La cognizione incarnata

Traduzione di Matteo Maspoli e Angelo Trocchia.

Revisione di Valentina Martinis, pagina originale di Lawrence Shapiro.

Versione: Autunno 2022 (aggiornata). 

The following is the translation of Lawrence Shapiro’s entry on “Embodied Cognition” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/embodied-cognition/. This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at https://plato.stanford.edu/entries/embodied-cognition/.  We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

La cognizione incarnata è un ampio programma di ricerca che attinge e ispira studi in psicologia, neuroscienze, etologia, filosofia, linguistica, robotica e intelligenza artificiale. Anche le scienze cognitive tradizionali includono queste discipline, trovando tuttavia un orizzonte unificante in una concezione della mente che sposa il computazionalismo: i processi mentali sono processi computazionali; il cervello, in quanto computer, è il luogo della cognizione. In contrasto, la cognizione incarnata rigetta in vario modo o riformula gli impegni computazionali delle scienze cognitive, enfatizzando l’importanza del corpo fisico di un agente per le sue abilità cognitive. Ciò che unifica il programma di ricerca della cognizione incarnata è l’idea che il corpo o le interazioni del corpo con l’ambiente costituiscano o contribuiscano alla cognizione in modi che richiedono un nuovo framework di indagine. I processi mentali non sono (o non sono  soltanto) processi computazionali. Il cervello non è né un computer né il luogo della cognizione.

Una volta un movimento minoritario, la cognizione incarnata gode ora di una discreta prominenza. A differenza della psicologia ecologica, ad esempio, che ha affrontato un’ardua battaglia per essere maggiormente riconosciuta, la cognizione incarnata ha guadagnato un sostanziale seguito. I ricercatori che assumono una prospettiva incarnata sulla cognizione destano poco stupore oggi. La cognizione incarnata è stata oggetto di interesse di numerose riviste per il pubblico generalista. Più in generale, non c’è un’area di ricerca delle scienze cognitive – percezione, linguaggio, apprendimento, memoria, categorizzazione, problem solving, emozione, cognizione sociale – che non abbia ricevuto una “trasformazione” incarnata.

Ciò non toglie, ovviamente, che la cognizione incarnata non ponga questioni difficili o che sia sfuggita a dure critiche. Le numerose, ed alle volte incompatibili affermazioni, che questa fa sul ruolo del corpo per la cognizione e la miriade di metodi che utilizza per comprendere questo ruolo rendono arduo il compito della riflessione filosofica. I critici accusano la cognizione incarnata di sottoscrivere a una concezione ridotta della cognizione, o di non offrire un rimpiazzo adeguato alle scienze cognitive computazionali, o di affermare che il corpo abbia un ruolo costitutivo per la cognizione mentre in realtà il ruolo è solamente causale. I sostenitori della cognizione incarnata hanno risposto a ciascuna di queste obiezioni. Un risultato gradito di questi dibattiti sono le nuove prospettive circa vecchie questioni filosofiche su ciò che è la mente, cosa sono i concetti e come comprendere la natura e l’importanza della rappresentazione.

1. Le sconfitte e le aspirazioni della cognizione incarnata

Gli impegni ontologici e metodologici delle tradizionali scienze cognitive computazionali, che sono parte del gioco da almeno la seconda metà del ventesimo secolo, sono oggi ben compresi. Le prime o perlomeno le più influenti applicazioni del computazionalismo alla cognizione includono teorie dell’acquisizione del linguaggio (Chomsky 1959), dell’attenzione (Broadbent 1958), del problem solving (Newell, Shaw, e Simon 1958), dell’attenzione, della memoria (Steinberg 1969) e della percezione (Marr 1982). Comune a tutti gli approcci d’orientamento computazionale è l’idea che la cognizione richieda una serie discreta di eventi, a cominciare dalla trasduzione dell’energia degli stimoli in espressioni simboliche, seguita da una trasformazioni di queste espressioni secondo diverse regole, il risultato delle quali è un certo output – un’espressione grammaticale, la distinzione di un flusso di parole da un altro, la soluzione ad un problema logico, l’identificazione di uno stimolo tra quelli già memorizzati, o la percezione tridimensionale del mondo.

Le espressioni simboliche sulle quali i processi cognitivi operano, come le regole secondo le quali queste operazioni sono eseguite, sono stati rappresentazionali interni all’agente cognitivo. Queste espressioni sono identificate in termini di ciò a cui fanno riferimento (fonemi, intensità luminose, angoli, forme, etc.). Tutte queste attività cognitive avvengono nel sistema nervoso. È in virtù dell’attivazione del sistema nervoso che gli stimoli sono codificati in un linguaggio mentale, “il mentalese”, simile ai linguaggi di programmazione dei computer ordinari; allo stesso modo, le regole che dettano la manipolazione dei simboli nel linguaggio mentale sono come le istruzioni che una C.P.U. esegue durante un processo informatico. Invece di passare da un documento ad un altro o visualizzare pezzi di Tetris, il cervello computazionale produce linguaggio, percepisce il mondo, o recupera oggetti dalla memoria. Questi metodi delle scienze cognitive computazionali riflettono i loro orientamenti ontologici. Gli esperimenti sono progettati per rivelare il contenuto degli stati rappresentazionali o svelare i passaggi attraverso i quali gli algoritmi mentali trasformano gli input in output.

Questa concezione computazionale della cognizione è stata così pervasiva nei decenni passati che molti scienziati cognitivi sarebbero contenti d’equiparare cognizione e computazione, non pensando troppo a possibili alternative. Certamente, il gran passo in avanti nella comprensione della cognizione che l’avvento del computazionalismo ha reso possibile porta a pensare che le scienze cognitive computazionali siano, se non l’unico, il miglior approccio possibile. Tuttavia, la psicologica ecologica, che J.J. Gibson (1966; 1979) ha iniziato ad elaborare intorno allo stesso momento in cui il computazionalismo iniziò a dominare la psicologia, rifiutò quasi tutti i principi del modello della cognizione basato sul processo di informazioni che le scienze cognitive computazionali incarnavano. Più recentemente, le scienze cognitive connessioniste hanno sfidato la visione simbolica del computazionalismo, seppur concedendo un ruolo ai processi computazionali. Dal momento che sia la psicologia ecologica sia la psicologia connessionista hanno avuto un ruolo significativo nell’ascesa della cognizione incarnata, una breve discussione dei loro punti cardine è necessaria per comprendere “la svolta incarnata”.  Allo stesso modo, alcuni ricercatori della cognizione incarnata prendono ispirazione da fonti molto diverse – la tradizione fenomenologica, in particolare il contributo Merleau-Ponty. Le prossime tre sottosezioni esaminano questi diversi filoni d’influenza.

1.1 La psicologia ecologica

Il primo disaccordo tra psicologia computazionale ed ecologica consiste nella natura degli stimoli ai quali gli organismi sono esposti. Gran parte dei computazionalisti considerano  questi stimoli come, nella terminologia chomskiana, impoveriti (Chomsky 1980). Le espressioni linguistiche alle quali un infante è esposto non contengono, da sole, informazioni sufficienti per discriminare la grammatica di una lingua. Allo stesso modo, l’informazione visiva presente nella luce che stimola la retina dell’organismo non specifica, da sola, la disposizione delle superfici nell’ambiente dell’organismo. La percezione visiva affronta un problema di “ottica inversa”. Per ciascuno schema di luce sulla retina esistono un numero infinito di possibili superfici distali capaci di produrre quello schema. Il sistema visivo, quindi, sembra dover affrontare un compito impossibile – mentre è possibile determinare lo schema di luci che una superficie riflettente produrrà sulla retina, il problema inverso sembra irrisolvibile, e ciononostante il sistema visivo risolve questo problema ogni volta e, fenomenologicamente parlando, immediatamente.

I computazionalisti credono che l’inesorabile povertà degli stimoli ponga il sistema cognitivo nella necessità di compiere inferenze. Proprio come la conoscenza preesistente ci consente di inferire dalle impronte nella neve che un cervo è passato di qui, il sistema cognitivo, secondo i computazionalisti, si affida a conoscenza preesistente subcosciente per inferire com’è il mondo dati gli indizi parziali che gli stimoli offrono. La percezione della dimensione  di un oggetto, per esempio, sarebbe, secondo il computazionalista, inferita sulla base della dimensione dell’immagine retinica di un oggetto con la conoscenza della distanza tra oggetto e osservatore. La percezione della forma di un oggetto, allo stesso modo, è inferita dalla forma dell’immagine retinica insieme alla conoscenza dell’orientamento dell’oggetto rispetto all’osservatore.

Gli psicologi ecologici, al contrario, negano che gli organismi entrino in contatto con stimoli impoveriti (Michaels e Palatinus 2014). Una tale visione, secondo loro, identifica erroneamente interi sistemi sensoriali con le loro singole parti – occhi, immagini retiniche, o attività cerebrale. I processi di percezione visiva, ad esempio, non sono solo limitati agli occhi e nemmeno al cervello, ma coinvolgono l’intero organismo mentre si muove nel suo ambiente.  I movimenti di un organismo creano un ordine sempre cangiante di stimolazioni nelle quali emergono caratteri invarianti. L’individuazione di questi invarianti, secondo lo psicologo ecologico, fornisce tutte le informazioni necessarie alla percezione. La percezione della forma di un oggetto, ad esempio, emerge dall’individuare i tipi di trasformazione nei pattern di stimoli che occorrono mentre ci si avvicina o ci si muove attorno all’oggetto. Gli angoli di un quadrato, ad esempio, creeranno configurazioni di luci differenti da quelle che un diamante rifletterebbe quando qualcuno si muove verso o attorno al quadrato, eliminando così il bisogno di inferenze regolamentate basandosi su esperienze precedenti per distinguere un quadrato da un diamante. Intuizioni come queste hanno incoraggiato i sostenitori della cognizione incarnata a cercare spiegazioni della cognizione che minimizzassero o negassero completamente il ruolo delle inferenze e, di conseguenza, il bisogno della computazione. Come la percezione, secondo gli psicologi ecologici, è un processo esteso che coinvolge un organismo in movimento attraverso il proprio ambiente, lo stesso potrebbe essere vero per molti altri risultati cognitivi.

1.2 Il connessionismo

I sistemi connessionisti offrono un modo di computare che, in molti casi, evita gli impegni simbolisti delle scienze cognitive computazionali. In contrasto ad un computer che opera su simboli sulla base di regole memorizzate, un sistema connessionista consiste in una rete di nodi che si eccitano o inibiscono a vicenda secondo connessioni ponderate. Stimoli diversi influenzeranno i nodi di entrata in modo differente, causando diverse configurazioni di attivazione ai livelli dei nodi più profondi a seconda dei valori di attivazione che i nodi di entrata inviano a monte. Il risultato di questa attività è rivelato nei valori di attivazione del livello finale di nodi – i nodi di uscita.

Le reti connessioniste computano in questo modo – trasformano valori di attivazione d’entrata in valori d’attivazione in uscita – ma l’attribuzione di strutture simboliche all’interno di questo processo computazionale, come le regole esplicite con le quali una C.P.U. esegue le operazioni su questi simboli, appare infondate. Secondo il modo in cui Hatfield (1991) caratterizza le reti connessioniste, queste sono non cognitive nel senso che le loro operazioni non implicano alcune delle peculiarità della cognizione sulle quali i computazionalisti insistono, eppure computazionali in quanto la stimolazione dei loro nodi d’entrata crea delle configurazioni di attivazione che portano a particolari valori di attivazione per i valori in uscita. Per un approfondimento riguardo al connessionismo in generale, vedi la voce sul connessionismo (https://plato.stanford.edu/entries/connectionism/).

Molti ricercatori nel campo della cognizione incarnata hanno visto nelle reti connessioniste un nuovo modo di pensare la cognizione e, di conseguenza, spiegare i processi cognitivi. Spiegazioni non simboliche della cognizione, nonostante il mantra computazionalista  d’essere “l’unica opzione disponibile” secondo Fodor (1987), potrebbero essere possibili dopo tutto. A dare spinta alla sfida connessionista è stata la nuova consapevolezza che la matematica della teoria dei sistemi dinamici poteva spesso illuminare l’evoluzione dei processi di attivazione nelle connessioni neurali e che questa poteva essere estesa per includere nella sua portata esplicativa le interazioni corpo-ambiente all’interno delle quali le reti connessioniste si trovano. Di conseguenza, alcuni ricercatori nel campo della cognizione incarnata hanno sostenuto che la teoria dei sistemi dinamici offre il miglior quadro all’interno del quale comprendere la cognizione.

1.3 La fenomenologia

Un’altra fonte di ispirazione per la cognizione incarnata è la tradizione fenomenologica. La fenomenologia studia la natura e la struttura della nostra vita cosciente e vissuta. Anche se il soggetto delle analisi fenomenologiche può variare molto dalla percezione all’immaginazione, alle emozioni, ai movimenti fisici volontari e intenzionali, tutte le analisi fenomenologiche puntano a elucidare la struttura intenzionale della coscienza. Questo è fatto analizzando la nostra esperienza cosciente in termini temporali, spaziali, attenzionali, cinestetici, sociali e di auto-coscienza. In contrasto a spiegazioni computazionali della mente che modellano la coscienza in termini di input, elaborazione, e output le spiegazioni fenomenologiche pongono la coscienza al centro di ricche e varie esperienze attenzionali che, con la pratica, possono essere descritte e analizzate. Per saperne di più sulla fenomenologia, vedi la voce fenomenologia.

Alcune varianti della cognizione incarnata sono ispirate da ricerche di fenomenologi come Martin Heidegger (1975), Edmund Husserl (1929), e Maurice Merleau-Ponty (1962)  che enfatizzano l’incarnazione fisica delle nostre esperienze cognitive coscienti. Questi pensatori analizzano i vari modi in cui il corpo forma i nostri pensieri e come esperiamo le nostre attività coscienti. Alcuni hanno addirittura sostenuto che la coscienza è costituita dall’incarnazione. Merleau-Ponty, ad esempio, sostiene che la coscienza stessa è incarnata :

Se, riflettendo sull’essenza della soggettività, io la trovo legata a quella del corpo e a quella del mondo, è perché la mia esistenza come soggettività fa tutt’uno con la mia esistenza come corpo e con l’esistenza del mondo, e perché il soggetto che io sono, concretamente considerato, è inseparabile da questo corpo e da questo mondo (Merleau-Ponty 1962, p.408).

Questa influenza fenomenologia può essere rintracciata nelle analisi della cognizione incarnata quanto alla relazione tra mente e corpo. Queste analisi non accettano l’idea che la mentalità sia fondamentalmente differente e separata dalla fisicità e il corollario che la mentalità altrui sia in qualche modo nascosta a noi. Ispirata da Husserl e altri fenomenologi, i sostenitori della cognizione incarnata sostengono che analisi in stile cartesiano della mente e del corpo interpretano in modo fondamentalmente errato la cognizione (Gallagher e Zahavi 2008). La cognizione non è puramente e nemmeno tipicamente un’introspezione intellettuale e solipsista nel modo in cui le Meditazioni di Descartes suggeriscono. Piuttosto, la cognizione è fisicamente interattiva, integrata con processi fisici e manifesta in corpi fisici. Anche i filosofi contemporanei e gli scienziati cognitivi che rigettano il dualismo mente-corpo possono cadere nella trappola di considerare intuitivamente il mentale ed il fisico come distinti e di conseguenza accettare l’idea che dobbiamo dedurre l’esistenza e la natura delle altre menti da indizi indiretti. Dalla prospettiva che i fenomenologi favoriscono, tuttavia, tutta la cognizione è incarnata e interattiva e situata in ambienti che cambiano dinamicamente. Attenzione al modo in cui le nostre esperienze coscienti sono strutturate nel nostro corpo e negli ambienti rivela che non c’è divisione sostanziale tra corpo e mente. L’incarnazione della cognizione rende le nostre e le altre menti osservabili come tutti gli altri caratteri del mondo. In altre parole, le analisi fenomenologiche delle nostre esperienze coscienti rivelano che il Problema Mente-Corpo e il Problema delle Altre Menti sono problemi semplicemente illusori. Questa analisi fenomenologica della relazione tra mente e corpo e le nostre relazioni con le altre menti sono profondamente influenzate da difensori della cognizione incarnata come Shaun Gallagher (2005), Dan Zahavi (2005) ed Evan Thompson (2010).

2. La cognizione incarnata: temi e affinità

Differentemente dalle scienze cognitive computazionali, gli impegni delle quali sono immediatamente riconoscibili, la cognizione incarnata è meglio caratterizzata da un programma di ricerca senza caratteristiche chiare a definirlo oltre al principio che le scienze cognitive computazionali hanno fallito nell’apprezzare l’importanza del corpo nei processi cognitivi e quindi richiedono una drammatica ri-concettualizzazione della natura della cognizione e del modo in cui questa debba essere studiata. Molti ricercatori credono che l’importanza del corpo per la cognizione abbia diverse conseguenze per l’oggetto e la pratica delle scienze cognitive. Tuttavia, attraverso questa grande diversità di punti di vista è possibile estrarre tre grandi temi attorno ai quali la discussione della cognizione incarnata può essere organizzata (vedi Shapiro 2012; 2019a).

2.1. Tre temi della cognizione incarnata

I tre temi della cognizione incarnata attorno ai quali sarà organizzata la seguente discussione sono i seguenti.

Concettualizzazione: le proprietà del corpo di un organismo limitano o vincolano i concetti che un organismo può acquisire. In altre parole, i concetti attraverso i quali un organismo comprende il proprio ambiente dipendono dalla natura del suo corpo di modo che organismi differentemente incarnati apprendono il proprio ambiente differentemente.

Sostituzione: la gamma di concetti d’ispirazione computazionale, inclusi quelli di simbolo, rappresentazione e inferenza, dai quali le scienze cognitive tradizionali hanno ricavato molto, devono essere abbandonati in favore di altri concetti più appropriati alla ricerca  sui sistemi cognitivi incarnati.

Costituzione: il corpo (e, forse, parte del mondo) non contribuisce semplicemente causalmente ai processi cognitivi, ma ha un ruolo costitutivo nella cognizione, letteralmente come parte di un sistema cognitivo. Quindi, un sistema cognitivo consiste di più che solamente il sistema nervoso e gli organi di senso.

Questi temi non si escludono a vicenda – la ricerca nel campo della cognizione incarnata può mostrare una tendenza verso più di uno di essi. Allo stesso modo le descrizioni della cognizione incarnata possono essere organizzate intorno a un maggior numero di temi specifici (M. Wilson 2002); tuttavia, gli sforzi nell’ampliare questi temi restringendo al contempo il loro numero rischia di generalizzare la descrizione della cognizione incarnata fino a metterne in pericolo la presunta novità.

Prima di esaminare come questi temi vengono espressi, è importante fermarsi per confrontare la cognizione incarnata con altre aree di ricerca correlate. Talora la cognizione incarnata è distinta dalla cognizione situata, dalla cognizione estesa e dalla cognizione enattiva. Tuttavia, nonostante la distinzione tra queste quattro “E” – incarnata, situata, enattiva, estesa – non è raro usare l’etichetta “incarnata” per includere alcune o tutte queste. Questi indirizzi condividono l’opinione che, dopo tutto, il cervello-centrismo delle scienze cognitive tradizionali, come il loro bisogno del computer come metafora, sbarrino la strada ad una corretta comprensione della cognizione.

2.2 La cognizione situata

La cognizione situata presume che i compiti cognitivi – dividere un numero in frazioni, guidare una grande nave, prendere il libro giusto da uno scaffale – richiedano un certo sforzo cognitivo. Il “carico” cognitivo che ogni compito richiede può essere ridotto quando l’agente si integra con un ambiente fisico e sociale propriamente concepito. Per esempio, Martin e Schwartz (2005) hanno scoperto che i bambini hanno più successo quando calcolano 1/4 di 8 se gli si permette di muovere pezzi di torta piuttosto che solamente osservarli. Il carico cognitivo richiesto per guidare una grande nave della Marina oltrepassa le capacità di un singolo individuo, ma può essere distribuito tra un certo numero di specialisti, ciascuno e ciascuna con il proprio compito (Hutchins, 1996). Ordinare libri in ordine alfabetico su uno scaffale rende il cercare un libro per titolo molto più semplice di quanto sarebbe se i libri fossero disposti a caso. In ognuno di questi casi, le capacità cognitive di un individuo sono aumentate quando è provvisto dell’opportunità di interagire con le caratteristiche di un ambiente fisico o sociale organizzato adeguatamente.

2.3 La cognizione estesa

Parente stretto della cognizione situata, la cognizione estesa muove dalla posizione che la cognizione è situata per rivendicare ulteriormente che l’ambiente e le risorse sociali che aumentano le capacità cognitive di un agente sono nei fatti costituenti di un più grande sistema cognitivo, piuttosto che meri strumenti utili per un sistema cognitivo che conserva la sua collocazione tradizionale interamente all’interno del sistema nervoso di un agente (Clark e Chalmers 1998; Menary 2008). Alcuni interpretano la tesi della cognizione estesa  come la tesi per cui la cognizione avviene realmente al di fuori del sistema nervoso – nelle risorse extra-craniche coinvolte nel compito cognitivo (Adams e Aizawa 2001; 2008; 2009; 2010). Altri interpretano questa tesi più modestamente,  sostenendo che parti dell’ambiente di un agente o corpo dovrebbero essere interpretate come parti di un sistema cognitivo, anche se la cognizione non si attua in queste, così da estendere il sistema cognitivo oltre al sistema nervoso dell’agente (Clark  e Chalmers 1998; Wilson 1994; Wilson e Clark 2001).

2.4 La cognizione enattiva

L’enattivismo è la teoria per cui la cognizione emerge o è costituita dalla attività sensomotoria. Attualmente, ci sono tre diverse versioni dell’enattivismo (Ward, Silverman, e Villalobos 2017). L’Enattivismo Autopoietico concepisce la cognizione nei termini delle dinamiche biologiche dei sistemi viventi (Varela, Thompson, e Rosch 2017; Di Paolo 2005). Proprio come un batterio è creato e tenuto in vita da processi che attraversano l’organismo e l’ambiente, così la cognizione è generata e formata da operazioni di processi sensomotori che incrociano cervello, corpo e mondo. In questa versione dell’enattivismo, non c’è una separazione precisa tra processi mentali e processi biologici non-mentali. I primi sono semplicemente una versione arricchita degli ultimi. L’Enattivismo Sensomotorio è un’altra versione dell’enattivismo che si concentra in particolare sullo spiegare l’intenzionalità e la fenomenologia delle esperienze visive (O’Regan e Noë, 2001; Noë 2004). Secondo questa tesi, la percezione consiste nell’ esplorazione attiva dell’ambiente, che stabilisce dei pattern di dipendenza tra i nostri movimenti, gli stati sensoriali e il mondo. I soggetti percipienti non hanno bisogno di costruire né manipolare alcun modello interno del mondo esterno. Invece, hanno bisogno unicamente di sfruttare abilmente le dipendenze sensomotorie che le loro attività esplorative rivelano. Infine, l’Enattivismo Radicale punta a rimpiazzare tutte le spiegazioni rappresentazionali della cognizione con spiegazioni incarnate e interagenti (Hutto e Myin 2013; Chemero 2011). La tattica principale che guida l’Enattivismo Radicale è di decostruire ed eliminare la nozione di contenuto mentale nelle scienze cognitive. Questa tattica si manifesta nella critica ai tentativi di naturalizzare l’intenzionalità, ridescrivendo i processi cognitivi studiati nelle scienze cognitive ordinarie, e sfidando i concetti utilizzati anche da teorie vicine, come la nozione di “creazione di significato” (sensemaking) dell’Enattivismo Autopoietico (Chemero 2016). Queste tre versioni dell’Enattivismo variano nel loro obiettivo di spiegazione e nella metodologia, e tuttavia condividono la devozione all’idea che la cognizione emerge dall’attività sensorimotoria.

3. La Concettualizzazione

Ritornando ora ai tre temi intorno ai quali la discussione della cognizione incarnata è organizzata, il primo è la Concettualizzazione. Secondo la Concettualizzazione, i concetti coi quali gli organismi riconoscono e categorizzano gli oggetti nel mondo, ragionano, operano inferenze, e comunicano gli uni con gli altri, sono profondamente dipendenti dal corpo. Le proprietà morfologiche del corpo dell’agente limiteranno e informeranno il significato dei suoi concetti. La tesi che i concetti sono incarnati in questo modo è stata difesa in vari modi.

3.1 La metafora ed i concetti fondamentali

Lakoff e Johnson (1980; 1999) hanno offerto una prima e influente difesa della Concettualizzazione. La loro argomentazione inizia con la plausibile premessa che gli esseri umani si affidano molto al ragionamento metaforico quando imparano o affinano la comprensione di concetti sconosciuti. Si immagini, per esempio, il provare a spiegare ad un bambino il significato di elezioni. Fare una connessione tra elezioni e un concetto che il bambino già capisce, per esempio corsa, rende il compito più semplice. “Le elezioni sono come una corsa” è una metafora che fornisce un supporto per introdurre e spiegare il contenuto del concetto di elezioni. I candidati sono come dei corridori che sperano di vincere una corsa. Usano varie strategie. Devono stare attenti a non partire troppo velocemente o potrebbero non farcela più prima di raggiungere il traguardo. È importante la resistenza su un lungo tragitto – più simile ad una maratona che ad uno scatto. Alcuni giocheranno sporco, cercando di far stancare gli altri, facendogli perdere il passo. Ci saranno cattivi perdenti ma anche abili vincitori. Utilizzare un concetto conosciuto – la corsa – fornisce al bambino un quadro o una preparazione per imparare il concetto sconosciuto – le elezioni.

Il passo successivo verso i concetti incarnati osserva che, per evitare un regresso, non tutti i concetti possono essere acquisiti con un aiuto metaforico. Ci deve essere una classe di concetti fondamentali che (se non innati) impariamo in qualche altro modo. Lakoff e Johnson argomentano che questi concetti fondamentali derivano da “esperienze fisiche dirette” (1980:57) che derivano dal muovere un corpo umano attraverso l’ambiente. Il concetto sopra, per esempio, è fondamentale ed emerge dall’avere un corpo stante eretto, così che “[Q]uasi ogni movimento che facciamo implica un programma motorio che cambia, mantiene, o presuppone il nostro orientamento verticale o lo considera in qualche modo” (1980: 56). Lakoff e Johnson offrono una teoria simile per come gli esseri umani acquisiscono concetti come davanti, dietro, spingere, tirare e via dicendo.

I concetti fondamentali riflettono le idiosincrasie di particolari tipi di corpi. Se i concetti meno fondamentali dipendono da estensioni metaforiche di questi concetti più fondamentali, i primi rifletteranno le idiosincrasie di specifici tipi di corpo. Tutti i concetti, Lakoff e Johnson sembrano credere, sono “marcati”  dalle caratteristiche del corpo come queste “raggiungono” concetti più astratti. Così arrivano alla Concettualizzazione: “la natura particolare dei nostri corpi modella le nostre stesse possibilità di concettualizzazione e categorizzazione” (1999: 19). Se ciò fosse vero, ci si aspetterebbe che organismi con corpi differenti, forniti di diverse classi di concetti fondamentali, concettualizzino e categorizzino i loro mondi in modi non-umani.

Nonostante Lakoff e Johnson vedano la Concettualizzazione come incompatibile con le scienze cognitive computazionali, le loro motivazioni in questo senso sono deboli. Il ragionamento metaforico consiste nell’applicare aspetti del contenuto di un concetto a quelli di un altro. Dato che questo ragionamento è chiaramente fatto sul contenuto e poiché il computazionalismo è una teoria a proposito di come elaborare stati mentali in virtù del loro contenuto, l’antagonismo di Lakoff e Johnson contro il computazionalismo sembra infondato. Inoltre, il loro caso in favore della Concettualizzazione rimane largamente a priori. Asseriscono che organismi morfologicamente diversi dagli esseri umani – ad esempio, sferici – sarebbero incapaci di sviluppare alcuni concetti umani (1980: 57), ma senza tali esseri viventi disponibili per un esperimento, questa asserzione rimane interamente speculativa.

3.2 Concetti incarnati

Un caso assai più sviluppato ed empiricamente fondato per la Concettualizzazione deriva dagli studi psicologici e neurologici che dimostrano una connessione tra l’uso da parte di un soggetto di un concetto e l’attività nei sistemi sensorimotori del soggetto. Da questi studi nasce una concezione dei concetti come includenti nel loro contenuto elementi a proposito delle peculiarità dei sistemi sensorimotori dei possessori di concetti. Poiché queste peculiarità riflettono le caratteristiche del corpo di un organismo – ad esempio, come questo muove i propri arti quando interagisce col mondo -, il contenuto dei suoi concetti sarà anch’esso limitato e influenzato dalla natura del suo corpo.

Centrale nell’idea che i concetti sono incarnati è la descrizione di questi concetti come modali. Questa etichetta vuole sottolineare l’anti-computazionalismo che i sostenitori dei concetti incarnati sottoscrivono. I simboli di un computer – serie di 1 e di 0 – sono amodali, nel senso che la loro relazione con i loro contenuti è arbitraria. Anche le parole sono simboli amodali. Il simbolo “lago” significa lago, ma non in virtù della sua somiglianza o connessione nomologica con i laghi. Non c’è alcuna ragione per la quale “lago”, piuttosto che un altro simbolo, significa lago – come appare ovvio quando si pensa a parole che significano lago in lingue che non siano l’italiano. Tutti i simboli mentali, nella prospettiva delle scienze cognitive computazionali sono in questo senso amodali.

D’altro canto, i simboli modali conservano informazioni sulle loro fonti d’origine. Non sono solo dei simboli, ma, nella terminologia di Barsalou (1999; Barsalou et al. 2003), simboli percettivi. I pensieri sui laghi, ad esempio, consistono nell’attivazione delle aree sensorimotorie del cervello che erano state attivate durante i precedenti incontri con laghi reali. Il pensiero di un lago riattiva aree della corteccia visiva che rispondono a informazioni visive che corrispondono a laghi; aree della corteccia uditiva che rispondono alle informazioni uditive che corrispondono a laghi; aree della corteccia motoria che corrispondono ad azioni tipicamente associate ai laghi (nonostante questa attivazione sia inibita così da non portare ad un’azione reale), e via dicendo. Il risultato è un concetto di lago che rispecchia i tipi di attivazioni sensoriali e motorie uniche al corpo e al sistema sensoriale umani. Lago significa qualcosa del tipo “cosa con questo aspetto, questo suono, questo odore, che mi permette di nuotarvi così”. Più in generale, poiché il modo in cui le cose appaiono e suonano dipende dalle caratteristiche del sistema percettivo, e poiché le interazioni che le cose permettono dipendono dalle proprietà dei sistemi motori, i concetti saranno specifici al corpo d’origine delle interazioni.

Molte delle prove della modalità dei concetti proviene dalle dimostrazioni di un effetto di compatibilità spaziale orientazione-dipendente (OSC) (Symes, Ellis, e Tucker 2007). Tucker e Ellis (1998), ad esempio, hanno chiesto ai soggetti di un esperimento di giudicare se un dato oggetto, per esempio una padella, fosse orientato nel verso corretto o sottosopra. L’oggetto era inoltre orientato verso destra o verso sinistra. Così, ad esempio, il manico della padella si prolungava verso destra o verso sinistra. I soggetti indicavano se l’oggetto fosse orientato nel senso corretto od sottosopra premendo un pulsante a destra con l’indice destro o a sinistra con l’indice sinistro. I tempi di reazione dei soggetti erano più brevi quando dovevano usare il dito destro per indicare che l’oggetto era direzionato verso destra rispetto a quando era orientato a sinistra, e, mutatis mutandis, per risposte col dito sinistro quando l’oggetto era orientato verso sinistra. Nonostante il fatto che ai soggetti non fosse chiesto di considerare l’orientamento orizzontale dell’oggetto, questo influenzava i tempi di risposta (per altri studi relativi al OSC, vedi Tucker and Ellis 2001; 2004).

Similmente, Glenberg e Kaschak (2002) hanno dimostrato l’azione di un effetto di compatibilità azione-frase (ASC). Ai soggetti è stato chiesto di giudicare la sensibilità di frasi come “apri il cassetto” o “chiudi il cassetto”. Le frasi del primo tipo suggerivano un movimento della mano verso il corpo e frasi del secondo tipo suggerivano movimenti lontano dal corpo. I soggetti dovevano indicare la sensibilità della frase premendo un pulsante che richiedeva alla mano di muoversi o lontano dal corpo o verso il corpo.  Glenberg e Kaschak hanno scoperto che i tempi di reazione erano più brevi se il movimento di  risposta era in accordo con il movimento suggerito dalle frasi di azione.

Sia l’effetto OSC che l’effetto ASC sono stati considerati come dimostrazioni che i concetti sono modali. Pensieri di padelle, per esempio, attivano aree nella corteccia motoria che sarebbero attivate quando si manipola una padella. I soggetti sono più lenti a rispondere ad una padella orientata verso sinistra con il loro dito destro, perché vedere l’orientamento della padella attiva aree motorie del cervello associate a prendere la padella con la mano sinistra, promuovendo la risposta di dito sinistro ed inibendo la risposta di un dito destro. Allo stesso modo, il significato di parole come “chiuso” o “aperto” includono nel loro contenuto il tipo di attività motoria che avrebbero coinvolto movimenti di apertura o chiusura. Il significato dei concetti di oggetti, quindi, contengono informazioni su come tali oggetti potrebbero essere manipolati da corpi come i nostri; e i concetti di azione consistono, in parte, di informazioni su come corpi come i nostri si muovono.

Prove ulteriori per la tesi che i concetti sono ricolmi di informazioni sensorimotorie vengono da Edmiston e Lupyan (2017), i quali hanno posto ai soggetti dell’esperimento domande che richiedevano conoscenza “enciclopedica” – “Un cigno depone uova?” – o conoscenza visiva – “Un cigno ha un becco?”. È interessante notare che essi hanno riscontrato che interferenze visive durante il compito diminuivano il successo in domande che richiedevano conoscenza visiva, ma non enciclopedica. Ciò è stato considerato essere prova dell’incarnazione dei concetti, in quanto ci sarebbe da aspettarsi un effetto delle interferenze visive se i concetti fossero modali – se, in questo caso, coinvolgessero l’attivazione dei centri visivi nel cervello -, ma non se i concetti fossero simboli amodali, separati dalle loro origini sensorimotorie.

Una fonte ulteriore di prove a favore dell’incarnazione dei concetti viene dalla ricerca neurologica che rivela l’attivazione delle aree sensorimotorie del cervello associate ad azioni particolari. Leggere parole quali “calcio” o “pugno” causa attività nelle aree motorie del cervello associate al calciare o dare un pugno (Pulvermüller 2005). La stimolazione di queste aree attraverso la stimolazione elettrica trans-cranica può influenzare la comprensione di queste parole (Pulvermüller 2005; Buccino et al. 2005). Ancora una volta, risultati come questo sono esattamente quelli che una teoria dei concetti incarnati prevedrebbe ma che sarebbero inaspettati da teorie computazionali standard di concetti amodali. Se il concetto di calcio include nel suo contenuto i movimenti distintivi di una gamba umana così come sono determinati dall’attività della corteccia motoria, , ciò dimostra secondo la Concettualizzazione l’impronta di uno specifico tipo di incarnazione.

I critici dei concetti incarnati hanno mosso numerosi attacchi alla teoria. Banalmente, qualcuno potrebbe mettere in dubbio che studi empirici come quelli appena menzionati abbiano come oggetto proprio i concetti. Perché pensare, ad esempio, che il significato del concetto di padella debba includere informazioni su come le padelle sono maneggiate; e che il significato di aprire includa informazioni su come un braccio dovrebbe muoversi? Proposizioni come queste sembrano non tenere in conto la distinzione tra concetto e concezione (Rey 1983; 1985; Shapiro 2019a). Il significato del concetto di scapolo, ad esempio, è uomo non sposato. Ma separatamente da questo concetto esiste una concezione di scapolo, dove una concezione comporta qualcosa come caratteristiche tipiche o rappresentative. La concezione di uno scapolo può includere cose come l’essere un donnaiolo, l’essere giovane, o far parte della “bro-culture”. Questi concetti sono associati al concetto di scapolo, ma non fanno parte del significato del concetto. Allo stesso modo, che le padelle possono essere maneggiate così, o che aprire implichi muovere un braccio così, possono non far parte del significato dei concetti di padella e aprire,  ma sono invece caratteristiche della concezione che uno ha di padelle o di come aprire qualcosa.

Proprio come i difensori dei concetti incarnati potrebbero non star alla fine studiando concetti ma solo concezioni – solamente le caratteristiche associate ai concetti -, potrebbe essere che l’attività motoria che accompagna i concetti non contribuisca al significato di un concetto, ma vi sia solamente associata. Gli psicologi Mahon e Caramazza (2008) portano a sostegno di questa interpretazione degli studi neurologici fatti a supporto dei concetti incarnati. La scoperta che l’esposizione alla parola “calcio” causa attività nell’area motoria del cervello alla base del calciare non dimostra che calcio è un concetto modale. Mahon e Caramazza suggeriscono che l’elaborazione linguistica di una parola possa creare una cascata di attività che arriva fino alle aree del cervello che sono associate al significato della parola. Un pensiero a proposito di un calcio è associato a pensieri a proposito del movimento della propria gamba, ma non c’è alcuna motivazione per considerare questa attività parte del concetto di calcio – alcuna motivazione per considerarlo come prova della modalità del concetto (Manon 2015). Pensare a un calcio causa il pensare di muovere la propria gamba, il che causa attività nella corteccia motoria, ma il significato di calcio è indipendente da questa attività.

In ultimo, pur concedendo la modalità dei concetti come padella e calcio, uno può mettere in discussione l’idea che tutti i concetti siano incarnati, come alcuni scienziati cognitivi suggeriscono (Barsalou 1999). Di particolare interesse sono i concetti astratti come democrazia, giustizia e moralità (Dove 2009; 2016). A differenza di padella, il significato della quale potrebbe coinvolgere informazioni provenienti dai sistemi motori e sensori, quali attività motorie e sensoriali potrebbero essere incluse nel significato di giustizia? Barsalou (2008) e Barsalou e Wiemer-Hastings (2005) propongono una spiegazione di come i concetti astratti potrebbero essere analizzati in termini modali, ma il dibattito a tal proposito è lungi dall’essersi concluso.

4. Sostituzione

Molti tra coloro che assumono una prospettiva incarnata rispetto alla cognizione credono che gli impegni teoretici delle scienze cognitive tradizionali vadano eliminati e sostituiti con qualcos’altro. Niente più computazione, né rappresentazione, né manipolazione di simboli. I ricercatori che sostengono la sostituzione completa delle scienze cognitive tradizionali tendenzialmente sono influenzati dalla psicologia ecologica. Meno radicali sono le argomentazioni in favore dell’abbandono di alcuni elementi delle scienze cognitive tradizionali, per esempio l’idea che la cognizione sia il prodotto di inferenze guidate da regole, ma non di altri, come l’idea che la cognizione implichi anche stati rappresentazionali. Questa posizione ha radici nel connessionismo alternativo al computazionalismo esposto in §1.2. Gli argomenti in favore della sostituzione giungono da diversi ambiti di ricerca.

4.1 Robotica

I primi tentativi nell’ambito della robotica assunsero fin da subito l’idea per cui la cognizione è computazione di rappresentazioni simboliche. Il robot Shakey (1966-1972) per esempio, creato presso l’Artificial Intelligence Laboratory di quello che allora era lo Stanford Research Institute, era programmato per muoversi in una stanza evitando o spingendo blocchi di varie dimensioni e colori. A guidare il comportamento di Shakey c’era un programma, chiamato STRIPS, che operava su immagini codificate simbolicamente di tali blocchi, e le combinava con descrizioni immagazzinate del mondo di Shakey. Seguendo la caratterizzazione fornita dal roboticista Brooks dell’architettura computazionale di Shakey, essa ripete in circolo iterazioni di sequenze sensazione-modello-pianificazione-azione (Brooks 1991a). Una videocamera recepisce segnali dall’ambiente, un computer costruisce un modello dell’ambiente a partire dalle informazioni video, il programma STRIPS combina il modello con descrizioni simboliche dell’ambiente già immagazzinate, creando un piano per una sequenza di azioni. I progressi di Shakey erano lenti – alcune operazioni richiedevano giorni per essere portate e termine – e fortemente dipendenti dal fatto che l’ambiente era costruito meticolosamente per rendere l’input visivo il più possibile facile da processare.

L’approccio di Brooks alla robotica rigetta i principi computazionali sui quali era stato progettato Shakey, e abbraccia invece un’architettura di ispirazione Gibsoniana. Il risultato è stato quello di produrre robot che mostrano una versatilità molto superiore a quella mai mostrata da Shakey – robot che riescono a navigare in ambienti disordinati, evitando ostacoli eterogenei, stabilendo obiettivi autonomamente, raccogliendo lattine per riciclarle e altro ancora. Le “Creature” di Brooks operano mediante un’architettura di sussunzione. Piuttosto che ripetere sequenze sensazione-modello-piano-azione, le Creature posseggono sistemi di sensori che sono direttamente connessi a generatori comportamentali. Per esempio, i sensori sul robot di Brooks chiamato Allen erano connessi a tre diversi tipi di generatori comportamentali: Evita, Vaga, Esplora. Quando i sensori percepivano un oggetto nel percorso di Allen, il meccanismo-Evita del robot lo spingeva a fermare il suo movimento in avanti, girare e poi riprendere a muoversi. Il generatore-Vaga si limitava a spingere Allen in una direzione casuale, mentre quello Esplora lo indirizzava verso un certo oggetto. Questi tre tipi di livelli di attività come li ha chiamati Brooks, sono in costante competizione. Per esempio, se Allen mentre è sotto il comando di Vaga si trova dinanzi un ostacolo, Evita ne prende il posto e salva Allen da una collisione. Esplora inoltre ha funzione inibitoria su Vaga al fine di mantenere il suo percorso diretto a un obiettivo. Dalla competizione fra questi tre livelli ne emergeva un comportamento inaspettatamente flessibile e apparentemente finalizzato.

Secondo Brooks, le sue Creature non avevano bisogno di rappresentazioni. Implementando un’idea della psicologia ecologica, Brooks afferma che i livelli di attività nei suoi robot connettono “la percezione all’azione direttamente” (1991b, 144). Un robot progettato in tal modo non necessita di rappresentare il mondo perché è già capace di “usare il mondo stesso come modello” (1991b, 139). Il comportamento del robot si evolve tramite un loop continuo: il corpo si muove, il che modifica la stimolazione recepita dai sensori, il che causa che il corpo si muova, e così via. Siccome nulla si frappone “nel tramite fra” segnale sensoriale e comportamento del robot, non c’è bisogno di qualcosa che svolga il ruolo di intermediazione tipicamente assegnato agli stati rappresentazionali. Il robot non ha bisogno, per esempio, di un modello del suo ambiente per muoversi nei corridoi. Il loop senso-movimento fa ciò che deve senza averne uno.

Nonostante i successi dei robot di Brooks in confronto ai loro antenati computazionali, e l’impatto che le idee di Brooks hanno avuto sull’industria (es. gli aspirapolvere Roomba), è ben lungi dall’assodato che le intuizioni di Brooks aprano la strada per una scienza cognitiva radicale non rappresentazionale come alcuni enattivisti tipo Chemero (2009) e Hutto e Myin (2013) credono. Una prima domanda riguarda il dubbio se il comportamento delle creature di Brooks realmente proceda senza stati rappresentazionali. I sensori con cui la Creatura è equipaggiata, in fondo, inviano segnali ai vari livelli di attività affinché tali livelli possano rispondere agli oggetti nell’ambiente. Inoltre, i vari livelli comunicano tra loro al fine di modulare la propria attività reciprocamente. Essi stanno, in effetti, inviandosi l’un l’altro segnali che sembrano avere una semantica del tipo “vai” oppure “stop!”.

Gli scettici rispetto alla rappresentazione, come Chemero (2009) e Hutto e Myin (2013) si concentrano sul contatto continuo che le creature di Brooks hanno con il proprio ambiente quale ragione per negare un ruolo alla rappresentazione. Siccome una creatura è in contatto costante col mondo, non necessita di una rappresentazione di esso. Ma un contatto costante non sempre esclude il bisogno di una rappresentazione. Si consideri, per esempio, un organismo che sia in contatto costante con molte proprietà del suo ambiente – luce solare, umidità, ossigeno, attrazione gravitazionale della luna, e così via. Ciononostante, esso sarà sensibile solo ad alcune di queste proprietà – solo alcune di queste proprietà determineranno il comportamento dell’organismo. Un modo naturale di descrivere come alcune proprietà facciano la differenza per un organismo mentre altre no può fare appello a rappresentazioni – un organismo individua alcune proprietà e le rappresenta, mentre altre no. Se una simile identificazione debba implicare rappresentazione dipenderà dalla teoria della rappresentazione che si adotta. Si potrebbe perciò vedere il successo della sfida di Brooks al rappresentazionalismo, e l’adozione di questa sfida da parte degli enattivisti, come ostaggio di una specifica teoria della rappresentazione, i cui dettagli sarebbero certamente essi stessi controversi.

Un’altra risposta al lavoro di Brooks consiste nel domandarsi se qualcosa come un’architettura della sussunzione, anche ammettendo che non faccia uso di rappresentazioni, possa essere “ampliata” – possa giungere a produrre quel tipo di comportamenti più avanzati che gli scienziati cognitivi di solito indagano (Shapiro 2007). Matthen (2014) argomenta che non appena ci muoviamo un passo oltre le capacità delle Creature di Brooks, la spiegazione dei comportamenti richiederà un qualche appello alle rappresentazioni. Per esempio, si immagini un organismo che sappia muoversi dal punto A al punto B, e dal punto A al punto C, e sulla base di queste conoscenze “arrivi a capire” come muoversi dal punto B al punto C (Matthen 2014). Sembra plausibile che un simile organismo debba possedere una qualche rappresentazione delle relazioni tra i punti A, B e C per operare un simile ragionamento.

Clark e Toribio (1994) descrivono alcuni compiti cognitivi come “affamati di rappresentazioni”. Gli esempi includono l’immaginazione, il pensiero diretto a oggetti inesistenti (es. gli unicorni) o gli stati di cose contro-fattuali (che succederebbe se io segassi l’albero in questa direzione?). Necessariamente, un organismo non può essere in contatto costante con oggetti inesistenti. Che gli esseri umani intrattengano questo tipo di relazioni così spesso e con tale facilità pone una difficoltà per gli enattivisti come Chemero, Hutto e Myin che vedono nello slogan di Brooks “il mondo stesso come modello” il fondamento di tutta la cognizione. Dal momento che il mondo non contiene unicorni, e usando solo il mondo come modello, non si possono spiegare i pensieri diretti agli unicorni.

4.2 Gli approcci dei Sistemi Dinamici alla Cognizione

Intorno all’inizio del secolo, alcuni scienziati cognitivi (Beer 2000; 2003; Kelso 1995; Thelen e Smith 1993; Thelen et al. 2001) e filosofi (Van Gelder 1995; 1998) hanno iniziato a sostenere approcci dei Sistemi Dinamici alla cognizione. Van Gelder (1995; 1998) ha argomentato che il computer, come metafora precipua dei sistemi cognitivi, dovrebbe essere rimpiazzato da qualcosa di più simile al regolatore centrifugo di Watt. Un regolatore centrifugo controlla la velocità di un motore a vapore modulando l’apertura di valvole di sfogo. Quando le valvole si aprono, un fuso rotante a cui sono collegati due pesi rotea più velocemente, facendo alzare per la forza centrifuga i pesi, che mediante una leva chiudono le valvole, riducendo la velocità a cui rotea il fuso, facendo abbassare i pesi, che così riaprono le valvole, e così via. Laddove una soluzione computazionale per mantenere costante la velocità del motore richiederebbe una rappresentazione del motore, la confronterebbe con una velocità parametro del motore, e calcolerebbe la differenza e opererebbe la correzione, il regolatore centrifugo ottiene lo stesso risultato senza alcuna rappresentazione coinvolta (sebbene alcuni abbiano obiettato che in una certa forma sono presenti rappresentazioni anche nel regolatore: Bechtel 1998; Prinz e Barsalou 2000).

Il regolatore centrifugo è un esempio di sistema dinamico. Tipico dei sistemi dinamici è il comportamento che cambia continuamente nel corso del tempo – l’altezza dei pesi, la velocità del fuso, l’apertura delle valvole cambiano continuamente nel corso del tempo e il tasso di cambiamento di ciascuno interessa tutti gli altri. La teoria dei sistemi dinamici offre l’apparato matematico – equazioni differenziali e alla differenza – per modellizzare i sistemi dinamici. La scienza cognitiva dinamica guarda a queste equazioni per spiegare la cognizione.

Tra gli esempi più citati di una spiegazione dinamica di cognizione c’è il modello di coordinazione dinamica Haken-Kelso-Bunz (HKB) (Haken, Kelso, Bunz 1985; Kelso 1995). Il modello, che consiste in una singola equazione differenziale, cattura la dinamica dei movimenti coordinati con le dita. I soggetti sono portati a muovere il proprio dito indice destro e sinistro o in fase, cioè oscillando l’uno verso l’altro e poi l’uno via dall’altro, o fuori fase, cioè oscillando entrambi prima in un senso e poi nell’altro. Man mano che l’oscillazione aumenta, i movimenti fuori fase “passeranno” automaticamente a movimenti in fase,  mentre le oscillazioni che inizieranno in fase rimarranno in fase. In termini dinamici, la coordinazione dell’oscillazione delle dita ha due attrattori, o regioni di stabilità, a velocità ridotte (in fase o fuori-fase) ma solo un attrattore a velocità superiori (in fase). Il modello HKB offre una serie di predizioni generate dall’osservazione, per esempio che ci sono solo due schemi di oscillazione stabili a velocità ridotte, che approssimandosi alla soglia critica di “passaggio” fuori-fase/in-fase emergeranno oscillazioni erratiche o casuali, e che le deviazioni dall’oscillazione fuori-fase richiederanno più tempo per essere corrette man mano che ci si avvicina alla soglia di passaggio a in-fase (si veda la discussione in Chemero 2001).

Altri esempi influenti di spiegazioni dinamiche della cognizione si sono concentrati sulla coordinazione delle gambe degli infanti nel comportamento di stepping (Thelen e Smith 1993), l’afferramento perseverante nei bambini (Thelen e altri 2001), e la categorizzazione in un agente simulato (Beer 2003). Gli autori di questi studi sono stati espliciti nell’affermare che le scienze cognitive tradizionali devono essere sostituite con gli elementi delle scienze cognitive dinamiche. Tra questi elementi c’è il rifiuto della rappresentazione come componente necessaria della cognizione, così come la visione della cognizione come il “dispiegarsi” delle continue interazioni tra cervello, corpo e ambiente dell’organismo piuttosto che come processo emergente da momenti discreti, guidati da regole e algoritmici. Quest’ultimo elemento ci riporta al tema dell’incarnazione. Come spiegato in Thelen et al.:

Dire che la cognizione è incarnata significa che essa sorge da interazioni corporee con il mondo. Da questo punto di vista, la cognizione dipende dal tipo di esperienze che provengono dal fatto di possedere un corpo con particolari capacità motorie e percettive che sono inseparabilmente connesse e che insieme formano una matrice entro cui ragionamento, memoria, emozioni, linguaggio e tutti gli altri aspetti della vita mentali sono mescolati” (2001, 1).

Ovviamente, anche gli scienziati cognitivi computazionali possono accettare che la cognizione “sorga da interazioni corporee con il mondo” nel senso che gli input dei processi cognitivi spesso sorgono da interazioni corporee col mondo. Presumibilmente, l’idea è che il corpo sia come una componente nel regolatore centrifugo, e la cognizione sorga dalla continua interazione tra corpo, cervello e mondo. Spivey, un altro celebre scienziato cognitivo dinamico, lo spiega in questi termini: “per la nuova psicologia all’orizzonte, forse siamo pronti a scartare la metafora della mente come un computer […] e rimpiazzarla con una concezione della mente come un evento continuo naturale” (2001, 29), più o meno come, presumibilmente, la regolazione della velocità di un motore a vapore è il risultato della continua interazione tra tutte le componenti di un regolatore centrifugo.

Una sfida che si presenta per gli approcci dinamici alla cognizione in parte assomiglia a quella che incontrano i roboticisti come Brooks. Così come il principio che soggiace all’architettura di sussunzione potrebbe non essere adeguato a spiegare processi cognitivi più complessi, così ci si potrebbe domandare se l’approccio dei sistemi dinamici avrebbe successo rispetto a tali processi. Forse l’oscillazione delle dita e lo stepping nei neonati non sono casi di cognizione in generale o lo sono solo in senso attenuato (Shapiro 2007; 2013), nel qual caso qualsiasi lezione appresa dalla loro spiegazione sarebbe di scarsa utilità per le scienze cognitive.

O forse, quando gli scienziati cognitivi dinamici analizzeranno fenomeni più complessi, si troveranno essi stessi nella necessità di strumenti concettuali associati con le scienze cognitive classiche. Spivey, un pioniere degli approcci dei sistemi dinamici alla cognizione, è in una relazione amichevole con il concetto di rappresentazione. Dietrich e Markman (2001) hanno argomentato che perfino comportamenti come l’oscillazione coordinata delle dita dipende da rappresentazioni, sebbene forse non di quel tipo così concettualmente “denso” che di solito si attribuisce al computazionalismo. Ancora una volta, è evidente che la controversia rispetto alla tesi della sostituzione dipende dal tipo di teoria della rappresentazione che si adotta.

Un’altra critica alla scienza cognitiva dei sistemi dinamici mette in dubbio se le equazioni differenziali che sono presentate come spiegazioni di fenomeni cognitivi siano effettivamente esplicative. Chemero (2001) e Beer (2003) insistono che lo siano. Le equazioni possono essere usate per predire il comportamento degli organismi così come per trattare contro-fattuali rispetto al comportamento (come si sarebbe comportato l’organismo se le cose fossero andate così e così?) – entrambe proprietà chiave delle spiegazioni. Dietrich e Markman (2001), d’altro canto, hanno argomentato che le equazioni offrono solo descrizioni dei fenomeni piuttosto che spiegazioni di essi (si veda anche Eliasmith 1996; van Leeuwen 2005). Spivey, nonostante la sua preferenza per le scienze cognitive dinamiche, condivide quest’idea. La teoria dei sistemi dinamici, egli crede, non spiega la cognizione. La sua utilità consiste nel “fornire modelli di come la mente funziona” (2007, 33, enfasi dell’autore). Egli continua:

L’emergere della mente ha luogo nel medium degli schemi di attivazione degli assemblaggi di neuroni in congiunzione con le interazioni degli organi sensori a cui queste sono connesse (occhi, orecchie, etc.) e degli effettori (mani, apparato linguistico, etc.) con l’ambiente in cui essi sono inseriti. Non ci si sbagli, questa è la roba di cui sono fatte le menti umane: cervelli, corpi e ambienti. Traiettorie in spazi a più dimensioni sono semplicemente modi convenienti per gli scienziati di descrivere, visualizzare, e formare modelli di ciò che sta succedendo nei nostri cervelli, corpi e ambienti.

In ogni caso, come Zednick (2011) ha notato (si veda anche Clark 1997 e Bechtel 1998), le equazioni differenziali su cui le spiegazioni dinamiche si basano contengono termini che lasciano spazio all’interpretazione. Questo è ciò che trasforma pezzi di matematica pura in matematica applicata, che di solito si usa per descrivere processi causali (Sauer 2010). In quanto istanze di matematica applicata (piuttosto che pura), le equazioni di Lotka-Volterra, per esempio, spiegano effettivamente le dinamiche delle popolazioni di prede e predatori quanto i loro termini sono usati per significare il tasso di predazione e quello di riproduzione. Le equazioni mostrano come la predazione influenzi la dimensione della popolazione dei predatori, e come la riproduzione rimpingui la popolazione delle prede. In tal modo, Spivey potrebbe aver ragione nel dire che la “roba” di cui sono fatte le menti siano cervelli, corpi e ambienti, ma ciò non preclude alla possibilità che le equazioni che descrivono queste interazioni possano essere esplicative. Esse sono esplicative perché esse descrivono come cervelli, corpi e ambienti interagiscono e le conseguenze che insorgono da queste interazioni.

5. Costituzione

Il lievito in polvere è una parte costituente di uno scone, e la sua presenza determina che lo scone lieviti quando viene cotto. Un forno caldo è un’altra causa del lievitare dello scone, ma non ne è una parte costituente. Mangi del lievito in polvere quando mangi uno scone, ma non mangi un forno caldo. Secondo le scienze cognitive computazionali, i costituenti di un sistema cognitivo sono i processi cerebrali, quando questi processi effettuano computazioni. Le cause della cognizione sono qualsiasi tipo di cause di questi processi – stimolazione corporea da parte dell’ambiente, per esempio. Molti teorici della cognizione incarnata credono che questa descrizione dei costituenti della cognizione sia sbagliata. I costituenti di un sistema cognitivo si estendono al di là del cervello, e includono il corpo e l’ambiente. Una difficoltà per questa visione è quella di giustificare l’affermazione che corpo e mondo sono meglio definiti come costituenti della cognizione piuttosto che come cause. Perché dovrebbero essere più simili al lievito che non al forno caldo?

5.1. Costituzione per accoppiamento

La precedente esposizione della scienza cognitiva dei sistemi dinamici è utile anche per illustrare il tema della costituzione. Come indica la citazione di Spiveysopra riportata, gli scienziati cognitivi dei sistemi dinamici ritengono che la cognizione sorga dall’interazione di cervello, corpo e mondo. La continua interazione di questi tre elementi, scrive Chemero, spiega perché “gli scienziati cognitivi dinamici non partano dal presupposto che un animale debba rappresentarsi il mondo per interagirvi. Invece, essi pensano l’animale e una parte rilevante dell’ambiente come componenti di un singolo sistema accoppiato” (2001, 142). Chemero continua su quest’idea: “Solo per convenienza (e per abitudine) pensiamo agli organismi e agli ambienti come separati; di fatto, essi sono meglio concepiti come componenti di un singolo sistema […] per iniziare, l’animale e l’ambiente non sono separati (2001, 142).

La descrizione di Chemero dell’animale e dell’ambiente come accoppiati è onnipresente nelle scienze cognitive dinamiche. L’accoppiamento è una nozione tecnica. I comportamenti degli oggetti sono accoppiati quando le equazioni differenziali che descrivono il comportamento dell’uno contengono un termine che si riferisce al comportamento dell’altro. Le equazioni che si applicano al regolatore centrifugo, ad esempio, contengono termini che si riferiscono all’altezza dei pesi e all’apertura delle valvole di sfogo. Le equazioni di Lotka-Volterra contengono termini che si riferiscono al numero di predatori e al numero di prede in una certa zona. La co-occorrenza di termini nelle equazioni che descrivono un sistema dinamico mostrano che il comportamento degli oggetti ai quali esse si riferiscono sono co-dipendenti. Essi sono pertanto concepiti pragmaticamente come costituenti di un singolo sistema – un sistema tenuto insieme dalle interazioni delle parti le cui relazioni sono catturate da equazioni differenziali accoppiate.

In aggiunta al senso tecnico del termine accoppiamento, i filosofi spesso fanno appello anche a un senso più ampio quando argomentano in favore della Costituzione. Clark, per esempio, usa il processo della scrittura come illustrazione. Quando si scrive, “non è sempre il caso che un pensiero completamente formato sia espresso su carta. Piuttosto, la carta offre un medium in cui, in questo caso tramite una qualche sorta di dispiegamento cervello-scarabocchio-lettura, siamo in grado di esplorare forme di pensiero che altrimenti ci sarebbero precluse” (2008, 126). L’idea di Clark è che il sistema cognitivo che produce l’effettivo testo scritto si estenda al di là del cervello dello scrivente e includa tra le sue parti costituenti la carta su cui le parole sono scritte. La carta e l’atto di leggere e scrivere sono letteralmente parte del sistema cognitivo, non meno dei processi neurali, a causa della loro continua interazione. Se fosse possibile formulare equazioni differenziali che descrivano la produzione di scrittura, esse dovrebbero includere termini che si riferiscano al comportamento di tutte queste componenti. Pertanto, il ragionamento che ci porta alla conclusione che le componenti di un regolatore centrifugo sono componenti di un singolo sistema, e prede e predatori sono componenti di un singolo sistema, ci guida anche alla conclusione che le componenti di molti sistemi cognitivi finiranno per includere parti del corpo e del mondo.

Il concetto di accoppiamento è alla base di alcuni argomenti in favore della cognizione estesa. Quando i processi cerebrali sono accoppiati a processi del corpo o del mondo, o nel senso tecnico derivato dalla scienza cognitiva dei sistemi dinamici o nel senso meno tecnico che riguarda circoli di dipendenza, il risultante “cervello+” è esso stesso un singolo sistema cognitivo. Ed è un sistema cognitivo che si estende al di fuori della testa perché i suoi costituenti non sono legati direttamente al cervello.

Adams e Aizawa (2008; 2009; 2010) hanno offerto obiezioni agli argomenti basati sull’accoppiamento in favore della tesi della Costituzione, e dunque anche dell’idea di una cognizione estesa, a partire dalla convinzione che essi commettano una fallacia dell’accoppiamento-costituzione: “La forma del ragionamento qui consiste nel passare dall’osservazione che il processo X è in qualche modo connesso causalmente (accoppiato) col processo Y del tipo j alla conclusione che X sia parte dei processi del tipo j” (2009, 81). Essi affermano che questo tipo di ragionamento porta a risultati assurdi. Per esempio, “è l’interazione della palla da bowling rotolante sulla superficie della corsia a portare alla caduta dei birilli. Tuttavia, il processo del rotolare della palla non si estende alla superficie della corsia o ai birilli” (2009, 83). Allo stesso modo, Adams e Aizawa sosterrebbero, il processo cognitivo dello scrivere non si estende alla carta e agli scarabocchi implicati nell’atto di scrivere.

Questa risposta difficilmente smuove i proponenti degli argomenti dell’accoppiamento in favore della tesi della Costituzione. In primo luogo, gli argomenti di accoppiamento genuini richiedono che il processo X sia più che semplicemente connesso causalmente al processo Y del tipo j affinché X possa essere detto parte di un processo di tipo j. Supponiamo che il processo Y di tipo j sia la produzione di un paragrafo scritto su un pezzo di carta. Ammettiamo che X sia il suono della matita nel suo tracciare segni sul pezzo di carta. Il suono è causalmente connesso alla produzione del paragrafo ma, secondo i difensori della Costituzione, esso non è da considerarsi come costituente del sistema il cui risultato è un paragrafo scritto. Il suono non contribuisce al “circolo operativo” – eventi neurali, scribacchiare, leggere – da cui emerge il paragrafo. Pertanto, non basta essere un tipo di connessione causale per essere costituente di un processo.

In secondo luogo, Clark e altri difensori della tesi della Costituzione non affermano di certo che il processo stesso dello scrivere avvenga nei costituenti del sistema cognitivo che produce il testo scritto. Certamente il rotolare della palla da bowling non si estende al pavimento della corsia, e ovviamente il processo dello scrivere non si estende al pezzo di carta. Ma la tesi della Costituzione non comporta queste affermazioni (Shapiro 2019a). Così come si può dire che un neurone è un costituente del cervello anche se la cognizione non ha mai luogo in un singolo neurone, potrebbe avere lo stesso senso dire che il pavimento della corsia sia un costituente di un sistema che risulta nel rotolare della palla anche se il rotolare non ha luogo nel pavimento, e che la carta sia un costituente in un sistema che produce un testo scritto anche se il processo (materiale) di scrittura non ha luogo nella carta. Tali conclusioni, anche se in definitiva non dimostrate, tuttavia non decadono in virtù dell’obiezione di Adams e Aizawa.

5.2 Costituzione mediante Parità e Computazionalismo allargato

Al di là dell’argomento dell’accoppiamento, alcuni filosofi, es. Clark e Chalmers (1998) e Clark (2008), hanno sostenuto l’idea che i sistemi cognitivi comprendano costituenti al di fuori del cervello per un principio di parità, a partire da cui Wilson (2004) evoca l’idea di computazionalismo allargato. Gli argomenti sono simili, entrambi cercano di mostrare come un approccio funzionalista degli stati o processi mentali consenta la possibilità che questi processi cognitivi si estendano al di là del cervello.

Il principio di parità dice che “se, quando svolgiamo qualche compito, una parte del mondo funziona come un processo il quale, qualora si svolgesse nella testa, non faticheremmo a definire come processo cognitivo, allora quella parte del mondo è una … parte di un processo cognitivo” (Clark 2008, 222). Come esempio, Clark e Chalmers (1998), paragonano le credenze occorrenti di Otto, che soffre di Alzheimer, a quelle di Inga, che ha un cervello perfettamente funzionante. Otto conserva un quaderno che contiene quello stesso tipo di informazioni che verrebbero immagazzinate nell’ippocampo di un cervello perfettamente funzionante. Quando Inga vuole visitare il MoMA, essa estrae dalla sua memoria biologica l’informazione che il MoMA è sulla 53ma, il che la porta a prendere la metropolitana fino a tale destinazione. Quando Otto ha lo stesso desiderio, egli consulta il suo quaderno su cui c’è scritto “MoMA sulla 53ma”, che a sua volta determina il suo viaggio in quella direzione. Secondo l’ipotesi, la rappresentazione dell’indirizzo del MoMA nel quadernetto di Otto svolge la stessa funzione della rappresentazione nel cervello di Inga. Per cui, per il principio di parità, la nota sul quaderno è una memoria – una credenza occorrente rispetto all’indirizzo del MoMA. Il quaderno è perciò il sito di molti costituenti dei processi cognitivi di Otto.

In maniera simile, Wilson (2004) fa l’esempio di una persona che vuole risolvere una moltiplicazione tra due numeri molto grandi. Calcolare il prodotto “a mente” è una possibilità, ma risolvere l’operazione con l’aiuto di carta e matita sarebbe molto più facile. Nel secondo caso, Wilson afferma che il cervello “scarica” sulla carta parte del lavoro che dovrebbe altrimenti fare da sé. Per l’argomento di Wilson, cruciale è l’idea che risolvere la moltiplicazione sia un processo computazionale e che i processi computazionali non possono essere confinati in certe specifiche regioni dello spazio. Quando una moltiplicazione è risolta “a mente” il processo computazionale si esaurisce nel cervello. Ma alcuni dei momenti del processo potrebbero comunque svolgersi al di fuori della testa, su un pezzo di carta, nel qual caso un processo computazionale potrebbe svolgersi almeno in parte fuori dalla testa. C’è, allora, una qualche parità nei due processi, sia che le specifiche computazioni siano interne, sia che siano esterne all’agente. Qualora queste considerazioni fossero ritenute valide, esse potrebbero fornire ulteriore supporto alla tesi della Costituzione.

Alcune critiche della cognizione estesa sono state rivolte alla proposta originale di Clark e Chalmers, tuttavia, in quanto la proposta di Wilson è simile nella forma, essa stessa cade vittima di queste critiche se esse colpiscono nel segno. Tra i critici più aspri ci sono Adams e Aizawa (2001; 2008; 2009; 2010) che argomentano che i sistemi cognitivi estesi, come quello che riguarda Otto e il suo quaderno o una persona che esegue moltiplicazioni con carta e matita, non siano realmente cognitivi perché essi mancano di due “marchi” del cognitivo. Il primo marchio è che “gli stati cognitivi devono riguardare contenuti intrinseci e non derivati” (Adams e Aizawa 2001, 48). Il secondo è che i sistemi cognitivi devono riguardare processi di uniformità tale da ricadere entro il dominio di una singola scienza (Adams e Aizawa 2010).

Il criterio del contenuto intrinseco opera una distinzione tra contenuti che derivano dal pensiero umano, come il contenuto della parola “Martini” deriva dal pensare ai Martini, e contenuti che emergono “spontaneamente” senza dover dipendere da altri stati intenzionali rispetto alla loro origine. Il pensiero Martini, per esempio, si presume non derivi (o non abbia bisogno di derivare) da altri stati intenzionali, ma che sorga da alcune relazioni naturali tra stati del cervello e Martini (relazioni che una teoria naturalistica dell’intenzionalità dovrà specificare). Parole, mappe, segni, e così via posseggono un’intenzionalità derivata e non intrinseca, laddove i pensieri hanno un’intenzionalità intrinseca e non derivata. Partendo da questa distinzione e dalla sua importanza per identificare stati e processi cognitivi genuini, Adams e Aizawa escludono la plausibilità di una cognizione estesa sulla base del fatto che le note su un quaderno e i simboli numerici scritti su carta non hanno intenzionalità intrinseca.

Clark (2010) risponde a quest’obiezione, in parte spingendo Adams e Aizawa a chiarificare quanta intenzionalità intrinseca debba essere presente in un sistema affinché il sistema si qualifichi come cognitivo. Dopotutto, i cervelli, se non altro, sono sistemi cognitivi, ma non tutti i processi che avvengono in un cervello implicano stati o processi intenzionali. Di conseguenza, Clark si domanda, perché il fatto che alcuni elementi del sistema Otto + quaderno manchino di intenzionalità intrinseca dovrebbe precludere la possibilità che il sistema possa essere enumerato come cognitivo?

Adams e Aizawa propongono in risposta che “se si ha un processo che comprende intenzionalità non intrinseca, allora la condizione posta determina che il processo sia non-cognitivo” (2010, 70). Tuttavia, tale risposta lascia aperta la questione se Otto + quaderno sia un sistema cognitivo. In quanto il cervello di Otto contiene di fatto stati e processi che “comprendono” un contenuto intrinseco – stati e processi per cui le note sul quaderno sono lette e comprese e usate come guida del comportamento –, Clark può accettare di buon grado l’ipotesi di Adams e Aizawa. Una parte del sistema Otto + quaderno comprende intenzionalità intrinseca, una parte non la comprende, e il sistema cognitivo nel complesso incorpora entrambi questi elementi.

Il secondo marchio del mentale che Adams e Aizawa assumono per escludere sistemi come Otto + quaderno dal novero dei sistemi cognitivi solleva questioni  riguardo l’identificazione dei domini delle scienze. Se si suppone, in modo abbastanza ragionevole, che gli oggetti, processi, proprietà, etc. che cadono entro il dominio di una scienza particolare lo facciano in virtù della condivisione di caratteristiche peculiari, allora ci si dovrebbe aspettare lo stesso dal dominio delle scienze cognitive. Le parti, proprietà e attività che hanno luogo nei cervelli sembrano condividere alcune caratteristiche rilevanti, caratteristiche che consentono di identificare il sistema nervoso in nuove specie scoperte, come essi differiscano dalle rocce ignee e così via. Ma ora si supponga che i sistemi cognitivi possano essere estesi nei modi in cui Clark, Chalmers e Wilson hanno proposto. Tali sistemi ora conterrebbero costituenti che non potrebbero mai rientrare nel dominio di una singola scienza. I sistemi estesi potrebbero includere quaderni, carta e matita e attrezzi di qualsiasi tipo. “Per questa ragione,” Adams e Aizawa affermano, “una presunta scienza del cervello + strumenti dovrebbe studiare più di una specifica molteplicità di processi causali. Essa dovrebbe studiarne una moltitudine genuinamente eterogenea” (2010, 76).

Rupert (2004) condivide una preoccupazione simile, notando che i processi per cui Otto e Inga trovano il MoMA sono così diversi che non ha senso trattarli come se fossero di un singolo tipo – come se rientrassero entro il dominio di una sola scienza. Inoltre, Rupert argomenta, non ci sono buone ragioni per considerare i vari strumenti che si combinano con l’attività cerebrale come costituenti di un sistema cognitivo piuttosto che semplici strumenti che il sistema cognitivo utilizza per facilitare le operazioni di cui ha bisogno per svolgere un certo compito. Invece di insistere sul fatto che i sistemi cognitivi siano estesi, chiede Rupert, perché non considerarli come capaci di integrarsi con gli strumenti che rendono il loro lavoro più semplice? Un’ascia non diventa parte di una persona quando questa la usa per abbattere un albero, perché allora un quaderno dovrebbe diventare parte di un sistema cognitivo quando un cervello lo usa per trovare il MoMA? Un ragionevole conservatorismo, pensa Rupert, parla in favore della visione dei sistemi cognitivi come integrati negli ambienti che consentano il pronto utilizzo di strumenti per ridurre il carico di lavoro, piuttosto che come costituiti in parte da tali strumenti. L’ipotesi che i sistemi cognitivi usino strumenti “è significativamente meno radicale” (2004, 7) dell’ipotesi che gli strumenti siano costituenti dei sistemi cognitivi e sembrerebbe offrire una spiegazione adeguata a tutti i fenomeni che inizialmente hanno dato forma all’idea della cognizione estesa.

Dalla prospettiva di Clark, tuttavia, non c’è alcuna eterogeneità, come affermano Adams e Aizawa, nel sistema cervello + strumenti che egli crede costituire un legittimo oggetto di indagine scientifica. Inoltre, i processi per cui Otto e Inga trovano il MoMA non sono, come insiste Rupert, enormemente differenti. Una volta che si astrae dalla composizione fisica dei costituenti dei sistemi cognitivi estesi e ci si concentra sui ruoli funzionali e computazioni che essi svolgono, tali sistemi risultano identici, o molto simili, a sistemi del tutto contenuti nel cervello.

In modo simile, Clark negherebbe l’affermazione di Rupert per cui l’ipotesi della cognizione integrata possa altrettanto bene salvare i fenomeni che l’ipotesi della cognizione estesa cercava di descrivere e che ciò avverrebbe senza una altrettanto ampia revisione delle idee correnti rispetto a come operano i sistemi cognitivi. Un cervello, afferma Clark, “è ‘cognitivamente imparziale’: Non gli importa come e dove le operazioni chiave siano svolte” (2008, 136). Il conservatorismo di Rupert, infatti, rivela un malinteso – esso concepisce i cervelli come aventi la funzione della cognizione, che in un certo senso è vero, ma sarebbe più accurata una descrizione della funzione dei cervelli come direzionanti la costituzione di sistemi cognitivi – alcuni (molti?) dei quali comprendono costituenti esterni al cervello vero e proprio (si veda anche Wilson e Clark 2009).

Infine, Shapiro (1029b; 2019c) ha suggerito che le difese della parità e del computazionalismo allargato della tesi della Costituzione non si legano bene con altre asserzioni chiave della cognizione incarnata. Come menzionato, tali difese si basano su una teoria funzionalista della cognizione (per un approfondimento sul funzionalismo si veda la voce funzionalismo https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/functionalism/). Il funzionalismo può giustificare l’affermazione che stati e processi esterni al cervello sono identici a stati e processi interni al cervello (giacciono in una relazione di parità funzionale rispetto a essi), il che a sua volta fonda la possibilità che i sistemi cognitivi contengano costituenti non neurali. Ma, Shapiro argomenta, questa strategia per difendere la cognizione estesa sembra contraria ai temi centrali della cognizione incarnata. A motivare la svolta corporea nelle scienze cognitive c’è l’idea che i corpi siano in qualche modo essenziali alla cognizione. Ma gli argomenti della parità e della computazione allargata implicano proprio il contrario – essenziali per la cognizione sono i processi computazionali, e siccome i processi computazionali sono “indifferenti all’hardware” non c’è bisogno di considerare le specificità dei corpi per descrivere questi processi. Pertanto, sembra che gli argomenti in favore della cognizione estesa valgano nella misura in cui i corpi, in quanto corpi, non siano specificamente rilevanti rispetto alla cognizione.

6. L’estensione della cognizione incarnata

In aggiunta al territorio cognitivo di base – linguaggio, percezione, memoria, categorizzazione – che la cognizione incarnata copre, i ricercatori hanno recuperato concetti e metodi della cognizione incarnata per obiettivi d’indagine al di fuori del campo psicologico. In particolare, la cognizione incarnata trova applicazione nei campi della cognizione sociale e nella cognizione morale.

6.1 Cognizione Sociale

La cognizione sociale è la capacità di comprendere e interagire con altri agenti. In tale forma di cognizione sono coinvolte una gran varietà di capacità cognitive, come attenzione, memoria, cognizione affettiva e meta-cognizione (Fiske e Taylor 2013). Tradizionalmente, tuttavia, la discussione filosofica associata alla cognizione sociale  l’ha concepita strettamente come capacità di mentalizzare (anche detta teoria o lettura della mente). La mentalizzazione si riferisce all’attribuzione di stati mentali, spesso a loro volta ridotti ad atteggiamenti proposizionali, e tendenzialmente per il fine di spiegare o predire il comportamento altrui. Pertanto, sebbene la cognizione sociale sia retta da e coinvolga numerosi e differenti processi cognitivi, molti filosofi si sono limitati a pensarla come l’attribuzione di atteggiamenti proposizionali per predire e spiegare il comportamento. Per espressioni classiche della cognizione sociale si vedano Davies e Stone (1995a) e (1995b). Più di recente, i filosofi hanno iniziato a concepire la cognizione sociale in modo più ampio. Si vedano Andrews, Spaulding e Westra (2020) per un’indagine sulla Psicologia Popolare Pluralistica.

I teorici della cognizione incarnata hanno respinto questa concezione ristretta della cognizione sociale. Nonostante essi non neghino che gli adulti umani neurotipici abbiano la capacità di attribuire credenze e desideri e di spiegare e predire i comportamenti, essi hanno argomentato che questa è un’abilità specialistica e usata solo raramente nelle nostre interazioni sociali quotidiane (Gallagher 2020; Gallagher 2008; Hutto e Ratcliffe 2007). La maggior pare delle interazioni sociali richiede solo capacità cognitive sociali basilari che sono note come intersoggettività primaria e secondaria (Trevarthen 1979).

L’intersoggettività primaria è la comprensione pre-teoretica, non concettuale, incarnata degli altri che soggiace e supporta le abilità cognitive superiori coinvolte nella mentalizzazione. Essa è “la capacità innata o sviluppata prestissimo di interagire con gli altri che si manifesta al livello della percezione sensoriale – vediamo o più generalmente percepiamo nei movimenti corporei dell’altra persona, espressioni facciali, direzione dello sguardo e così via, ciò che essa intende o prova” (Gallagher 2005, 204). L’intersoggettività primaria è presente dalla nascita, ma continua a fungere da base per la nostra cognizione sociale in età adulta. Essa si manifesta come la capacità di imitare le espressioni facciali, la capacità di individuare e seguire il movimento degli occhi, individuare il comportamento intenzionato, e “leggere” le emozioni dalle azioni e dai movimenti espressivi degli altri. L’intersoggettività primaria consiste nella sensitività informazionale e nella responsività adeguata alle caratteristiche peculiari del proprio ambiente. Essa, argomentano i teorici della cognizione incarnata, non coinvolge la rappresentazione e la capacità di teorizzare rispetto a queste stesse caratteristiche. Semplicemente, questa cognizione richiede certe abilità pratiche che sono state forgiate da processi di selezione, es. la sensibilità a certi indizi corporei e alle espressioni facciali.

Intorno all’anno di età, i bambini neuro-tipici sviluppano capacità concernenti l’intersoggettività secondaria. Questo sviluppo consente a un soggetto di procedere dall’intersoggettività uno-a-uno, immediata, all’attenzione condivisa. A questo stadio, i bambini imparano a seguire lo sguardo, indicare e comunicare con gli altri rispetto a oggetti di attenzione condivisa. Secondo la cognizione incarnata, le abilità cognitive acquisite attraverso l’intersoggettività secondaria non sono rappresentazioni metacognitive più ricche riguardo le altre menti. Piuttosto, i bambini imparano una serie di abilità pratiche quando ottengono che gli altri si concentrino su un oggetto indicato e quando imparano a loro volta a concentrarsi su oggetti a cui gli altri stanno dando attenzione. Ciò determina una comprensione più ricca degli altri agenti, ma si tratta ancora di una comprensione incarnata, comportamentale, piuttosto che una rappresentazione degli atteggiamenti proposizionali degli altri (Gallagher 2005, 207).

Sebbene l’intersoggettività primaria e secondaria siano descritte in termini di psicologia evolutiva, secondo la cognizione incarnata queste pratiche intersoggettive costituiscono la nostra modalità fondamentale di cognizione sociale anche da adulti (Fuchs 2012; Gallagher 2008). Per esempio, Hutto afferma che “Il nostro coinvolgimento primario nel mondo è non-rappresentazionale è non prende la forma di un’attività intellettuale” (2008, 51). Si può vedere nella descrizione di Hutto della cognizione sociale una tendenza verso la tesi della Sostituzione laddove egli cerca di minimizzare o rifiutare del tutto ruoli per la rappresentazione nella capacità umana di comprendere il comportamento altrui. La mentalizzazione, argomenta, è una abilità che si sviluppa tardi, raramente usata e specializzata. L’intersoggettività primaria e secondaria sono fondamentali in quanto esse sono sufficienti per la navigazione nel contesto di tutte le interazioni sociali e in quanto consentono di sviluppare i livelli di cognizione sociale più complessi, come la mentalizzazione. Tuttavia, si veda Spaulding (2010) per una critica di questi argomenti.

I neuroni specchio potrebbero essere un meccanismo importante nella cognizione sociale in questo tipo di teoria. I neuroni specchio sono neuroni che si attivano sia per cause endogene, al fine di produrre un comportamento, sia esogene, durante l’osservazione di quel medesimo comportamento. Per esempio, i neuroni nella corteccia premotoria e nel lobo parietale inferiore si attivano quando un soggetto effettua, per esempio, una presa con tutta la mano per afferrare una bottiglia. Questi stessi neuroni si attivano selettivamente quando un soggetto osserva un obiettivo che effettua la stessa presa per afferrare un altro oggetto. I neuroscienziati hanno scoperto schemi di attivazione simili nei neuroni di varie parti del cervello, il che ha portato alla proposta che ci siano sistemi di neuroni specchio per l’azione, la paura, la rabbia, il dolore, il disgusto, etc. Sebbene l’interpretazione di queste scoperte sia soggetta a una gran quantità di controversie (Hickok 2009), molti teorici propongono che i neuroni specchio siano un meccanismo basilare della cognizione sociale (Gallese 2009; Goldman 2009; Goldman e de Vignemont 2009; Iacoboni 2009). Il ragionamento è che i neuroni specchio spiegano come un soggetto comprenda gli stati mentali di un altro senza bisogno di inferenze superiori rispetto alla natura del comportamento e degli stati mentali. Nella modalità di osservazione, il cervello del soggetto si attiva come se il soggetto stesse facendo, sentendo o esperendo ciò che sta facendo, sentendo o esperendo l’obiettivo. In tal modo, l’osservazione del comportamento dell’obiettivo è automaticamente dotata di senso per il soggetto. I neuroni specchio sono un possibile meccanismo per la cognizione sociale incarnata. Se le scoperte e le interpretazioni fossero comprovate, esse sostanzierebbero le affermazioni rispetto al fatto che possiamo comprendere e interagire con gli altri senza dover operare mentalizzazioni. Per una rassegna delle ragioni per essere cauti rispetto a questa interpretazione dei neuroni specchio si veda Spaulding (2011; 2013).

6.2 Cognizione morale

La cognizione morale incarnata prende il sentimentalismo morale come punto di partenza. Il sentimentalismo morale è la visione per cui le nostre emozioni e desideri sono, in un certo senso, fondamentali per la moralità, la conoscenza morale e il giudizio morale. Una versione peculiare di sentimentalismo morale ritiene che le emozioni, gli atteggiamenti morali e i giudizi morali siano generati dalle nostre “reazioni di pancia” e ogni ragionamento morale che si compieè tipicamente una razionalizzazione post hoc di queste stesse reazioni viscerali (Haidt 2001; Nichols 2004; Prinz 2004). La cognizione morale incarnata prende ispirazione da questo tipo di sentimentalismo morale. Essa ritiene che molti dei nostri giudizi morali si generino dai nostri stati affettivi incarnati piuttosto che dal ragionamento astratto.

Vi sono varie evidenze empiriche che supportano questo tipo di visione. Si consideri, per esempio, i casi patologici, come gli psicopatici o gli individui con danni alla corteccia prefrontale ventro-mediale (vmPFC). Tali individui sono incapacitati a fornire giudizi morali. Gli psicopatici provano pochissimo rimorso rispetto ai comportamenti immorali e talvolta hanno grosse difficoltà a distinguere norme morali da norme convenzionali (Hare 1999). Gli individui con danni alla vmPFC posseggono una conoscenza astratta dei principi morali ma non riescono a prendere decisioni morali concrete nel quotidiano (Damasio 1994). In entrambi i casi, gli individui mancano delle risposte fisiologiche che accompagnano il prendere decisioni morali neuro-tipiche. Mancando di questi “segnali somatici” che guidano i giudizi morali, questi individui si comportano in modi impulsivi, egoistici e immorali (Damasio 1994). La cognizione incarnata descriverebbe queste connessioni tra risposte fisiologiche (come un battito accelerato o i palmi sudati) e decisioni morali.

Psicologi e neuroscienziati, a loro volta, hanno osservato l’influenza degli indizi corporei sui giudizi morali negli individui neuro-tipici. Per esempio, la velocità sperimentalmente manipolata del battito cardiaco sembra influenzare i giudizi morali, con sensazioni in presenza di battito accelerato che portano a maggiore disagio morale e giudizi morali più equi (Gu, Zhong e Page-Gould 2013). In aggiunta, ci sono prove che determinare una sensazione di disgusto porti a giudizi morali più severi (Schnall et al. 2008). Una sensazione generale di pulizia sembra spingere verso giudizi morali meno severi (Schnall, Benton e Harbey 2008). In ciascuno di questi casi, la percezione di indizi corporei sembra modulare i giudizi morali. I sentimentalisti morali hanno osservato che molte persone hanno reazioni avverse forti per azioni del tutto innocue che violano tabù come il sesso consensuale protetto tra fratelli e sorelle adulti, e spesso hanno difficoltà a spiegare perché pensano che queste azioni senza vittime e senza danni siano moralmente sbagliate (Strejcek e Zhong 2014; Haidt 2001; Haidt, Koller e Dias 1993; Cushman, Young e Hauser 2006). Dalla prospettiva della cognizione incarnata questa classificazione conferma la nozione che operiamo giudizi morali sulla base di indizi corporei.

Le teorie del doppio processo della psicologia morale respingono le affermazioni del sentimentalismo morale per cui tutti i giudizi morali sono effettuati nello stesso modo. Le teorie del doppio processo sostengono che abbiamo due sistemi di decisione morale: uno per il ragionamento utilitaristico che è guidato da deliberazioni anaffettive e astratte, e un sistema per il ragionamento deontologico che è guidato da euristiche automatiche, intuitive ed emotive come i sentimenti viscerali (Greene, 2014). Le teorie del doppio processo sono dirette a spiegare le intuizioni apparentemente contraddittorie che le persone comuni detengono rispetto ai dilemmi morali. Per esempio, nel classico problema del carrello ferroviario dove un vagone fuori controllo si dirige verso cinque individui inconsapevoli che si trovano sul binario, tutti hanno l’intuizione immediata che si debba operare uno scambio in modo che il vagone cambi binario e di conseguenza investa una sola persona salvandone cinque. Tuttavia, nella variazione del ponte pedonale del problema del trolley in cui salvare i cinque sul binario richiede di spingere dal ponte una persona in modo da far deragliare il vagone, la maggior parte delle persone ha l’intuizione che ciò non si debba fare, sebbene il risultato sia lo stesso del primo caso. La teoria del processo duale ritiene che nel primo caso il nostro ragionamento sia guidato da un tipo di astrazione del Sistema 2. Tuttavia, nel secondo caso, il nostro ragionamento è guidato da una risposta fisiologica avversa generata dall’immagine di dover spingere un individuo dal ponte. La visione della teoria del doppio processo in parte riconosce la posizione del sentimentalismo morale, in quanto pone uno specifico Sistema 1 per il ragionamento morale che si fonda su istinti viscerali incarnati. E tuttavia sostiene che esista inoltre un sistema separato che opera su input e processi diversi per il ragionamento morale più astratto.

Di recente, i teorici hanno messo in discussione la stringente dicotomia delle teorie del doppio processo tra ragione ed emozione (Huebner 2015; Maibom 2012; Woodward 2016). Da una parte, le aree cerebrali che sono associate con emozioni come rabbia, paura e disgusto sono implicate nell’apprendimento complesso e nei processi inferenziali. Dall’altra, gli individui che hanno chiare difficoltà nelle decisioni morali – gli psicopatici e gli individui con danni alla vmPFC – soffrono anche di deficit in altri tipi di apprendimento e processi inferenziali. Il ragionamento astratto non è, a quanto pare, segregato dai processi affettivi. I segnali somatici, gli indizi affettivi e le risposte fisiologiche sono centrali per il ragionamento, l’apprendimento e i processi decisionali. Per i proponenti della cognizione morale incarnata, ciò funge come ulteriore conferma dell’idea che la cognizione, compresa quella morale, sia profondamente condizionata da segnali corporei. Tuttavia, si veda May (2018), May e Kumar (2018) e Railto (2017) per una lettura razionalistica di queste stesse scoperte.

7. Conclusione

Questo articolo mira a fornire un’idea dell’ampiezza di temi che ricadono entro il campo della cognizione incarnata, così come delle numerose controversie che sono state di particolare interesse filosofico. Come con ogni programma di ricerca agli albori, rimangono molte questioni aperte riguardo a come la cognizione incarnata si rapporti ai suoi predecessori, in particolare alle scienze cognitive di impianto computazionale e alla psicologia ecologica. Alcune delle domande filosofiche più complesse che sorgono poi all’interno della cognizione incarnata stessa, come quelle che riguardano la rappresentazione, la spiegazione e il vero significato del concetto di “mente”, sono di quel tipo che ogni teoria del mentale deve affrontare. Al di là delle sfide filosofiche all’integrità concettuale della cognizione incarnata incombono anche preoccupazioni di matrice psicologica rispetto alla replicabilità di alcune delle scoperte più citate nel contesto della cognizione incarnata; tuttavia, ad essere onesti, le preoccupazioni rispetto alla replicabilità so\no sorte in moltissime aree della psicologia (Goldhill 2019; Lakens 2014; Maxwell, Lau e Howard 2015; Rabelo et al. 2015). Qualunque sia il futuro della cognizione incarnata, uno studio attento dei suoi obiettivi, metodi, fondamenti concettuali e motivazioni arricchirà senza alcun dubbio la filosofia della psicologia.

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