — cosa si prova per quella persona nell’essere in quello stato — deriva dal fatto che la persona ha formato un HOT al riguardo. Il problema con la teoria HOT della coscienza fenomenica è che implica che le creature che, come gli animali non umani e i bambini, non hanno la capacità di formare HOT, saranno privi di coscienza fenomenica — una conseguenza che molti troveranno non plausibile (cfr. Rosenthal , 1986, 2005). Per ulteriori discussioni, vedasi le voci su coscienza e intenzionalità e sulle teorie di ordine superiore sulla coscienza.

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Strumenti accademici 

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Voci correlate

existence | Frege, Gottlob | mental content: causal theories of | mental content: teleological theories of | reference | Russell, Bertrand | teleology: teleological notions in biology

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