La rappresentazione mentale nella filosofia medievale

Traduzione di Giuseppe Colonna.

Revisione di Tommaso Soriani, pagina di Henrik Lagerlund.

Versione Inverno 2020.

The following is the translation of Henrik Lagerlund’s entry on “Mental Representation in Medieval Philosophy” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy.  The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2020/entries/representation-medieval/ . The translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at https://plato.stanford.edu/entries/representation-medieval/  . We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

Nella filosofia della mente contemporanea, le nozioni di rappresentazione mentale e intenzionalità sono intrinsecamente correlate, poiché si pensa solitamente che uno stato mentale abbia un contenuto o verta su qualcos’altro rispetto a se stesso in virtù della sua natura rappresentazionale. Queste nozioni hanno una storia parallela anche nella filosofia medievale, ma è stata l’intenzionalità che ha attratto l’attenzione degli studiosi medievalisti (per esempio, in Knudsen 1982, Pasnau 1997, Perler 2001 e Perler 2002). Sulla rappresentazione mentale ci sono stati solamente pochi studi (Tweedale 1990, Pasnau 1997, King 2007 e Lagerlund 2007a).

Una delle maggiori ragioni dell’interesse per l’intenzionalità nella filosofia medievale è da rintracciarsi nel riconoscimento di una nozione scolastica che Franz Brentano rivisitò quando introdusse l’intenzionalità come “il marchio del mentale” (Brentano 1874). Ma Brentano non usò mai la terminologia della rappresentazione per spiegare l’intenzionalità. Questo fu fatto molto più tardi, nella filosofia della mente post-Wittgensteiniana. Nella filosofia medievale era comunque comune spiegare il contenuto di un pensiero riferendosi alla sua natura rappresentazionale.

Ci sono una varietà di teorie della rappresentazione mentale nella filosofia medievale che furono intensamente discusse dal dodicesimo secolo al tempo di Cartesio. Questo articolo ripercorrerà brevemente la storia della terminologia e fornirà anche una breve panoramica delle maggiori teorie sviluppate durante il tredicesimo e quattordicesimo secolo.

1. Il contesto antico e la formazione del concetto

Le parole inglesi ‘rappresentazione’ e ‘rappresentare’ derivano attraverso il francese antico dalle parole latine ‘repraesentatio’ e repraesentare’. Queste non sono parole comunemente usate nel latino classico. Solo nel pensiero tardo-antico questi termini saranno usati principalmente da Quintiliano e Tertulliano in modo filosoficamente interessante. D’altra parte, non è prima della traduzione latina del De Anima di Avicenna che questi termini diventarono frequentemente usati in connessione con cognizione e mente o anima intellettiva (vedi Lagerlund 2007 b).

I traduttori latini di Avicenna resero numerosi termini, tutti correlati in arabo con cognizione e sensi interni, con il latino ‘repraesentatio’. Nel fare questo, essi, intenzionalmente o meno, plasmarono il concetto di rappresentazioni nell’anima. Il concetto di rappresentazione nella traduzione latina di Avicenna è associato a tutte e cinque le facoltà: le forme ricevute attraverso il senso comune e immagazzinate nella fantasia sono chiamate rappresentazioni; la facoltà immaginativa o cogitativa combina e divide rappresentazioni raccolte nella fantasia per creare nuove rappresentazioni che potrebbero non avere alcun oggetto reale corrispondente a esse; i sensi apprendono le forme sensibili degli oggetti percepiti; la facoltà estimativa apprende la ‘intentio’ o ‘ma’na’ dell’oggetto percepito. Secondo questa visione della cognizione, le rappresentazioni nell’immaginazione costituirebbero anche la base per l’attività intellettuale:

Nell’intelletto, la forma dell’animale è del tipo che concorda con una stessa identica definizione di molte [cose] particolari. Quindi, una forma nell’intelletto sarà connessa con molte cose, ed è in questo senso che è universale, perché essa è un’intenzione nell’intelletto… che è evidente dal momento che di queste [cose] rappresentate dalla forma nell’immaginazione, l’intelletto ha saccheggiato l’intenzione dei suoi accidenti [e] acquisito la forma nell’intelletto. (Liber de philosophia prima sive scientia divina, V, cap. 1, p. 237).

Avicenna qui descrive il processo dell’astrazione, ovvero come la rappresentazione nell’immaginazione di cose particolari diventi universale nell’intelletto. Le forme universali sono astratte da rappresentazioni nell’immaginazione e fluiscono dall’ intelletto attivo verso quello passivo. Si noti, comunque, che la terminologia di rappresentazione non è mai usata in relazione all’intelletto. Sono sempre i sensi interni e non l’intelletto o i sensi esterni che, in Avicenna, compiono la rappresentazione (vedi Lagerlund 2007b, per una tavola dell’intera gamma dei termini tradotti da ‘rappresentazione’ nelle opere di Avicenna).

Una delle ragioni per cui ‘rappresentazione’ è usata solamente in relazioni ai sensi interni è che le rappresentazioni sono considerate alla stregua di immagini. La nozione di rappresentazioni linguistiche o rappresentazioni come segni non è presente nell’opera di Avicenna o in altre opere dello stesso periodo. Questa nozione sembra, invece, derivare dalla logica. Le prime opere di logica come la Dialectica (17) di Garlando Compotista e la Dialectica di Abelardo (II, 188) discussero una distinzione tra il significato della parola per imposizione e per rappresentazione. Un termine denominativo come ‘bianco’ sta a significare per imposizione una sostanza che è bianca, ma al contempo significa per rappresentazione la bianchezza inerente alla sostanza: la cosa bianca sta per qualcosa o è una istanziazione della bianchezza, mentre il bianco è ri-presentato nell’oggetto. Garlando menziona l’esempio di un viaggiatore (‘viator’) che si può dire rappreenti una strada (‘via’). Il termine ‘viaggiatore’ significa per imposizione l’essere umano che è il viaggiatore, ma rappresenta anche la strada su cui il viaggiatore viaggia. È esattamente questo uso di rappresentazione applicato ai segni mentali che diventa importante con Ockham e Buridano.

 

2. Tommaso d’Aquino e l’identità formale

Nel tredicesimo secolo la teoria più influente sul pensiero filosofico può essere fatta risalire ad Aristotele, e annovera Tommaso d’Aquino tra i suoi maggiori difensori. Questa teoria si basa sull’idea secondo cui le rappresentazioni mentali o specie intelligibili, come le chiama Tommaso, possiedono identità di forma: la spiegazione per cui i pensieri vertono su qualcosa, manifestano intenzionalità, o rappresentano, si basa sul fatto che la forma dell’oggetto su cui verte il pensiero risulta essere nella mente del pensante. Secondo una metafora popolare, il pensare qualcosa, secondo questa visione, consiste nell’ essere l’oggetto su cui verte il pensiero, nel senso che l’intelletto diventa l’oggetto in questione o ne assume la forma.

Sulla scia di Aristotele (De anima III.4), Tommaso asserisce che la mente o la parte intellettiva dell’anima non ha natura o, piuttosto, non è niente fino al momento in cui non pensa a qualcosa. L’intelletto attivo astrae la specie intellegibile dalla specie sensibile nei sensi interni e la pone nell’’intelletto potenziale. Tommaso in questo si avvicina molto alla visione che, come abbiamo visto in precedenza, difende Avicenna: la specie intelligibile nell’intelletto potenziale costituisce il pensiero. Inoltre, secondo Tommaso, l’intelletto è immateriale e, dal momento che egli, come è noto, ritiene che la materia costituisca il principio di individuazione, la specie intelligibile nell’intelletto potenziale non è altresì individuale ma universale. Questo è il motivo per cui Tommaso sostiene che un pensiero è sempre universale.

Ci sono molti problemi associati con questa posizione sulla rappresentazione mentale. Un famoso problema è: perché i narcisi che sono all’esterno della mia anima non vertono sul mio pensiero dei narcisi? Infatti, si presuppone che le forme interne ed esterne alla mia mente siano le stesse, quindi, la rappresentazione mentale dovrebbe essere simmetrica. Tommaso dà una risposta famosa a questo problema: i narcisi nel giardino non vertono sul mio pensiero in virtù del modo in cui la forma è presente in essi; le forme nei narcisi sono realmente o naturalmente presenti, mentre la forma universale nella mia mente è spiritualmente o intenzionalmente presente.

La distinzione tra forme presenti in modo reale/naturale e forme presenti in modo spirituale/intenzionale risulta centrale nella teoria della cognizione di Tommaso. Una forma può essere presente da qualche parte senza rendere qualunque sostanza che essa informa qualcosa d’altro. I colori nell’aria, per esempio, non rendono l’aria davvero colorata: vediamo i colori negli oggetti intorno a noi ma non nell’aria interposta, nonostante questi debbano essere spiritualmente lì se la sensazione è un processo causale. Questo significa, certamente, che l’aria deve in qualche modo contenere il colore. Per questo, secondo Tommaso l’intenzionalità non è un marchio del mentale: infatti, l’aria non è in se stessa una mente (per discussione vedi Pasnau 1997, cap. 2).

 

3. Pietro Olivi e il rifiuto della identità formale

Tra i primi a criticare, nel tardo tredicesimo secolo, la teoria della cognizione delle specie fu Pietro Olivi. Egli afferma, contrariamente ad Aristotele e Tommaso, che la mente è attiva nella sua cognizione del mondo, ovvero che essa è rivolta all’oggetto. Proprio questa sua idea mette la sua teoria della cognizione delle specie in una luce completamente differente. Infatti, secondo Olivi, è inutile postulare una specie attraverso cui l’oggetto è conosciuto. Egli afferma:

Terzo, poichè l’attenzione tenderà verso la specie in una tal maniera che non passerebbe oltre all’ essere rivolta all’oggetto, oppure in un tal modo che passerebbe oltre. Se fosse il primo caso, allora la cosa non sarà vista in se stessa, ma sarà vista solo la sua immagine come se fosse la cosa stessa. Questo è il ruolo di una specie della memoria, non un ruolo visuale. Se fosse il secondo caso, allora dopo l’osservazione della specie sarà osservato l’oggetto in se stesso. In questo modo, si riconoscerà l’oggetto in due modi, prima attraverso le specie e successivamente in se stesso. Sarà, infatti, come quando qualcuno vede lo spazio interposto e poi oltre questo vede l’oggetto fissato. (Pietro Giovanni Olivi, Quaestiones in secundum librum Sententiarum, III, q. 74, 123).

In questo passaggio sembra chiaro che per Olivi la specie è una cosa in se stessa e che ci sono realmente tre cose implicate nella cognizione di un oggetto: l’oggetto, la specie, e il conoscente. Secondo la sua visione, la specie è una rappresentazione, ovvero una cosa che sta al posto dell’oggetto nella mente. Il maggiore problema che egli individua con questa teoria è quindi epistemologico: come possiamo essere sicuri che stiamo conoscendo l’oggetto e non la specie? (vedi Toivanen 2009, cap. 4). Olivi, quindi, afferma che questa terza cosa rappresentante non è necessaria e che la mente può essere rivolta all’oggetto direttamente. In seguito, nel primo quattordicesimo secolo, Ockham riproporrà un argomento simile contro la teoria delle specie.

Sia Olivi che Ockham sembrano assumere che le specie siano rappresentazioni e, quindi, una cosa aggiunta all’oggetto e al conoscente. Tuttavia, si possono rilevare due versioni della teoria della cognizione delle specie nel tredicesimo secolo. Quella più influente è soprattutto riconducibile a Roger Bacon secondo cui le specie sono rappresentazioni, ovvero, immagini reali estese, come oggetti rappresentanti la cosa conosciuta al conoscente. L’altra versione della teoria fu difesa da Tommaso, secondo cui le specie non sono rappresentazioni ma le forme stesse degli oggetti conosciuti secondo un differente modo d’essere. Le specie non sono reali ma spirituali e, come tali, non producono cambiamenti fisici, come, per esempio, quello dell’occhio in una percezione visuale, ma solo un cambiamento spirituale.

L’obiezione di Olivi menzionata sopra non si applica alla teoria di Tommaso dal momento che, secondo la sua visione, le specie non sono rappresentazioni reali. Olivi stesso sembra consapevole di questo, comunque, e afferma che se le specie hanno un essere spirituale, allora esse non possono “veramente e naturalmente fluire da una forma naturale e corporea, [e] non possono informare realmente e veramente un corpo naturale come, per esempio, l’aria o l’occhio”. (Sententiarum II, q. 73, 87). Secondo la teoria di Tommaso le specie non possono affliggere l’organo di senso e causare la cognizione. Per questo, le specie non possono rivestire il ruolo che si suppone esse giochino in una teoria della cognizione o teoria della visione.

Tuttavia, Olivi non elimina del tutto le specie poiché pensa che la memoria utilizzi le specie, ovvero delle rappresentazioni costruite da noi stessi. Egli lo chiarisce nel seguente passaggio:

Gli atti cognitivi sono influenzati dal potere [cognitivo] – non, tuttavia, attraverso la sua nuda essenza. Piuttosto, in tutti [gli atti cognitivi] è richiesta un’attenzione attuale effettivamente terminante sull’oggetto […] E, inoltre, quando la cosa esteriore dentro-e-a proposito di se stessa (per se) non è posta davanti l’attenzione, ci deve essere una specie della memoria posta prima di questa in luogo dell’oggetto, ché [la specie] non è l’origine dell’atto cognitivo, eccetto nella misura in cui serve come termine per o rappresentativo dell’oggetto. (Sententiarum II, q. 74, 1113).

Questo è l’uso più comune di specie fatto dopo l’introduzione di Olivi, secondo cui le specie sarebbero rappresentative.

 

4. Enrico di Gand e Giovanni Duns Scoto sul contenuto mentale

Per una serie di ragioni, il tardo tredicesimo secolo vide un crescente interesse nel campo dell’epistemologia. Uno dei motivi fu  lo  sviluppo di nuove teorie delle rappresentazioni mentali e dell’intenzionalità. Alcuni di questi sviluppi erano dovuti, da una parte, alle caratteristiche problematiche della visione di Tommaso sulla rappresentazione mentale e, dall’altra, all’interpretazione proposta da Enrico di Gand della concezione di Agostino della cognizione divinaTommaso sembra aver mantenuto che la specie intelligibile giochi un doppio ruolo sia come universale comune a tutti noi che lo pensiamo sia come lo stesso mio pensiero individuale. È difficile vedere come una tale visione possa essere mantenuta senza l’introduzione di un qualche tipo di distinzione. Parallelamente, Enrico reinterpreta la dottrina sulle idee divine di Agostino e introduce una distinzione tra idee e natura divina: le idee sono possibilia o nature di cose possibili che potrebbero essere create (de Rijk 2005: 81- 84).

Entrambe queste visioni contribuiscono all’introduzione della distinzione tra il mezzo e il contenuto della rappresentazione. La distinzione sviluppata da Enrico in relazione alla natura divina fu immediatamente adottata soprattutto nei dibattiti a proposito della cognizione umana. Essa fu applicata alla teoria della rappresentazione mentale di Tommaso, facendo un passo ulteriore grazie all’introduzione di una distinzione tra la cosa rappresentante e la cosa rappresentata.

Giovanni Duns Scoto fu determinante nell’adattare questa visione alla cognizione umana. Scoto perfezionò la distinzione di Enrico, concependo la cosa che funge da rappresentante come un atto mentale o un concetto, che, ontologicamente parlando, è un accidente della mente, e la cosa rappresentata come la forma dell’oggetto pensato. Scoto affermò che l’accidente o atto mentale è soggettivamente nell’anima, mentre l’oggetto, essendo rappresentato, è oggettivamente presente o  ha un essere oggettivo nella mente. Inoltre, secondo Scoto l’oggetto esiste come rappresentato per esprimere l’aspetto del contenuto della rappresentazione mentale (Ord. I, d.3, q. 1, n. 382). Attraverso questa distinzione, Scoto può anche mantenere che tutto il cambiamento spirituale sopravvenga a un cambiamento reale (vedi Cross 2014).

Scoto, quindi, ebbe un chiaro modo di esprimere ciò che Brentano successivamente denominò intenzionalità, ovvero il modo in cui l’oggetto del pensiero esiste nella mente: l’oggetto del pensiero che secondo Scoto ha un’esistenza oggettiva nella mente sarà in seguito definito da Brentano come marchio del mentale (vedi Normore 1986; Pasnau 2003; King 2007; Cross 2014). Nonostante i vantaggi di questo approccio rispetto a quello di Tommaso siano chiari, rimangono molti problemi riguardo allo statuto ontologico di questi contenuti mentali. A questo riguardo, il dibattito medievale è ben noto ed è caratterizzato da una grande varietà di opinioni (per una panoramica vedi Tachau 1988). Scoto stesso dice che gli oggetti del pensiero hanno una sorta di essere diminuito che si suppone essere uno stato tra l’essere reale e il non essere. Nonostante Ockham avesse inizialmente accettato una visione simile, in seguito la criticò ampiamente.

 

5. Guglielmo d’Ockham e il linguaggio mentale

La teoria del linguaggio mentale nel quattordicesimo secolo fu soprattutto sviluppata da Guglielmo d’Ockham. Questa teoria si basa su una concezione della rappresentazione mentale che combinava le nozioni di causa e significazione. Secondo questa visione, un concetto o un termine mentale rappresenta perché è causato efficientemente da una cosa nel mondo, e il concetto significa quella determinata cosa del mondo anche in virtù della relazione causale esistente tra di essi. Secondo la visione di Ockham, una rappresentazione mentale o concetto è causata da una cognizione intuitiva. Egli spiega:

La cognizione intuitiva è la cognizione propria di un singolare non in virtù di una sua maggiore somiglianza ad una cosa più che ad un’altra, ma in quanto questa è naturalmente causata da una cosa piuttosto che da un’altra; neanche questa [stessa cognizione] può essere causata da un altro [particolare]. Se si obietta che questa può essere causata solamente da Dio, io rispondo che ciò è vero: una tale apprensione visuale è sempre atta ad essere causata da un oggetto creato e non da un altro; e se è causata naturalmente, è causata da una cosa e non da un’altra, e non è possibile che sia causata da un’altra. (Quodlibeta Septem 1.13).

Secondo la metafisica di Ockham, nel mondo ci sono solo individui, cosicché quando un individuo causa un concetto esistente nella mente tale individuo causa un concetto individuale e dunque una concezione singolare di se stesso. Nient’altro può causare quel concetto (a parte forse Dio). Il concetto singolare funziona come la parola riferita all’oggetto che l’ha causato nel nostro linguaggio del pensiero. Inoltre, questo concetto è un costituente atomico che può poi essere combinato per formare concetti più complessi o frasi del linguaggio.

La nozione di Ockham di acquisizione del concetto e rappresentazione mentale è sviluppata come parte di una teoria molto sofisticata del pensiero che implica non solo una teoria della significazione ma anche un’intera gamma di proprietà logico-semantiche come la connotazione e la supposizione. Ciò spiega come i concetti, che a loro volta sono gli oggetti diretti della credenza e della conoscenza, sono assemblati in frasi mentali che descrivono il mondo (per i dettagli, vedi Pannaccio 2004).

 

6. Giovanni Buridano e i concetti vaghi

Le posizioni di Ockham e Giovanni Buridano sul pensiero sono, da una parte, molto simili, ma, dall’altra, sono determinate da differenze fondamentali. Questo è particolarmente vero per il modo in cui i due autori concepiscono la rappresentazione mentale. Un esempio tipico è rappresentato dalle loro visioni del pensiero singolare. Entrambi partono dalla stessa idea secondo cui pensare qualcosa di singolare è avere nella mente un concetto singolare, ma sono fondamentalmente in disaccordo su come appaia un concetto singolare, e soprattutto su come sia possibile che esso si agganci al mondo: secondo la posizione di Ockham, un concetto è singolare perché la sua causa è propria, come egli la chiama, e le cause proprie sono necessariamente legate a un oggetto; ma secondo la posizione di Buridano, un concetto singolare è singolare in virtù della sua complessità (complessità semantica del significato puro, secondo Klima 2001: xxxviii – xiii e 2009: 40 -56). Secondo questa visione, il concetto singolare ha un contenuto descrittivo che gli permette di restringere la sua significazione ad una cosa sola (per la rilevanza di questa differenza con Ockham, vedi Klima 2009: 69-89).

Buridano pensa che conosciamo sempre o concepiamo qualcosa prima come singolare, e ciò significa anche che la concepiamo prima come questa o quella cosa, ovvero che la concepiamo come una determinata cosa. Secondo Buridano, questo significa che i nostri concetti sono sin dall’inizio carichi di contenuto, e un concetto completamente singolare porta con sé in tutte le circostanze qualunque cosa di ciò a proposito di cui esso è o rappresenta. Più specificamente, un tale concetto è determinato e non vago in quanto si applica ad una sola cosa, ma, secondo Buridano, tale concetto è anche ciò che non acquisiamo fin da subito. I primi concetti singolari acquisiti sono i così detti concetti singolari vaghi: un concetto vago è singolare perché è a proposito di una sola cosa, ma non è determinato ciò che essa sia; esempi di tali concetti sono ‘questo uomo’, ‘questa tazza’, da cui il nome ‘singolari vaghi’. Partendo da questi, arriviamo a concetti singolari determinati aggiungendo un contenuto, e, in seguito, arriviamo a concetti universali astraendo dalle circostanze singolarizzanti.

Per spiegare come funziona questo processo, Buridano usa un esempio che dopo di lui diverrà un esempio standard per spiegare la cognizione singolare. Supponiamo che Socrate si avvicini da lontano: all’inizio, non posso dire esattamente ciò che vedo avvicinarsi; qualcosa (una sostanza) si sta facendo sempre più vicina a me. Dopo un po’, vedo che è un animale di qualche tipo, ma non posso dire esattamente che tipo di animale sia. In seguito, quando si fa più vicino, realizzo che è un essere umano, e, infine, quando è abbastanza vicino, riconosco Socrate (vedi Normore 2007).

Nonostante questo esempio sembri avere avuto una lunga tradizione (Black 2011), in nessuna occasione giocò un ruolo così importante come nel caso di Buridano e di alcuni suoi sostenitori. Questo esempio mostra come la cognizione è sempre inizialmente a proposito di ‘quella cosa’ (‘quell’animale’, ‘quell’essere umano’) e, infine, a proposito di ‘Socrate’. Per questo, secondo questi autori, la cognizione è in primo luogo sempre a proposito di qualcosa di singolare. Si può trovare questo stesso esempio in Giovanni Buridano, Nicola Oresme, Marsilio di Inghen, Pietro di Ailly, Gabriele Biel, e Thomas Hobbes, e tutti questi autori lo usano praticamente allo stesso modo. Si può quindi affermare che questo esempio contribuì a riformare la teoria del pensiero sviluppata da Ockham (vedi Lagerlund 2006 e Lagerland 2014).

 

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Strumenti accademici

Altre risorse in Internet

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Voci correlate

Aquinas, Saint Thomas | Aristotle, General Topics: psychology | Auriol [Aureol, Aureoli], Peter | Buridan, John [Jean] | intentionality | intentionality: in ancient philosophy | intentionality: medieval theories of | mental representation | Ockham [Occam], William

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