Traduzione di Luca Gasparinetti.
Revisione di Richard Magnano, pagina di Peter van Inwagen e Meghan Sullivan.
Versione Autunno 2021.
The following is the translation of Peter van Inwagen and Meghan Sullivan’s entry on “Metaphysics” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at <https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/metaphysics/>. This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at <https://plato.stanford.edu/entries/metaphysics>. We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.
Non è facile stabilire che cosa sia la metafisica. I filosofi antichi e medievali avrebbero potuto affermare che la sarebbe dovuta definirsi, come la chimica o l’astrologia, in base al suo oggetto di ricerca: la metafisica era la “scienza” che studiava “l’essere in quanto tale” o “le cause prime delle cose” o “le cose che non sono soggette a cambiamento”. Non è più possibile definire la metafisica in tale maniera, per i due seguenti motivi. In primis, un filosofo che negasse l’esistenza di ciò che una volta era concepito come l’oggetto costitutivo della metafisica — le cause prime o le cose immutabili — sosterrebbe in tal modo una posizione metafisica. In secundis, ci sono molti problemi filosofici — come il problema del libero arbitrio o il problema del mentale e del fisico — che sono ora considerati problemi metafisici (o almeno in parte), anche se non pertinenti in nessun modo alle cause prime o alle cose immutabili.
Le prime tre sezioni di questa voce esaminano un’ampia selezione di problemi considerati metafisici e discutono i modi in cui l’area di ricerca metafisica si è estesa nel tempo. Vedremo che i problemi centrali erano significativamente più omogenei in epoca antica e medievale. Ciò porta a chiedersi se vi sia un qualche caratteristica comune che unisca anche i problemi della metafisica contemporanea. Le ultime due sezioni trattano alcune teorie recenti sulla natura e sulla metodologia della metafisica. Infine, verranno considerati alcuniargomenti secondo i quali la metafisica – in qualsiasi modo la si definisca – è un’impresa impossibile.
- 1. La parola “metafisica” e il concetto di metafisica
- 2. I problemi della metafisica: la “vecchia” metafisica
- 3. I problemi della metafisica: la “nuova” metafisica
- 4. La metodologia della metafisica
- 5. La metafisica è possibile?
- Bibliografia
- Strumenti accademici
- Altre risorse in Internet
- Voci correlate
1. La Parola “metafisica” e il concetto di metafisica
La parola “metafisica” è notoriamente difficile da definire. Espressioni del ventesimo secolo come “meta-linguaggio” e “metafilosofia” rafforzano l’impressione che la metafisica sia uno studio che, in qualche modo, “si spinga oltre” la fisica, occupandosi di questioni che trascendono gli interessi mondani di Newton, Einstein e Heisenberg. Questa impressione è errata. La parola “metafisica”, che Aristotele stesso non conosceva (aveva quattro nomi per il ramo della filosofia che è l’oggetto della Metafisica: “filosofia prima”, “scienza prima”, “saggezza” e “teologia”), deriva dal titolo collettivo dei quattordici libri di Aristotele che attualmente pensiamo costituiscano la Metafisica. Almeno cento anni dalla morte di quest’ultimo, un editore delle sue opere (con ogni probabilità, Andronico di Rodi) intitolò quei quattordici libri “Ta meta ta physika” — ovvero “(i libri) dopo quelli fisici” contenuti in quella che oggi chiamiamo la Fisica di Aristotele. Il titolo era probabilmente finalizzato allo scopo di avvertire gli studenti della filosofia di Aristotele che avrebbero potuto cimentarsi nella Metafisica solo dopo aver padroneggiato “quelli fisici”, i libri sulla natura o sul mondo naturale — ovvero sul cambiamento, in quanto esso è la caratteristica che definisce il mondo naturale.
Questo è il probabile significato del titolo, poiché la Metafisica riguarda ciò che non muta. In un passo, Aristotele identifica l’oggetto della filosofia prima come “l’essere in quanto tale” e, in un altro, come “cause prime”. Quale sia la connessione tra queste due definizioni è un’ottima – quanto vessata – questione. La risposta potrebbe essere questa: le cause prime immutabili non hanno altro che l’essere in comune con le cose mutevoli che causano. Essi esistono – come noi e gli oggetti della nostra esperienza – e qui la somiglianza cessa. (Per una guida recente dettagliata e informativa alla Metafisica di Aristotele, si veda Politis 2004).
Dobbiamo quindi assumere che “metafisica” sia un nome per quella “scienza” che è l’oggetto della Metafisica di Aristotele? Se assumiamo questo, dovremmo impegnarci in qualcosa di simile alle seguenti tesi:
- L’oggetto della metafisica è “l’essere in quanto tale”.
- L’oggetto della metafisica sono le cause prime delle cose
- L’oggetto della metafisica è ciò che non è sottoposto al mutamento
Ognuna di queste tre tesi potrebbe essere considerata un’affermazione difendibile dell’oggetto di ciò che è stato chiamato “metafisica” fino al XVII secolo. Ma poi, piuttosto improvvisamente, molti argomenti e problemi che Aristotele e i medievali avrebbero classificato come appartenenti alla fisica (come la relazione tra mente e corpo, la libertà del volere o l’identità personale nel tempo) iniziarono ad essere materia pertinente all’indagine metafisica. Si potrebbe quasi dire che nel XVII secolo la metafisica cominciò ad essere una categoria onnicomprensiva, un deposito di problemi filosofici che non potevano essere altrimenti classificati come epistemologia, logica, etica o altre branche della filosofia. (Fu più o meno in quel periodo che fu inventata la parola “ontologia”, un nome per la scienza dell’essere in quanto tale, una funzione per cui la parola “metafisica” non era più adatta). I razionalisti accademici della scuola post-leibniziana erano consapevoli del fatto che la parola “metafisica” era impiegata in un senso più inclusivo rispetto al passato. Christian Wolff tentò di giustificare tale fatto in questo modo: seppure l’oggetto della metafisica è l’essere, esso può essere indagato sia in generale che in relazione agli oggetti in categorie particolari. Wolff operò una distinzione tra la “metafisica generale” (o ontologia), lo studio dell’essere in quanto tale, e le varie branche della “metafisica speciale”, che studiano l’essere di oggetti di vario genere, come le anime e i corpi materiali. (Wolff non assegna le cause prime alla metafisica generale bensì alla teologia naturale, un ramo della metafisica speciale). Che questa manovra sia qualcosa di più di uno stratagemma retorico è ancora in dubbio: in che senso, infatti, chi si interessa della psicologia razionale (il ramo della metafisica speciale dedicato all’anima) è impegnato in uno studio dell’essere? Le anime hanno un tipo di essere diverso da quello degli altri oggetti? Secondo questo ragionamento, studiando l’anima si dovrebbe apprendere non solo ciò che riguarda la sua natura (ovvero le sue proprietà come razionalità, immaterialità, immortalità; la sua capacità o meno di influire sul corpo…), ma anche il suo “modo di essere”, imparando così qualcosa sull’essere stesso? Certamente, non è vero che tutti, o anche molti, psicologi razionalisti in quanto tali abbiano detto qualcosa che possa essere plausibilmente interpretato come un contributo alla nostra comprensione dell’essere.
Forse l’impiego più ampio della parola “metafisica” era conseguenza del fatto che la parola “fisica” iniziava ad essere usata per riferirsi ad una nuova scienza quantitativa, (la scienza che oggi porta quel nome), e stava diventando sempre più inadeguata all’indagine di molti problemi filosofici tradizionali sugli enti soggetti a mutamento (e di alcuni problemi recentemente scoperti riguardo ad essi).
Qualunque sia stata la ragione del cambiamento, sarebbe in contrasto con l’uso corrente (e con l’uso degli ultimi tre o quattrocento anni) stabilire che l’oggetto della metafisica debba essere l’oggetto della Metafisica di Aristotele. Inoltre, entrerebbe in conflitto con il fatto che ci sono attualmente e ci sono stati in passato alcuni metafisici paradigmatici che negano l’esistenza di cause prime — tale negazione è certamente una tesi metafisica nel senso corrente — e altri che insistono sul fatto che tutto cambia (Eraclito e qualsiasi filosofo più recente che sia al contempo materialista e nominalista), e altri ancora (Parmenide e Zenone) che negano l’esistenza di una classe speciale di oggetti che non mutano. Nel cercare di caratterizzare la metafisica come un’area di ricerca, il miglior punto di partenza è quindi considerare le seguenti questioni tradizionalmente assegnate ad essa.
2. I problemi della metafisica: la “vecchia” metafisica
2.1 L’Essere in quanto tale, le cause prime, le cose immutabili
Sebbene oggi la metafisica consideri una gamma più ampia di problemi rispetto a quelli studiati nella Metafisica di Aristotele, quegli stessi problemi continuano ad essere oggetto di ricerca. Per esempio, la questione dell’“essere in quanto tale” (e dell’“esistenza in quanto tale”, se assumiamo che l’esistenza sia qualcosa di diverso dall’essere), così come altre questioni, appartiene alla metafisica in qualsiasi modo la si intenda. Le seguenti tesi sono tutte fondamentalmente metafisiche:
- “L’essere è; il non essere non è” [Parmenide];
- “L’essenza precede l’esistenza” [Avicenna, parafrasato];
- “L’esistenza nella realtà è più grande dell’esistenza nel solo intelletto”[Sant’Anselmo, parafrasato];
- “L’esistenza è una perfezione” [Cartesio, parafrasato];
- “L’essere è un predicato logico, non un predicato reale” [Kant, parafrasato];
- “L’essere è la più sterile e astratta di tutte le categorie” [Hegel, parafrasato];
- “L’affermazione dell’esistenza non è in realtà che la negazione del numero zero” [Frege];
- “Gli universali non esistono ma sussistono o hanno essere” [Russell, parafrasato];
- “Essere è essere il valore di una variabile vincolata” [Quine].
Inoltre, sembra ragionevole affermare che le indagini sul non-essere appartengano al tema dell’“essere in quanto tale”, quindi alla metafisica. (Questo non sembrava plausibile invece per Meinong, che voleva limitare l’oggetto della metafisica all’“attuale”, non considerando quindi la sua Teoria degli Oggetti come una teoria metafisica. Tuttavia, secondo la concezione della metafisica adottata in questo articolo la sua tesi [parafrasata] “La predicazione è indipendente dall’essere” è propriamente metafisica).
Anche se attualmente non sono concepiti come temi correlati con “l’essere in quanto tale”, le questioni relative “alle cause prime degli enti” e “alle cose immutabili” hanno continuato a interessare i metafisici. Per esempio, le prime tre delle Cinque Vie di San Tommaso d’Aquino sono argomenti metafisici per qualsiasi posizione metafisica. Inoltre, la tesi che non esistono cause prime e la tesi che non esistono cose che non cambiano conta, comunque, come una tesi metafisica. Questo perché, nella concezione corrente della metafisica, la negazione di una tesi metafisica è una tesi metafisica. Nessun filosofo post-medievale farebbe affermazioni di questo tipo:
Io studio le cause prime delle cose, e quindi sono un metafisico. La mia collega, la dottoressa McZed, nega l’esistenza di cause prime e quindi non è una metafisica; è piuttosto un’antimetafisica. Secondo lei, infatti, la metafisica è una scienza con un oggetto inesistente, come l’astrologia.
Questa caratteristica della concezione contemporanea della metafisica è ben illustrata da una dichiarazione di Sartre:
Non mi ritengo meno metafisico nel negare l’esistenza di Dio di quanto lo fosse Leibniz nell’affermarla. (1949: 139)
Un antimetafisico nel senso contemporaneo non è un filosofo che nega l’esistenza di oggetti che una volta costituivano l’oggetto della metafisica (cause prime, cose che non cambiano, universali, sostanze, …). Un antimetafisico è piuttosto un filosofo che nega la legittimità della domanda se esistano oggetti di quel tipo.
I tre temi originari — la natura dell’essere; le cause prime delle cose; le cose immutabili — difatti sono rimasti argomenti di indagine metafisica dopo Aristotele. Un altro argomento, discusso nella sottosezione seguente, occupa una posizione intermedia tra Aristotele e i suoi successori.
2.2 Categorie dell’Essere e gli Universali
Noi esseri umani ordiniamo le cose in varie classi. Spesso supponiamo che tali classi godano di una sorta di unità interna. In tal modo sono diverse dagli insiemi in senso stretto. (E senza dubbio in altri sensi. Per esempio, sembrerebbe che concepiamo le classi — e.g., le specie biologiche— come comprendenti membri diversi in tempi diversi). Tali classi nella maggior parte dei casi sono classi “naturali”, la cui appartenenza è in qualche senso uniforme — “generi”. Non tenteremo qui un resoconto o una definizione di “classe naturale”. Gli esempi dovranno bastare. Ci sono certamente insiemi i cui membri non costituiscono classi naturali: un insieme che contiene tutti i cani tranne uno, e un insieme che contiene tutti i cani ed esattamente un gatto non corrispondono a classi naturali da nessun punto di vista. Inoltre, siamo tentati di supporre che ci sia un senso di “naturale” in cui i cani costituiscono una classe naturale, e di supporre che nel dividere il mondo in cani e non-cani “dividiamo seguendo le articolazioni naturali”. È tuttavia una tesi filosofica rispettabile quella che ritiene che una classe naturale non possa sopravvivere all’esame filosofico. Se vera, allora l’argomento “le categorie dell’essere” non è altro che uno pseudo-argomento. Supponiamo invece che la tesi rispettabile sia falsa e che le cose appartengano a varie classi naturali — d’ora in poi, semplicemente classi.
Alcune delle classi in cui classifichiamo gli enti sono più estese di altre: tutti i cani sono animali, ma non tutti gli animali sono cani; tutti gli animali sono organismi viventi, ma non tutti gli organismi viventi sono animali …. Ora, l’espressione stessa “ordinare le cose in classi” suggerisce l’esistenza di una classe più completa: la classe delle cose, i.e. la classe delle cose che possono essere ordinate in classi. Ma è davvero così? Se sì, ci sono classi che sono “appena meno estese” di questa classe universale? Se ci sono, possiamo identificarle? Ce ne sono un numero vasto (forse anche infinito), o un numero grande e disordinato come quarantanove, o un numero piccolo e ordinato come sette o quattro? Alla luce di queste domande, le classi meno estese verranno chiamate “categorie dell’essere” o “categorie ontologiche”. (Il primo termine, se non il secondo, presuppone una posizione particolare su una domanda sulla natura dell’essere: tutto esiste; la classe universale è la classe degli esseri, la classe delle cose che sono. Tale considerazione, quindi, presuppone che Meinong avesse torto a dire che “ci sono cose di cui è vero (dire) che non ci sono”).
La questione “le categorie dell’essere” è intermedia tra il tema “la natura dell’essere” e i temi che rientrano nella concezione post-medievale della metafisica. Questo può essere motivato considerando il problema degli universali. Se davvero esistono, prima facie, gli universali sono proprietà o qualità o attributi (e.g., “duttilità” o “bianchezza”) che si suppone siano universalmente presenti nei membri delle classi di cose e relazioni (e.g., “essere a nord di”) che, a loro volta, si suppone siano universalmente presenti nei membri delle classi di sequenze di cose. Prima facie: sebbene le qualità e le relazioni siano gli elementi più comunemente proposti come esempi di universali, potrebbe darsi il caso in cui qualcosa diverso da esse sia universale. Per esempio, il romanzo Guerra e Pace potrebbe essere un universale in quanto presente in qualche maniera in ciascuna delle molte copie tangibili del romanzo. Inoltre, in quanto presente in ognuna delle molte enunciazioni udibili della parola, potrebbe essere che la parola “cavallo” sia un universale. E ancora, può essere che le classi naturali o i generi siano essi stessi universali — può essere che ci sia una cosa come “il cavallo” o la specie Equus caballus, distinta dal suo attributo definitorio “essere un cavallo” o “equinità”, e in qualche senso “presente in” ogni cavallo. (Forse qualche differenza tra l’attributo “essere un cavallo” e l’attributo “essere o un cavallo o un gattino” spiega perché il primo, piuttosto che il secondo, sia l’attributo che definisce un genere. Forse il primo attributo esiste e il secondo no; oppure il primo ha l’attributo di secondo ordine “naturalezza” e il secondo no; o ancora l’intelletto apprende più facilmente il primo piuttosto che il secondo).
La tesi che gli universali esistono — o comunque “sussistono” o “hanno essere” — è chiamata “realismo” o “realismo platonico” o “platonismo”, anche se tutti e tre i termini sono discutibili. Aristotele, per esempio, credeva nella realtà degli universali, ma sarebbe errato etichettarlo come un platonico o un realista platonico. Inoltre, “realismo” tout court è stato impiegato per indicare varie tesi filosofiche. In particolare, la tesi che gli universali non esistono —non sussistono; non hanno alcun tipo di essere — è generalmente chiamata “nominalismo”. Anche questo termine è discutibile: coloro che negavano l’esistenza degli universali amavano affermare tesi del genere:
Non esiste una cosa come “essere un cavallo”: esiste solo il nome [nomen, gen. nominis] “cavallo”, un mero flatus vocis [emissione di voce].
Tuttavia, i nominalisti contemporanei sono consapevoli – se quelli precedenti non lo erano – che se la proposizione “il nome ‘cavallo’” designasse un oggetto, questo stesso oggetto sarebbe esso stesso un universale o qualcosa di molto simile. Non sarebbe un semplice flatus vocis, bensì sarebbe ciò che era comune ai molti flatus vocis, alle sue occorrenze.
Il vecchio dibattito tra nominalisti e realisti è ancora attuale. La maggior parte dei realisti suppone che gli universali costituiscano una delle categorie dell’essere. Questa posizione potrebbe certamente essere discussa senza cadere nell’assurdità. Per esempio, potrebbe esserci forse una classe naturale di cose a cui appartengono tutti gli universali, ma che contiene anche altre cose (e non è la classe di tutte le cose). Oppure forse, i numeri e proposizioni non sono universali, e probabilmente numeri e proposizioni e universali potrebbero essere tutti membri di una classe di “oggetti astratti”, una classe a cui alcune cose non appartengono. O ancora, forse esiste una cosa come “la bianchezza del Taj Mahal” e forse questo oggetto e l’universale “bianchezza” — ma non il Taj Mahal stesso — appartengono entrambi alla classe delle “proprietà”. Chiamiamo una tale classe — una sottoclasse propria di una categoria ontologica, classe naturale che non è né la classe di tutte le cose né una delle categorie ontologiche — una “sotto-categoria ontologica”. Può effettivamente essere che gli universali costituiscano una sotto-categoria dell’essere e siano membri della categoria dell’essere “oggetto astratto”. Tuttavia, pochi filosofi, se non proprio nessuno potrebbero supporre che gli universali siano membri di quarantanove sotto-categorie, tanto meno di un vasto numero o di un’infinità di esse. La maggior parte dei filosofi che credono nella realtà degli universali affermerebbe che questi, seppur non costituiscono una categoria ontologica, almeno costituiscono una delle sotto-categorie “superiori”. Se i cani formano una classe naturale, tale classe è — nei termini della nostra definizione — una sotto-categoria ontologica. E questa sarà senza dubbio una sottoclasse di molte sotto-categorie: il genere canis, la classe (in senso biologico) dei mammalia, …, e così attraverso una catena di sotto-categorie che alla fine raggiunge qualche sotto-categoria molto generale come “sostanza” o “oggetto materiale”. Così, anche se i cani possono formare una sotto-categoria ontologica, a differenza della categoria “universale”, tale sotto-categoria sarà una di quelle “inferiori”. Queste riflessioni suggeriscono che il tema “le categorie dell’essere” deve essere inteso come comprendente sia le categorie dell’essere sensu strictoche le loro immediate sotto-categorie.
Il tema “categorie dell’essere” appartiene alla metafisica nel senso “vecchio”? Si potrebbe rispondere in maniera affermativa, in base al fatto che la teoria delle forme (universali, attributi) di Platone è un tema ricorrente nella Metafisica di Aristotele. In questo testo due delle tesi centrali di Platone sulle forme sono oggetto di una critica vigorosa: (i) le cose che, se esistessero, sarebbero “immobili” (le forme) potrebbero essere gli esseri primari, le cose “più reali”, e (ii) gli attributi delle cose esistono “separatamente” dalle cose di cui sono gli attributi. Questo contributo si occuperà della critica solo del punto (ii). Nella terminologia della Scolastica può essere posta nel seguente modo: Platone credeva erroneamente che gli universali esistessero ante res (prima degli oggetti); la visione corretta concepisce gli universali esistenti in rebus (negli oggetti). Nella misura in cui questo aspetto del problema degli universali — se gli universali esistono ante res o in rebus — è discusso a lungo nella Metafisica, si può sostenere con forza che il problema degli universali rientra nella vecchia concezione della metafisica. (E la questione se gli universali, assunta la loro esistenza, esistano ante res o in rebus è tanto controversa nel ventunesimo secolo quanto lo era nel tredicesimo secolo e nel quarto secolo a.C.). Quindi, se stabiliamo che il problema degli universali appartiene alla metafisica secondo la vecchia concezione, allora, applicando ad essa la regola contemporanea secondo cui la negazione di una posizione metafisica deve essere considerata come metafisica, dovremmo dire che la questione se gli universali esistano o meno è una questione metafisica secondo la vecchia concezione (liberalizzata in senso lato) e che il nominalismo è quindi una tesi metafisica.
Tuttavia, c’è anche un motivo per non classificare il problema degli universali come un problema di metafisica nel vecchio senso (liberalizzato). Il problema degli universali, infatti, non si limita alle questioni se gli universali esistono o se la loro esistenza è ante res o in rebus. Per esempio, tali questioni includono anche domande, non considerate nella Metafisica di Aristotele, sulla relazione tra gli universali (se esistono) e le cose che non sono universali, solitamente chiamate particolari. Quindi, si potrebbe plausibilmente sostenere che solo una parte del problema degli universali (la parte che riguarda l’esistenza e la natura degli universali) appartenga alla metafisica nel vecchio senso. Un tempo, un filosofo avrebbe potuto dire:
l’universale “caninità” è una cosa immutabile. Pertanto, le domande sulla sua natura appartengono alla metafisica, la scienza delle cose che non mutano. Ma i cani sono cose sottoposte al cambiamento. Quindi le questioni riguardanti la relazione dei cani con l’universale “caninità” non appartengono alla metafisica.
Ma nessun filosofo contemporaneo dividerebbe gli argomenti in questo modo — nemmeno se credesse che la “caninità” esiste e che è immutabile. Un filosofo contemporaneo, invece, — se ammette l’esistenza di una problematica che può propriamente essere chiamato “il problema degli universali” — vedrà tale problema come un problema propriamente detto, come avente quel tipo di unità interna che conduce i filosofi a parlare di un problema filosofico. Lo stesso punto vale per il tema “le categorie dell’essere”: ogni filosofo che sia disposto a dire che “Quali sono le categorie dell’essere?” è una domanda significativa, assegnerà ogni aspetto di questa domanda alla metafisica.
Consideriamo alcuni aspetti del problema degli universali che riguardano il cambiamento delle cose. (Cioè, che riguardano i particolari — perché anche se ci sono particolari che non cambiano, la maggior parte dei particolari che figurano come esempi nelle discussioni sul problema degli universali sono cose soggette al mutamento). Consideriamo due particolari “bianchi” — il Taj Mahal, e il Monumento a Washington. Supponiamo ora, che entrambi questi particolari siano bianchi in virtù del (cioè, il loro essere bianchi consiste nel) loro possedere una qualche relazione identificabile con l’universale “bianchezza”. Supponiamo inoltre che siamo in grado di individuare questa relazione attraverso una sorta di atto di attenzione intellettuale o di astrazione, e che (avendolo fatto) le abbiamo dato il nome di “ricadere in” (appartenere) . Tutte le cose bianche e solo le cose bianche ricadono nella bianchezza, e ricadere nella bianchezza è ciò che è l’essere bianco (sorvoliamo su molte questioni che dovrebbero essere affrontate se stessimo discutendo il problema degli universali per sé. Per esempio, sia il blu che il rosso sono proprietà cromatiche legate ad uno spettro, mentre il bianco non lo è. Questo fatto implica che “essere una proprietà cromatica legata ad uno spettro” è, come si potrebbe dire, un universale di secondo ordine? Se è così, la bluità “ricade in” questo universale nello stesso senso in cui una copia de Philosophical Studies ricade nella bluità?)
Ora cosa possiamo affermare di questa relazione, di questo “ricadere in”? Cosa c’è nei due oggetti “bianchezza” e Taj Mahal che è responsabile del fatto che il secondo ricade nel primo? Il Taj è forse un “insieme” di universalia ante res, e ricade nella bianchezza in virtù del fatto che la bianchezza è uno degli universali costituente dell’insieme in questione? O potrebbe essere che un particolare come il Taj, sebbene abbia effettivamente degli universali come costituenti, sia qualcosa di più dei suoi costituenti universali? Potrebbe essere che il Taj abbia un costituente che non è un universale, un “substrato”, un particolare che è in un certo senso senza proprietà e che tiene insieme i costituenti universali del Taj — che li “raggruppa”? (Se prendiamo questa posizione, allora potremmo dire con Armstrong (1989: 94-96), che il Taj è un “particolare spesso” e il suo substrato un “particolare sottile” — un particolare spesso è un particolare sottile preso insieme alle proprietà che raggruppa). O forse il Taj potrebbe avere costituenti che non sono né universali né substrati? Siamo forse stati troppo precipitosi nel definire i “particolari” come cose che non sono universali? Potrebbero forse esserci due tipi di non-universali, non-universali concreti o individui concreti (questi sarebbero i particolari, spessi o sottili), e non-universali astratti o individui astratti (“accidenti” o “tropi” o “istanze di proprietà”), cose che sono proprietà o qualità (e anche relazioni), cose come “la bianchezza (individuale) del Taj Mahal”? Il Taj è forse un insieme non di universali ma di accidenti? O è composto da un substrato e da un gruppo di accidenti? E non possiamo trascurare la possibilità che Aristotele avesse ragione e che gli universali esistano solo nelle cose. Se è così, dobbiamo chiederci quale sia la relazione tra la materia che compone un particolare e gli universali che vi ineriscono — che ineriscono simultaneamente a “questa” materia e a “quella” materia.
La serie di domande che è stata esposta nel paragrafo precedente è stata introdotta osservando che il problema degli universali include sia domande sull’esistenza e la natura degli universali, sia domande su come gli universali sono in relazione con i particolari che vi rientrano. Molte delle teorie a cui si alludeva in quella serie di domande potrebbero essere descritte come teorie della “struttura ontologica” dei non-universali. Possiamo ora contrapporre la struttura ontologica alla struttura mereologica. Una domanda filosofica che riguarda la struttura mereologica di un oggetto è tale se riflette sulla relazione tra quell’oggetto e i suoi costituenti che appartengono alla stessa categoria ontologica dell’oggetto. Per esempio, il filosofo che chiede se il Taj Mahal ha essenzialmente o solo accidentalmente un certo blocco di marmo tra i suoi costituenti, sta facendo una domanda sulla sua struttura mereologica, poiché il blocco e l’edificio appartengono alla stessa categoria ontologica. Ma il filosofo che chiede se il Taj possiede la “bianchezza” come costituente e il filosofo che suppone che il Taj abbia questa proprietà-costituente e chiede “Quale è la natura di questa relazione “costituente di” che la “bianchezza” porta al Taj?” stanno facendo domande sulla sua struttura ontologica.
Molti filosofi hanno supposto che i particolari ricadano negli universali incorporandoli in qualche modo nella loro struttura ontologica. Altri hanno supposto che la struttura ontologica di un particolare incorpori proprietà individuali o accidenti — e che un accidente di un certo particolare è tale solo in virtù dell’essere un costituente di quel particolare.
I sostenitori dell’esistenza di universali ante res, e in particolare quelli che negano che questi universali siano costituenti di particolari, tendono a supporre che gli universali abbondino — che non ci sia solo un universale come la bianchezza ma un universale come “essere sia bianco che rotondo e sia lucido o non fatto d’argento”. I sostenitori di altre teorie degli universali sono quasi sempre meno liberali nella gamma di universali di cui ammettono l’esistenza. È improbabile che il sostenitore degli universali in rebus conceda l’esistenza di “essere sia bianco e rotondo e sia lucido o non fatto d’argento”, anche nel caso in cui ci sia un oggetto che è sia bianco e rotondo e sia lucido o non fatto d’argento (come una palla di plastica bianca non lucida).
I due temi “le categorie dell’essere” e “la struttura ontologica degli oggetti” sono intimamente legati tra loro e al problema degli universali tanto che non è possibile proporre una soluzione al problema degli universali che non abbia implicazioni per il tema “le categorie dell’essere”. (Anche il nominalismo implica che almeno un candidato popolare alla funzione di “categoria ontologica” sia inesistente o vuoto). È certamente possibile sostenere che ci sono categorie ontologiche che non sono direttamente collegate al problema degli universali (“proposizione”, “stato di cose”, “evento”, “mero possibile”), ma qualsiasi filosofo che sostenga questo affermerà comunque che se ci sono universali essi costituiscono almeno una delle sotto-categorie ontologiche superiori. E sembra che sia possibile parlare di struttura ontologica solo se si suppone che ci siano oggetti di diverse categorie ontologiche. Quindi, qualunque oggetto sia compreso dalla metafisica, deve includere ogni aspetto del problema degli universali e ogni aspetto delle questioni legate a “le categorie dell’essere” e “la struttura ontologica degli oggetti”. Per un’indagine recente dei problemi che sono stati discussi in questa sezione, si veda Lowe (2006).
Passiamo ora ad un argomento che a rigore appartiene alle “categorie dell’essere”, ma che è abbastanza importante da essere trattato separatamente.
2.3 La Sostanza
Alcune cose (se effettivamente esistono) sono presenti solo “in” altre cose: un sorriso, un taglio di capelli (il prodotto, non il processo), un buco …. Tali cose possono essere contrapposte alle cose che esistono “in sé” che i metafisici chiamano “sostanze”. Per Aristotele, chiamate “protai ousiai” o “sostanze prime”, costituiscono la più importante delle sue categorie ontologiche. Diverse caratteristiche definiscono le protai ousiai: sono soggetti di predicazione che non possono essere predicati degli enti (non sono universali); le cose esistono “in” loro, ma non esistono “nelle” cose (non sono accidenti come la saggezza di Socrate o il suo sorriso ironico); hanno identità determinate (essenze). Quest’ultima caratteristica potrebbe essere riletta in termini contemporanei come segue: se la prote ousia xesiste in un certo momento e la prote ousia y esiste in qualche altro momento, allora ha senso chiedere se x e y sono gli stessi, sono numericamente identici (e la domanda deve avere una risposta determinata); e la domanda se una data prote ousia possa esistere in un certo insieme di circostanze controfattuali deve ugualmente avere una risposta (almeno se le circostanze sono sufficientemente determinate — se, per esempio, costituiscono un mondo possibile. Approfondimenti a riguardo nella prossima sezione). È difficile supporre che i sorrisi o i buchi abbiano questo tipo di identità determinata. Chiedere se il sorriso che Socrate ha fatto oggi è il sorriso che ha fatto ieri (o è il sorriso che avrebbe fatto se Critone avesse posto una delle sue affascinanti domande ingenue) può essere solo una domanda sull’identità descrittiva.
Aristotele usa “(prote) ousia” non solo come sostantivo numerabile ma anche come sostantivo non numerabile. (Generalmente scrive “ousia” senza qualificazione quando crede che il contesto sia chiaro nel riferirsi a “prote ousia”). Per esempio, non solo pone domande come “Socrate è una (prote) ousia?” e “Cos’è una (prote) ousia?”, ma domande come “Qual è la (prote) ousia di Socrate?” e “Cos’è la (prote) ousia?”. (Dato che non esiste l’articolo indeterminativo in greco, il significato della domanda deve essere a volte dedotto dal contesto). Nel senso numerabile del termine, Aristotele identifica almeno alcune (protai) ousiai con ta hupokeimena o “cose sottostanti”. Socrate, per esempio, è un hupokeimenon in quanto “sta sotto” gli universali in rebus sotto i quali cade e gli accidenti che a lui ineriscono. “To hupokeimenon” ha un equivalente approssimativo nel latino “substantia”, “ciò che sta sotto”. (Apparentemente, “stare sotto” e “giacere sotto” sono descrizioni metaforiche altrettanto buone delle relazioni che una cosa ha con le sue qualità e i suoi accidenti). Quindi, sia a causa della stretta associazione di (protai) ousiai e hupokeimena nella filosofia di Aristotele, sia per l’assenza di un adeguato equivalente latino di “ousia”, “substantia” divenne la traduzione latina abituale del sostantivo quantitativo “(prote) ousia”.
La questione se esistono di fatto delle sostanze continua ad essere un nodo centrale della metafisica a cui se ne aggiungono altre correlate: come dovrebbe essere inteso il concetto di sostanza?; quali degli oggetti (se esistono) tra quelli che incontriamo nella vita quotidiana sono sostanze?; se esistono effettivamente sostanze, quante ve ne sono? — ce n’è solo una come sosteneva Spinoza, o ce ne sono molte come supponeva la maggior parte dei razionalisti?; quali tipi di sostanze ci sono? — ci sono sostanze immateriali, sostanze eterne, sostanze necessariamente esistenti?
Bisogna sottolineare che non esiste una definizione universalmente accettata e precisa di “sostanza”. A seconda di come si intende la parola (o il concetto) si potrebbe dire che Hume negava l’esistenza di qualsiasi sostanza o che riteneva che le uniche sostanze (o le uniche di cui abbiamo conoscenza) fossero le impressioni e le idee. Sembrerebbe, tuttavia, che la maggior parte dei filosofi che sono disposti a usare la parola “sostanza” negherebbe che una qualsiasi delle seguenti (se esistono) siano sostanze:
- Universali e altri oggetti astratti. (Va notato che Aristotele criticò Platone per aver supposto che i protai ousiai fossero universali ante res).
- Eventi, processi o cambiamenti. (Ma alcuni metafisici sostengono che sostanza/evento sia una falsa dicotomia).
- Cose, come la carne o il ferro o il burro. (Sfortunatamente per gli studenti principianti di metafisica, il significato usuale di “sostanza” al di fuori della filosofia è “cose”. Aristotele criticava “i filosofi naturali” per aver supposto che la prote ousia potesse essere una cosa — acqua o aria o fuoco o materia).
La natura dell’essere, il problema degli universali e la natura della sostanza sono stati riconosciuti come argomenti che appartengono alla “metafisica” da quasi tutti coloro che hanno usato questa parola. Passiamo ora ad argomenti che appartengono alla metafisica solo nel senso post-medievale.
3. I problemi della metafisica: la “nuova” metafisica
3.1 La modalità
I filosofi hanno da tempo riconosciuto che esiste un’importante distinzione all’interno della classe delle proposizioni vere: la distinzione tra le proposizioni che avrebbero potuto essere false e quelle che non avrebbero potuto essere false (quelle che devono essere vere). Si confronti, per esempio, la proposizione che Parigi è la capitale della Francia e la proposizione che c’è un numero primo tra ogni numero maggiore di 1 e il suo doppio. Entrambe sono vere, ma la prima avrebbe potuto essere falsa e la seconda non avrebbe potuto essere falsa. Allo stesso modo, c’è una distinzione all’interno della classe delle proposizioni false: tra quelle che avrebbero potuto essere vere e quelle che non avrebbero potuto essere vere (quelle che dovevano essere false).
Alcuni filosofi medievali supponevano che il fatto che le proposizioni vere sono dei due tipi “necessariamente vere” e “contingentemente vere” (e lo stesso dicasi per le proposizioni false) ha mostrato che c’erano due “modi” in cui una proposizione poteva essere vera (o falsa): il modo della contingenza e il modo della necessità — da cui il termine “modalità”. I filosofi odierni conservano il termine medievale “modalità”, ma ora non significa altro che “attinente alla possibilità e alla necessità”. I tipi di modalità che interessano i metafisici si dividono in due campi: modalità de re e modalità de dicto.
La modalità de dicto è la modalità delle proposizioni (“dictum” significa approssimativamente proposizione). Se la modalità fosse coestensiva con la modalità de dicto, sarebbe almeno una posizione difendibile che il tema della modalità appartiene alla logica piuttosto che alla metafisica. (Infatti, lo studio delle logiche modali risale agli Analitici Primi di Aristotele).
Ma molti filosofi pensano anche che ci sia un secondo tipo di modalità, la modalità de re — la modalità delle cose (la modalità delle sostanze, certamente, e forse delle cose in altre categorie ontologiche). Lo status della modalità de re è innegabilmente un argomento metafisico, e lo assegniamo alla “nuova” metafisica perché, sebbene si possano porre domande modali sulle cose che non cambiano — Dio, per esempio, o gli universali — gran parte del lavoro che è stato fatto in questo campo riguarda le caratteristiche modali delle cose mutevoli.
Ci sono due tipi di modalità de re. La prima riguarda l’esistenza delle cose — e.g. degli esseri umani. Se Sally, un normale essere umano, dice: “potrei non essere esistita”, quasi tutti la prenderanno per una verità ovvia. E se ciò che ha detto è effettivamente vero, allora lei esiste contingentemente, i.e. è un essere contingente, un essere che potrebbe non essere esistito. Un essere necessario, al contrario, è un essere di cui è falso che potrebbe non essere esistito. La questione se gli oggetti siano esseri necessari è un importante nodo della metafisica modale. Alcuni filosofi sono arrivati a sostenere che tutti gli oggetti sono esseri necessari, poiché l’esistenza necessaria è una verità della logica in quella che sembra essere la migliore logica modale quantificata. (Vedi Barcan 1946 per la prima connessione moderna tra esistenza necessaria e logica modale quantificata. Barcan non ha tratto alcuna conclusione metafisica dai suoi risultati logici, ma autori successivi, come Williamson 2013, sì).
Il secondo tipo di modalità de re riguarda le proprietà delle cose. Come l’esistenza delle cose, il possesso di proprietà da parte delle cose è soggetto a qualificazione modale. Se Sally, che parla inglese, dice: “avrei potuto parlare solo francese”, quasi tutti prenderanno questa affermazione non meno vera della sua affermazione che potrebbe non essere esistita. E se ciò che ha detto è effettivamente vero, allora “parlare inglese” è una proprietà che ha solo contingentemente o (parola più comune) solo accidentalmente. Inoltre, ci possono essere proprietà che alcuni oggetti hanno essenzialmente. Una cosa ha una proprietà essenzialmente se non potrebbe esistere senza avere quella proprietà. Gli esempi di proprietà essenziali tendono ad essere controversi, in gran parte perché gli esempi più plausibili del fatto che un certo oggetto possieda una proprietà essenzialmente sono plausibili quanto la tesi che quell’oggetto possiede effettivamente quelle proprietà. Per esempio, se Sally è un oggetto fisico, come suppongono i fisicalisti, allora è molto plausibile per loro supporre inoltre che sia essenzialmente un oggetto fisico — ma è controverso se abbiano ragione a supporre che sia un oggetto fisico. E, naturalmente, la stessa cosa può essere detta, mutatis mutandis, riguardo ai dualisti e alla proprietà di essere un oggetto non-fisico. Sembrerebbe, comunque, che Sally sia o essenzialmente un oggetto fisico o essenzialmente un oggetto non-fisico. E molti trovano plausibile supporre che (fisica o non-fisica) abbia essenzialmente la proprietà di “non essere un uovo in camicia”.
Il più abile e influente nemico della modalità (sia de dicto che de re) è stato W. V. Quine, che ha difeso vigorosamente le seguenti tesi. In primo luogo, la modalità de dicto può essere compresa solo in termini di concetto di analiticità (un concetto problematico, a suo avviso). In secondo luogo, che la modalità de re non può essere compresa in termini di analiticità e quindi non può essere compresa affatto. Quine ha argomentato quest’ultima affermazione proponendo quelli che riteneva controesempi decisivi alle teorie che considerano l’essenzialità come significativa. Se la modalità de re ha un senso, sostiene Quine (1960: 199-200), i ciclisti devono essere considerati essenzialmente bipedi — perché “i ciclisti sono bipedi” sarebbe considerata una frase analitica da coloro che credono nell’analiticità. Ma i matematici sono solo accidentalmente bipedi (“i matematici sono bipedi” non è analitico per nessuno). Che cosa succede allora, si chiede Quine, a qualcuno che è sia un matematico che un ciclista? Quella persona sembra sia essenzialmente sia solo accidentalmente bipede. Poiché questo è incoerente, Quine pensava che la modalità de re fosse incoerente.
Tuttavia, la maggior parte dei filosofi sono ora convinti che l’argomento del “ciclista matematico” di Quine sia stato adeguatamente risolto da Saul Kripke (1972), Alvin Plantinga (1974) e vari altri difensori della modalità de re. Le difese della modalità di Kripke e Plantinga sono fondamentalmente metafisiche (eccetto nella misura in cui affrontano direttamente l’argomento linguistico di Quine). Entrambi fanno ampio uso del concetto di mondo possibile nel difendere l’intelligibilità della modalità (sia de re che de dicto). Leibniz è stato il primo filosofo a usare “mondo possibile” come termine filosofico, ma l’uso che ne fanno Kripke e Plantinga è diverso. Per Leibniz, un mondo possibile era una creazione possibile: l’atto di creazione di Dio consiste nella sua scelta di un mondo possibile tra molti per essere l’unico mondo che egli crea — il mondo “attuale”. Per Kripke e Plantinga, invece, un mondo possibile è un possibile “insieme della realtà”. Per Leibniz, Dio e le sue azioni “stanno fuori” da tutti i mondi possibili. Per Kripke e Plantinga, nessun essere, nemmeno Dio, può stare fuori dall’intero sistema dei mondi possibili. Un mondo Kripke-Plantinga (KP) è un oggetto astratto di qualche tipo. Supponiamo che un mondo KP sia un possibile stato di cose (questa è l’idea di Plantinga; Kripke non dice nulla di così definito). Consideriamo un qualsiasi stato di cose; diciamo che Parigi è la capitale della Francia. Questo stato di cose sussiste, perché Parigi è la capitale della Francia. Invece Tours è la capitale della Francia no. Quest’ultimo stato di cose esiste, perché c’è un tale stato di cose. (L’esistere sta agli stati di cose come la verità sta alle proposizioni: anche se la proposizione che Tours è la capitale della Francia non è vera, esiste tuttavia una tale proposizione). Si dice che lo stato di cose x include lo stato di cose y se è impossibile che x esista e che y non esista. Se è impossibile che esistano sia x che y, allora ognuno preclude l’altro. Un mondo possibile è semplicemente un possibile stato di cose che, per ogni stato di cose x, include o preclude x; il mondo attuale è l’unico stato di cose che esiste.
Usando la teoria KP possiamo rispondere alla sfida di Quine come segue. In ogni mondo possibile, ogni ciclista in quel mondo è bipede in quel mondo. (Supponendo con Quine che necessariamente i ciclisti siano bipedi. Apparentemente non aveva previsto le biciclette adattive). Tuttavia, per ogni particolare ciclista, c’è qualche mondo possibile in cui lui (la stessa persona) non è bipede. Una volta fatta questa distinzione, possiamo vedere che l’argomento di Quine non è valido. Più in generale, nella teoria KP, le tesi sulle proprietà essenziali non hanno bisogno di essere analitiche; sono significative perché esprimono affermazioni sulle proprietà di un oggetto in vari mondi possibili.
Possiamo anche usare la nozione di mondi possibili per definire molti altri concetti modali. Per esempio, una proposizione necessariamente vera è una proposizione che sarebbe vera indipendentemente da quale mondo possibile fosse attuale. Socrate è un essere contingente se c’è qualche mondo possibile tale che egli non esisterebbe se quel mondo fosse attuale, ed egli ha la proprietà “essere umano” essenzialmente se ogni mondo possibile che include la sua esistenza include anche il suo essere umano. Kripke e Plantinga hanno notevolmente aumentato la chiarezza del discorso modale (e in particolare del discorso modale de re), ma a costo di introdurre un’ontologia modale, un’ontologia dei mondi possibili.
La loro non è l’unica ontologia modale offerta. La principale alternativa alla teoria KP è stata il “realismo modale” sostenuto da David Lewis (1986) che fa appello a oggetti chiamati mondi possibili, ma questi “mondi” sono oggetti concreti. Quello che chiamiamo mondo reale è uno di questi oggetti concreti, l’universo spazio-temporalmente connesso che abitiamo. Quelli che chiamiamo mondi “non-attuali” sono altri universi concreti che sono isolati spazio-temporalmente dal nostro (e gli uni dagli altri). Esiste, quindi, una vasta gamma di mondi non-attuali contenente almeno quei mondi che sono generati da un ingegnoso principio di ricombinazione, un principio che può essere affermato senza l’uso del linguaggio modale (1986: 87). Per Lewis, inoltre, “attuale” è un termine indessicale: quando parlo del mondo attuale, mi riferisco al mondo di cui sono un abitante — e così per ogni parlante che è “in” (che è parte di) qualsiasi mondo.
Per quanto riguarda la modalità de dicto, la teoria di Lewis procede in un modo che è almeno parallelo alla teoria KP: ci potrebbero essere maiali volanti se ci sono maiali volanti in qualche mondo possibile (se qualche mondo ha maiali volanti come parti). Ma il caso è diverso con la modalità de re. Poiché ogni oggetto ordinario si trova solo in uno dei mondi concreti, Lewis o deve dire che ogni oggetto ha essenzialmente tutte le sue proprietà o adottare un trattamento della modalità de re che non sia parallelo al trattamento KP. Egli sceglie quest’ultima alternativa. Sebbene Socrate sia solo nel mondo attuale, sostiene Lewis, egli ha delle “controparti” in alcuni altri mondi, oggetti che in quei mondi svolgono il ruolo che egli svolge in questo mondo. Se tutte le controparti di Socrate sono umane, allora possiamo dire che egli è essenzialmente umano. Se una delle controparti di Hubert Humphrey ha vinto (la controparte di) le elezioni presidenziali del 1968, è corretto dire di Humphrey che avrebbe potuto vincere quelle elezioni.
Oltre all’ovvio e netto contrasto ontologico tra le due teorie, esse differiscono in due modi importanti nelle loro implicazioni per la filosofia della modalità. In primo luogo, se Lewis ha ragione, allora i concetti modali possono essere definiti in termini di concetti paradigmaticamente non-modali, poiché “mondo” e tutti gli altri termini tecnici di Lewis possono essere definiti usando solo “è spazio-temporalmente legato a”, “è una parte di” e il vocabolario della teoria degli insiemi. Per Kripke e Plantinga, tuttavia, i concetti modali sono sui generis, indefinibili o che hanno solo definizioni che fanno appello ad altri concetti modali. In secondo luogo, la teoria di Lewis implica una sorta di anti-realismo riguardo alla modalità de re. Questo perché non c’è una sola relazione che sia la relazione di controparte — ci sono piuttosto vari modi o aspetti in cui si potrebbe dire che gli oggetti in due mondi “svolgono lo stesso ruolo” nei loro rispettivi mondi. Socrate, quindi, può benissimo avere controparti non umane sotto una relazione di controparte e nessuna controparte non umana sotto un’altra. E la scelta di una relazione di controparte è una scelta pragmatica o relativa all’interesse. Ma per la teoria KP, è una questione interamente oggettiva se Socrate non riesce ad essere umano in qualche mondo in cui esiste: la risposta deve essere Sì o No ed è indipendente dalle scelte e dagli interessi umani.
Qualunque cosa si possa pensare di queste teorie quando le si considerano di per sé (come teorie della modalità, come teorie con vari, forse discutibili, impegni ontologici) si deve ammettere che sono teorie propriamente metafisiche. Esse testimoniano la rinascita della metafisica nella filosofia analitica nell’ultimo terzo del ventesimo secolo.
3.2 Spazio e tempo
Molto prima che la teoria della relatività rappresentasse lo spazio e il tempo come aspetti o astrazioni di una singola entità, lo spazio-tempo, i filosofi concepivano lo spazio e il tempo come intimamente correlati. (Uno sguardo a qualsiasi dizionario di citazioni suggerisce che l’accoppiamento filosofico di spazio e tempo riflette una tendenza naturale, pre-filosofica: “se solo avessimo abbastanza mondo e tempo…”; “abitanti tutti nel tempo e nello spazio”). Kant, per esempio, ha trattato lo spazio e il tempo nella sua Estetica Trascendentale come cose che dovrebbero essere spiegate da una singola teoria unificata. La sua teoria dello spazio e del tempo, per quanto rivoluzionaria possa essere stata sotto altri aspetti, era in questo senso tipica dei resoconti filosofici dello spazio e del tempo. Qualunque sia l’origine della convinzione che lo spazio e il tempo siano due membri di una “specie” (e gli unici due membri di quella specie), essi sollevano certamente questioni filosofiche simili. Come si può chiedere se lo spazio si estende all’infinito in ogni direzione, così si può chiedere se il tempo si estende all’infinito in una delle due “direzioni” temporali. Proprio come ci si può chiedere se, se lo spazio è finito, ha una “fine” (se è delimitato o non delimitato), ci si può chiedere del tempo se, se è finito, ha avuto un inizio o avrà una fine o se potrebbe non avere nessuno dei due, ma piuttosto essere “circolare” (essere finito ma non delimitato). Allo stesso modo ci si può chiedere se possono esistere due oggetti estesi che non siano spazialmente correlati l’uno all’altro oppure ci si può chiedere se possono esistere due eventi che non siano temporalmente correlati l’uno all’altro. Ci si può chiedere infine se lo spazio sia (a) una cosa reale — una sostanza — una cosa che esiste indipendentemente dai suoi abitanti, o (b) un semplice sistema di relazioni tra questi abitanti. E si può fare la stessa domanda sul tempo.
Ma ci sono anche domande sul tempo che non hanno analoghi spaziali — o almeno non hanno analoghi ovvi e incontrovertibili. Ci sono, per esempio, domande sui motivi di varie asimmetrie tra il passato e il futuro — perché la nostra conoscenza del passato è migliore della nostra conoscenza del futuro?; perché consideriamo un evento spiacevole che sta per accadere in modo diverso da come consideriamo un evento spiacevole che è accaduto di recente?; perché la causalità sembra avere una direzione temporale privilegiata? Non sembrano esserci asimmetrie oggettive come queste nel caso dello spazio.
C’è anche la questione del passaggio temporale — la questione se l’apparente “movimento” del tempo (o il movimento apparente di noi stessi e degli oggetti della nostra esperienza attraverso o nel tempo) sia una caratteristica reale del mondo o una sorta di illusione. In un modo di pensare il tempo, c’è una direzione temporale privilegiata che segna la differenza tra passato, presente e futuro. Gli A-teorici, sostenendo che il tempo è fondamentalmente strutturato in termini di una distinzione passato/presente/futuro, affermano che il passaggio temporale sia il continuo cambiamento dal passato al presente al futuro. (Il nome “A-teorico” discende dalla nominazione di J.M.E. McTaggart (1908) per la sequenza passato/presente/futuro che chiamò la “A-serie”). All’interno della teoria A, potremmo anche chiederci se il passato e il futuro abbiano lo “stesso tipo di realtà” del presente. Gli A-teorici presentisti, come Prior 1998, negano che il passato o il futuro abbiano una realtà concreta. Infatti, i presentisti tipicamente pensano al passato e al futuro come, nel migliore dei casi, simili a mondi possibili astratti — il modo in cui il mondo era o sarà, proprio come i mondi possibili sono modi in cui il mondo attuale potrebbe essere. Altri A-teorici, come Sullivan (2012), ritengono che il presente sia metafisicamente privilegiato ma negano che ci sia una qualsiasi differenza ontologica tra passato, presente e futuro. Più in generale, gli A-teorici spesso incorporano strategie della metafisica modale nelle loro teorie sulla relazione del passato e del futuro con il presente.
Secondo le teorie del tempo di tipo B, l’unica distinzione fondamentale che dovremmo fare è che alcuni eventi e tempi sono precedenti o successivi rispetto ad altri. (Queste relazioni sono chiamate “B-relazioni”, anche questo un termine derivato da McTaggart). Secondo i B-teorici, non esiste un passaggio oggettivo del tempo, o almeno non nel senso del tempo che passa dal futuro al presente e dal presente al passato. I B-teorici sostengono invece che tutti i tempi passati e futuri sono reali nello stesso senso in cui è reale il tempo presente —presente che non è in nessun senso metafisicamente privilegiato.
È anche vero, e meno spesso sottolineato, che lo spazio solleva questioni filosofiche che non hanno analoghi temporali — o almeno non hanno analoghi ovvi e incontrovertibili. Perché, per esempio, lo spazio ha tre dimensioni e non quattro o sette? In apparenza, il tempo è essenzialmente unidimensionale e lo spazio non è essenzialmente tridimensionale. Sembra anche che i problemi metafisici sullo spazio che non hanno analoghi temporali dipendano dal fatto che lo spazio, a differenza del tempo, abbia più di una dimensione. Per esempio, consideriamo il problema delle controparti incongruenti: coloro che pensano che lo spazio sia un mero sistema di relazioni fanno fatica a spiegare la nostra intuizione di poter distinguere un mondo contenente solo una mano sinistra da un mondo contenente solo una mano destra. Quindi sembra che ci sia un orientamento intuitivo agli oggetti nello spazio stesso. È meno chiaro invece se i problemi sul tempo che non hanno analoghi spaziali siano collegati alla mono-dimensionalità del tempo.
Infine, ci si può chiedere se lo spazio e il tempo siano effettivamente reali — e, se lo sono, in che misura (per così dire) lo sono. Potrebbe essere che lo spazio e il tempo non siano costituenti della realtà come percepita da Dio, ma ciononostante siano “fenomeni ben fondati” (come sosteneva Leibniz)? Aveva ragione Kant quando negava le caratteristiche spaziali e temporali alle “cose come sono in se stesse” — e aveva ragione a sostenere che lo spazio e il tempo sono “forme della nostra intuizione”? O la posizione di McTaggart era quella giusta: che lo spazio e il tempo sono del tutto irreali?
Se questi problemi sullo spazio e sul tempo appartengono alla metafisica solo nel senso post-medievale, sono tuttavia strettamente legati alle questioni sulle cause prime e sugli universali. Le cause prime sono generalmente pensate da coloro che credono in esse come eterne e non locali. Dio, per esempio — sia il Dio impersonale di Aristotele che il Dio personale della filosofia medievale cristiana, ebraica e musulmana — è generalmente detto essere eterno, e il Dio personale è detto essere onnipresente. Dire che Dio è eterno significa dire o che è eterno o che è in qualche modo fuori dal tempo. E ciò solleva la questione metafisica se sia possibile che ci sia un essere — non un universale o un oggetto astratto di qualche altro tipo, ma una sostanza attiva — che sia eterno o non temporale. Un essere onnipresente è un essere che non occupa nessuna regione dello spazio (nemmeno tutta, come farebbe l’etere luminifero della fisica del XIX secolo se esistesse), e la cui influenza causale è tuttavia ugualmente presente in ogni regione dello spazio (a differenza degli universali, ai quali il concetto di causalità non si applica). La dottrina dell’onnipresenza divina solleva la questione metafisica se sia possibile che esista un essere con questa caratteristica. Gli universali ante res, secondo alcuni dei loro sostenitori, (precisamente coloro che negano che gli universali siano costituenti di particolari) non hanno che relazioni “vicarie” con lo spazio e il tempo: l’universale ante res “bianchezza” può essere detto presente dove si trova ogni particolare bianco, ma solo in modo analogo a quello in cui il numero due è presente dove si trova ogni coppia di cose spaziali. Ma è dubbio che questa sia una posizione possibile per un metafisico che afferma che una cosa bianca è un insieme composto da bianchezza e vari altri universali. Coloro che credono nell’esistenza di universali in rebus amano dire, o lo hanno fatto negli ultimi anni, che questi universali (“universali immanenti” è un nome attualmente popolare) sono “situati in modo multiplo” — “interamente presenti” in ogni luogo in cui sono presenti le cose che vi ricadono. E con questo non intendono certo dire che la bianchezza è presente in molte regioni diverse dello spazio solo in modo vicario, proprio come si potrebbe dire che un numero è presente ovunque ci siano cose in quel numero, soltanto perché è nella relazione non spaziale “essere avuto da” con una moltitudine di particolari, ognuno dei quali è presente in una singola regione dello spazio. Tutte le teorie degli universali, quindi, sollevano questioni su come le cose in varie categorie ontologiche sono legate allo spazio. E tutte queste domande hanno analoghi temporali.
3.3 Persistenza e costituzione
In correlazione alle domande sulla natura dello spazio e del tempo troviamo le questioni sulla natura degli oggetti che occupano lo spazio o persistono nel tempo, domande che formano un altro tema centrale della metafisica post-medievale. Alcuni o tutti gli oggetti sono composti da parti proprie? Un oggetto deve avere parti proprie per “riempire” una regione di spazio — o ci sono dei semplici estesi? Più di un oggetto può essere situato esattamente nella stessa regione? Gli oggetti persistono attraverso il cambiamento avendo parti temporali?
Molto lavoro sulla persistenza e la costituzione si è concentrato sugli sforzi per affrontare una famiglia di enigmi strettamente collegati: gli enigmi della coincidenza. Uno di questi è il “problema della statua e del blocco”. Si consideri una statua d’oro. Molti metafisici sostengono che c’è almeno un oggetto materiale che è spazialmente coestensivo con la statua, un blocco d’oro. Questo è facilmente mostrato, dicono, da un appello alla legge di Leibniz (il principio della non-identità dei discernibili). Qui c’è una statua e qui c’è un blocco d’oro, e — se la storia causale della venuta all’essere della statua è del tipo usuale — il blocco d’oro esisteva prima della statua. E anche se Dio ha creato la statua (e a fortiori il grumo) ex nihilo e ad un certo punto annienterà la statua (e quindi annienterà il blocco), essi sostengono inoltre, che la statua e il blocco, sebbene esistano esattamente nello stesso momento, godono di proprietà modali diverse: il blocco ha la proprietà “può sopravvivere alla deformazione radicale” e la statua no. O così concludono questi metafisici. Ma ad altri metafisici è sembrato che questa conclusione sia assurda, perché è assurdo supporre che ci possano essere oggetti fisici spazialmente coincidenti che condividono tutte le loro proprietà non-modali momentanee. Da qui, il problema: qual è, se esiste, il difetto nell’argomento della non-identità della statua e del blocco?
Un secondo rompicapo di questa famiglia è il “problema di Tib e Tibbles”. Tibbles è un gatto la cui coda chiamiamo “Coda”. Tutto il resto tranne la coda chiamiamo “Tib”. Supponiamo che la coda sia tagliata o, meglio, annientata. Tibbles esiste ancora, perché un gatto può sopravvivere alla perdita della coda. E sembrerebbe che Tib esista anche dopo la “perdita” di Coda, perché Tib non ha perso nessuna parte. Ma quale sarà la relazione tra Tib e Tibbles? Può essere l’identità? No, questo è escluso dalla non-identità dei discernibili, perché Tibbles sarà diventato più piccolo e Tib rimarrà della stessa dimensione. Ma allora, ancora una volta, sembra che abbiamo un caso di oggetti materiali spazialmente coincidenti che condividono le loro proprietà momentanee non-modali.
Entrambi questi problemi di costituzione riguardano questioni sull’identità di oggetti spazialmente coincidenti e, in effetti, di oggetti che condividono tutte le loro parti (proprie). (Un terzo famoso problema di costituzione materiale — il problema della Nave di Teseo — solleva questioni di tipo diverso). Alcuni metafisici sostengono che la relazione tra il blocco e la statua, da un lato, e la relazione tra Tib e Tibbles, dall’altro, non possono essere pienamente comprese in termini di concetti di “partità” e (non-)identità, ma richiedono un ulteriore concetto, un concetto non mereologico, il concetto di “costituzione”: il blocco preesistente ad un certo punto nel tempo viene a costituire la statua (o una certa quantità di oro o certi atomi di oro che prima costituivano solo il grumo vengono a costituirli entrambi); Tib preesistente ad un certo punto nel tempo viene a costituire Tibbles (o una certa carne di gatto o certe molecole…). (Baker 2000 difende questa tesi). Altri sostengono che tutte le relazioni tra gli oggetti che figurano in entrambi i problemi possono essere pienamente analizzate in termini di “partità” e identità. Per una panoramica più approfondita delle soluzioni a questi enigmi e delle diverse teorie della costituzione in gioco, si veda Rea (a cura di) 1997 e Thomson 1998.
3.4 Causazione, libertà e determinismo
Le domande sulla causalità formano una quarta importante categoria di questioni nella “nuova” metafisica. Naturalmente, la discussione sulle cause risale alla filosofia antica, con un ruolo di primo piano nella Metafisica e nella Fisica di Aristotele. Ma Aristotele intendeva “causa” in un senso molto più ampio di quanto intendiamo oggi: una “causa” o “aiton” è una condizione esplicativa di un oggetto — una risposta a una domanda sul “perché” dell’oggetto. Aristotele classifica quattro condizioni esplicative di questo tipo: la forma di un oggetto, la materia, la causa efficiente e la teleologia. La causa efficiente di un oggetto è la causa che spiega il cambiamento o il movimento in un oggetto. Con l’ascesa della fisica moderna nel diciassettesimo secolo, l’interesse per le relazioni causali efficienti divenne acuto, e lo è ancora oggi: quando, per esempio, i filosofi contemporanei discutono di problemi di causalità, tipicamente intendono questo senso.
Un problema importante nella metafisica della causalità riguarda la specificazione dei relata delle relazioni causali. Consideriamo un’affermazione banale: un iceberg ha causato l’affondamento del Titanic. La relazione causale è valida tra due eventi, l’evento della nave che colpisce l’iceberg e l’evento della nave che affonda? O vale tra due insiemi di stati di cose? O tra due sostanze, l’iceberg e la nave? Le relazioni causali devono essere triadiche o altrimenti poliadiche? Per esempio, si potrebbe pensare che siamo sempre tenuti a qualificare un’affermazione causale: l’iceberg, piuttosto che la negligenza del capitano, era causalmente responsabile del naufragio della nave. E le assenze possono essere presenti nelle relazioni causali? Per esempio, ha senso sostenere che la mancanza di scialuppe di salvataggio sia stata la causa della morte di un passeggero di terza classe?
Potremmo anche chiederci se le relazioni causali siano caratteristiche oggettive e irriducibili della realtà. Hume notoriamente ne dubitava, teorizzando che le nostre osservazioni sulla causalità non fossero altro che osservazioni di una congiunzione costante. Per esempio, forse pensiamo che gli iceberg facciano affondare le navi solo perché osserviamo sempre eventi di affondamento di navi che si verificano dopo eventi di contatto con iceberg e non perché ci sia una vera relazione causale tra gli iceberg e le navi che affondano.
I metafisici contemporanei sono stati attratti da altri tipi di trattamenti riduttivi della causalità. Alcuni, come Stalnaker e Lewis, hanno sostenuto che le relazioni causali dovrebbero essere comprese in termini di dipendenze controfattuali (Stalnaker 1968 e Lewis 1973). Per esempio, l’impatto di un iceberg sulla nave ha causato il suo affondamento al tempo t se e solo se nei mondi possibili più vicini in cui l’iceberg non ha colpito la nave al tempo t, la nave non è affondata. Altri hanno sostenuto che le relazioni causali dovrebbero essere comprese in termini di istanziazioni di leggi di natura. (Davidson (1967) e Armstrong (1997) difendono entrambi questa tesi, sebbene in modi diversi). Tutte queste teorie ampliano un’idea del Trattato di Hume perché tentano di ridurre la causalità a categorie diverse o più fondamentali. (Per una rassegna più completa delle recenti teorie della causalità, si veda Paul e Hall 2013).
I dibattiti sulla causalità e sulle leggi della natura danno inoltre origine a una serie correlata di questioni filosofiche pressanti: le domande sulla libertà. Nel diciassettesimo secolo, la meccanica celeste ha dato ai filosofi una certa immagine di un modo in cui il mondo potrebbe essere: potrebbe essere un mondo i cui stati futuri sono interamente determinati dal passato e dalle leggi della natura (di cui le leggi del moto e la legge di gravitazione universale di Newton sono servite da paradigma). Nel diciannovesimo secolo la tesi che il mondo fosse effettivamente così venne chiamata “determinismo”. Il problema del libero arbitrio può essere enunciato come un dilemma: se il determinismo è vero allora esiste solo un futuro fisicamente possibile. Ma come si sarebbe potuto mai agire diversamente? Perché, come ha detto Carl Ginet (1990: 103), la nostra libertà può essere solo la libertà di aggiungere al passato attuale; e se il determinismo regge, allora c’è solo un modo in cui si può “aggiungere” al dato — l’attuale — passato. Ma se il determinismo non regge, se ci sono futuri alternativi fisicamente possibili, allora quale di questi si realizzi deve essere una mera questione di caso. E se è una mera questione di caso se mento o dico la verità, come può “dipendere da me” se mento o dico la verità? A meno che non ci sia qualcosa di sbagliato in uno di questi due argomenti, l’argomento dell’incompatibilità del libero arbitrio e del determinismo o l’argomento dell’incompatibilità del libero arbitrio e la falsità del determinismo, il libero arbitrio è impossibile. Il problema del libero arbitrio può essere identificato con il problema di scoprire se il libero arbitrio è possibile — e, se il libero arbitrio è possibile, il problema di dare un resoconto del libero arbitrio che mostri un errore in uno (o entrambi) questi argomenti.
Van Inwagen (1998) difende la posizione che, sebbene il problema moderno del libero arbitrio abbia la sua origine nelle riflessioni filosofiche sulle conseguenze del supporre che l’universo fisico sia governato da leggi deterministiche, il problema non può essere eluso abbracciando una metafisica (come il dualismo o l’idealismo) che suppone che gli agenti siano immateriali o non fisici. Questo ci porta al prossimo e ultimo esempio di argomenti della “nuova” metafisica.
3.5 Il Mentale e il fisico
Se è naturale associare e opporre il tempo e lo spazio, è altrettanto naturale associare e opporre il mentale e il fisico. La moderna teoria dell’identità sostiene che tutti gli eventi o stati mentali sono un tipo speciale di evento o stato fisico. Sebbene parsimoniosa (tra le sue altre virtù) la teoria mostra comunque una tendenza naturale a distinguere il mentale e il fisico. Forse la ragione di ciò è epistemologica: che i nostri pensieri e sensazioni siano fisici o meno, il tipo di consapevolezza che abbiamo di essi è di tipo radicalmente diverso da quello che abbiamo del volo di un uccello o di un ruscello che scorre, e sembra essere naturale dedurre che gli oggetti di un tipo di consapevolezza sono radicalmente diversi dagli oggetti dell’altro. Il fatto che l’inferenza non sia logicamente valida non è (come spesso accade) un ostacolo alla sua realizzazione. Qualunque sia la ragione, i filosofi hanno generalmente (ma non universalmente) supposto che il mondo dei particolari concreti possa essere diviso in due regni molto diversi, quello mentale e quello materiale. (Con il passare del ventesimo secolo, la teoria fisica ha reso la “materia” un concetto sempre più problematico, tanto da rendere sempre più comune il dire “mentale e fisico”). Se si assume questa visione delle cose, allora si affrontano problemi filosofici che la filosofia moderna ha assegnato alla metafisica.
Tra questi, spicca il problema di rendere conto della causalità mentale. Se i pensieri e le sensazioni appartengono a una parte immateriale o non fisica della realtà — per esempio se sono cambiamenti in sostanze immateriali o non fisiche — come possono avere effetti nel mondo fisico? Come può una decisione o un atto di volontà causare un movimento di un corpo umano? Come i cambiamenti nel mondo fisico possono avere effetti nella parte non fisica della realtà? Se la sensazione di dolore è un evento non fisico, come può una lesione fisica al corpo causare dolore? Entrambe le domande hanno turbato i filosofi dei “due regni” — o “dualisti”, per dar loro il nome più usuale. Ma la prima li ha turbati di più, poiché la fisica moderna è fondata su principi che affermano la conservazione di varie quantità fisiche. Se un evento non fisico causa un cambiamento nel mondo fisico — si chiedono ripetutamente i dualisti — questo non implica forse che quantità fisiche come l’energia o la quantità di moto non si conservino in qualsiasi sistema causale fisicamente chiuso in cui si verifichi quel cambiamento? E questo non implica forse che ogni movimento volontario di un corpo umano comporta una violazione delle leggi della fisica, cioè un miracolo?
Una vasta gamma di teorie metafisiche è stata prodotta dai tentativi dei dualisti di rispondere a queste domande. Alcune non hanno avuto molto successo per ragioni che non sono di grande interesse filosofico intrinseco. C. D. Broad, per esempio, ha proposto (1925: 103-113) che la mente influenza il corpo cambiando momentaneamente la resistenza elettrica di certe sinapsi nel cervello (deviando così vari impulsi di corrente, che letteralmente seguono il percorso di minor resistenza in percorsi diversi da quelli che avrebbero preso). E questo, ha supposto, non implicherebbe una violazione del principio di conservazione dell’energia. Ma sembra impossibile supporre che un agente possa cambiare la resistenza elettrica di un sistema fisico senza spendere energia nel processo, perché per fare questo sarebbe necessario cambiare la struttura fisica del sistema, e ciò implica cambiare le posizioni dei pezzi di materia su cui agiscono le forze (chiaramente per girare la manopola di un reostato o di un resistore variabile si deve spendere energia). Se questo esempio avesse un qualche interesse filosofico sarebbe quello di illustrare il fatto che è impossibile immaginare un modo per una cosa non fisica di influenzare il comportamento di un sistema fisico (classico) senza violare un principio di conservazione.
Le varie teorie dualistiche della mente trattano il problema dell’interazione in modi diversi. La teoria chiamata “interazionismo dualistico” non ha, di per sé, nulla da dire sul problema — anche se i suoi vari sostenitori (Broad, per esempio) hanno proposto soluzioni al problema. L’occasionalismo ammette semplicemente che la dipendenza controfattuale “locale” del comportamento di un sistema fisico da un evento non fisico richiede un miracolo. La teoria dell’armonia prestabilita, che sostituisce la dipendenza controfattuale “globale” con quella locale dei movimenti fisici volontari dagli stati mentali degli agenti, evita i problemi con i principi di conservazione, ma assicura questo vantaggio a un grande prezzo. (Come l’occasionalismo, presuppone il teismo, e, a differenza dell’occasionalismo, implica o che il libero arbitrio non esiste o che il libero arbitrio è compatibile con il determinismo). L’epifenomenismo nega semplicemente che il mentale possa influenzare il fisico, e si accontenta di una spiegazione del perché il mentale sembra influenzare il fisico.
Oltre a queste teorie dualistiche, vi sono teorie monistiche che risolvono il problema dell’interazione negando l’esistenza sia del fisico che del non-fisico: idealismo e fisicalismo. (I filosofi contemporanei preferiscono per lo più il termine “fisicalismo” al vecchio termine “materialismo” per le ragioni sopra menzionate). La maggior parte del corrente lavoro nella filosofia della mente presuppone il fisicalismo, ed è generalmente accettato che una teoria fisicalista che non neghi semplicemente la realtà del mentale (i.e. non è una teoria “eliminativista”) solleva questioni metafisiche. Una tale teoria deve, naturalmente, trovare un posto per il mentale in un mondo interamente fisico, e tale posto esiste solo se gli eventi e gli stati mentali sono certi eventi e stati fisici speciali. Ci sono almeno tre importanti questioni metafisiche sollevate da queste teorie. In primo luogo, ammesso che tutti i particolari eventi o stati mentali siano identici a particolari eventi o stati fisici, può anche essere che alcuni o tutti gli universali mentali (event-types e state-types , ovvero “eventi-tipo” e “stati-tipo” sono i termini usuali) siano identici agli universali fisici? In secondo luogo, il fisicalismo implica che gli eventi e gli stati mentali non possono essere realmente cause (implicando una sorta di epifenomenismo)? In terzo luogo, una cosa fisica può avere proprietà non fisiche — potrebbe essere che proprietà mentali come “pensare a Vienna” o “percepire in rosso” siano proprietà non fisiche di organismi fisici? Naturalmente quest’ultima domanda solleva una questione metafisica più basilare: “cos’è una proprietà non fisica?”. Inoltre, tutte le forme della teoria dell’identità sollevano domande metafisiche fondamentali, nello specifico ontologiche: “cos’è un evento?” e “cos’è uno stato?”.
4. La metodologia della metafisica
Come è ovvio dalla discussione nella sezione 3, l’ambito della metafisica si è esteso oltre i confini ordinati che Aristotele aveva tracciato. Quindi, come dovremmo rispondere alla nostra domanda originale? La metafisica contemporanea è solo un compendio di problemi filosofici che non possono essere assegnati all’epistemologia o alla logica o all’etica o all’estetica o a nessuna delle parti della filosofia che hanno definizioni relativamente chiare? O c’è un tema comune che unisce questi problemi disparati e distingue la metafisica contemporanea da altre aree di indagine?
Le questioni riguardanti la natura della metafisica sono ulteriormente collegate a indagini riguardanti lo status epistemico delle varie teorie metafisiche. Aristotele e la maggior parte dei medievali davano per scontato che, almeno nei suoi aspetti più fondamentali, l’immagine che la persona comune ha del mondo è “corretta fin dove arriva”. Ma molti metafisici post-medievali hanno rifiutato di dare questo per scontato. Alcuni di loro, infatti, sono stati disposti a difendere la tesi che il mondo è molto diverso, forse radicalmente diverso, dal modo in cui la gente pensava che fosse prima di iniziare a ragionare filosoficamente. Per esempio, in risposta all’enigma della coincidenza considerato nella sezione 3.3, alcuni metafisici hanno sostenuto che non ci sono oggetti con parti proprie. Questo implica una visione piuttosto sorprendente secondo la quale gli oggetti composti — tavoli, sedie, gatti e così via — non esistono. Inoltre, come abbiamo visto nella sezione 3.1, altri metafisici sono stati felici di postulare la realtà di mondi concreti meramente possibili, se questo postulato rende la teoria della modalità più semplice e più potente dal punto di vista esplicativo. Forse questa apertura contemporanea alla metafisica “revisionista” è semplicemente un recupero o un ritorno a una concezione pre-aristotelica di “conclusione metafisica ammissibile”, una concezione che è illustrata dagli argomenti di Zenone contro la realtà del moto e dal mito della caverna di Platone. Ma in qualsiasi modo le classifichiamo, la natura sorprendente di molte affermazioni metafisiche contemporanee mette ulteriore pressione ai metafisici per spiegare cosa stiano realmente facendo, e queste affermazioni sollevano così domande sulla metodologia della metafisica.
Una strategia attraente per rispondere a queste domande sottolinea la continuità della metafisica con la scienza. Secondo questa posizione, la metafisica si occupa principalmente o esclusivamente di sviluppare generalizzazioni dalle nostre teorie scientifiche meglio confermate. Per esempio, a metà del ventesimo secolo, Quine (1948) propose che il dibattito metafisico “vecchio/intermedio” sullo status degli oggetti astratti fosse risolto in questo modo: se le nostre migliori teorie scientifiche vengono riformulate nella “notazione canonica della quantificazione (del primo ordine)” (in modo sufficientemente approfondito che tutte le inferenze che gli utenti di queste teorie vorranno fare siano valide nella logica del primo ordine), allora molte di queste teorie, se non tutte, avranno come conseguenza logica la generalizzazione esistenziale di un predicato F tale che F sia soddisfatto solo da oggetti astratti. Quindi, sembrerebbe che le nostre migliori teorie scientifiche “portino un impegno ontologico” verso oggetti la cui esistenza è negata dal nominalismo. (Questi oggetti possono non essere universali nel senso classico. Possono essere, per esempio, insiemi). Prendiamo per esempio la seguente teoria: “ci sono oggetti omogenei, e la massa di un oggetto omogeneo in grammi è il prodotto della sua densità in grammi per centimetro cubo e il suo volume in centimetri cubi”. Una tipica formalizzazione di questa teoria nella notazione canonica della quantificazione è:
∃Hx & ∀x (Hx → Mx = Dx × Vx)
(“Hx: “x è omogeneo”; “Mx”: “la massa di x in grammi”; “Dx: “la densità di x in grammi per centimetro cubo”; “Vx”: “il volume di x in centimetri cubici”). Una conseguenza logica di primo ordine di questa “teoria” è
∃x∃y∃z (x = y × z)
Cioè: esiste almeno una cosa che è un prodotto (almeno una cosa che, per qualche x e qualche y è il prodotto di x e y) e che deve essere un numero, perché l’operazione “prodotto di” si applica solo ai numeri. La nostra piccola teoria, almeno se formalizzata come sopra, è quindi palesemente “impegnata” nell’esistenza dei numeri. Sembrerebbe, quindi, che un nominalista non possa affermare coerentemente quella teoria. (In questo esempio, il ruolo svolto dal “predicato F” nell’affermazione astratta dell’“osservazione” di Quine è svolto dal predicato “…=…×…”).
Il lavoro di Quine sul nominalismo ha ispirato un programma molto più ampio per affrontare le questioni ontologiche. Secondo i “neo-quineani”, le domande sull’esistenza di oggetti astratti, eventi mentali, oggetti con parti proprie, parti temporali, e persino altri mondi possibili concreti sono unite nella misura in cui sono domande sul meccanismo ontologico richiesto per rendere conto della verità delle nostre teorie meglio confermate. Eppure, molte domande della nuova e della vecchia metafisica non sono questioni di ontologia. Per esempio, molti partecipanti al dibattito sulla causalità non sono particolarmente preoccupati dell’esistenza di cause ed effetti. Piuttosto, vogliono sapere “in virtù di cosa” qualcosa è causa o effetto. Pochi di quelli che sono coinvolti nel dibattito sul mentale e sul fisico, sono interessati alla questione se esistano proprietà mentali (in un senso o in un altro). Piuttosto, sono interessati a sapere se le proprietà mentali sono “basilari” o sui generis — o se sono fondate, parzialmente o completamente, su proprietà fisiche.
Esiste una metodologia unificata per la metafisica più ampiamente intesa? Alcuni pensano che il compito del metafisico sia quello di identificare e argomentare relazioni esplicative di vario tipo. Secondo Fine (2001), i metafisici si occupano di fornire teorie su quali fatti o proposizioni fondano (ground) altri fatti o proposizioni, e quali fatti o proposizioni reggono “nella realtà”. Per esempio, un filosofo potrebbe ritenere che i tavoli e altri oggetti compositi esistano, ma potrebbe pensare che i fatti riguardo i tavoli siano completamente fondati su fatti relativi alla disposizione delle particelle puntiformi o su fatti relativi allo stato di una funzione d’onda. Questo metafisico sosterrebbe che non ci sono fatti riguardo i tavoli “in realtà”; piuttosto, ci sono fatti sulle disposizioni delle particelle. Schaffer 2010 propone una visione simile, ma sostiene che le relazioni metafisiche di base non intercorrono tra fatti ma tra entità. Infatti, l’entità o le entità fondamentali dovrebbero essere intese come l’entità o le entità che fondano tutte le altre. Possiamo chiedere in modo significativo se un tavolo è fondato nelle sue parti o viceversa, oppure possiamo anche teorizzare (come fa Schaffer) che il mondo nel suo insieme è il fondamento ultimo di tutto.
Un altro approccio degno di nota (Sider 2012) sostiene che il compito del metafisico è quello di “spiegare il mondo” in termini della sua struttura fondamentale. Per Sider, ciò che unifica la (buona) metafisica come disciplina è che le sue teorie sono tutte inquadrate in termini che individuano la struttura fondamentale del mondo. Per esempio, secondo Sider possiamo intendere il “nichilismo causale” come l’opinione secondo cui le relazioni causali non sono presenti nella struttura fondamentale del mondo, e quindi il miglior linguaggio per descrivere il mondo eviterà i predicati causali.
Va sottolineato che questi modi di delimitare la metafisica non presuppongono che tutti gli argomenti che abbiamo considerato come esempi di metafisica siano sostanziali o importanti per il soggetto. Si consideri il dibattito sulla modalità. Quine (1953) e Sider (2012) sostengono entrambi, a partire dalle loro rispettive teorie sulla natura della metafisica, che gli aspetti del dibattito sulla corretta teoria metafisica della modalità sono errati. Altri sono scettici nei dibattiti sulla composizione o sulla persistenza nel tempo. Quindi le teorie sulla natura della metafisica potrebbero darci nuove risorse per criticare particolari dibattiti di primo ordine che sono stati storicamente considerati metafisici, ed è pratica comune per i metafisici considerare alcuni dibattiti come sostanziali mentre adottano un atteggiamento deflazionista su altri.
5. La metafisica è possibile?
Può anche essere che non ci sia un’unità interna alla metafisica. Più probabilmente, forse non esiste una cosa come la metafisica — o almeno niente che meriti di essere chiamato una scienza o uno studio o una disciplina. Forse, come hanno proposto alcuni filosofi, nessuna affermazione o teoria metafisica è vera o falsa. O forse, come altri hanno proposto, le teorie metafisiche hanno valori di verità, ma è impossibile scoprire quali siano. Almeno dai tempi di Hume, ci sono stati filosofi che hanno proposto che la metafisica sia “impossibile”, o perché le sue domande sono prive di senso o perché è impossibile rispondervi. Il resto di questa voce presenterà una discussione di alcuni argomenti recenti che affermano l’impossibilità della metafisica.
Supponiamo di essere sicuri di essere in grado di identificare ogni affermazione come “un’affermazione metafisica” o “non un’affermazione metafisica”. (Non abbiamo bisogno di supporre che questa capacità sia fondata su una qualche definizione o resoconto non banale della metafisica). Chiamiamo la tesi che tutte le affermazioni metafisiche sono prive di significato “la forma forte” della tesi che la metafisica è impossibile. (Un tempo, un detrattore della metafisica avrebbe potuto accontentarsi di dire che tutte le affermazioni metafisiche erano false. Ma questa non è ovviamente una tesi possibile se la negazione di un’affermazione metafisica deve essere essa stessa un’affermazione metafisica). Chiamiamo la seguente affermazione la “forma debole” della tesi che la metafisica è impossibile: le affermazioni metafisiche sono significative, ma gli esseri umani non possono mai scoprire se qualsiasi affermazione metafisica è vera o falsa (o probabile o improbabile o giustificata o ingiustificata).
Esaminiamo brevemente un esempio della forma forte della tesi che la metafisica sia impossibile. I positivisti logici sostenevano che il significato di un’asserzione (non analitica) consisteva interamente nelle previsioni che faceva sull’esperienza possibile. Sostenevano, inoltre, che le asserzioni metafisiche (che ovviamente non erano presentate come verità analitiche) non facevano previsioni sull’esperienza. Pertanto, concludevano, le asserzioni metafisiche sono prive di significato — o, meglio, le “asserzioni” che classifichiamo come metafisiche non sono affatto asserzioni: sono cose che sembrano asserzioni ma non lo sono, così come i manichini sono cose che sembrano esseri umani ma non lo sono.
Ma (si sono chiesti molti filosofi) come se la cava la tesi centrale del positivista logico il significato di un’asserzione consiste interamente nelle previsioni che essa fa sull’esperienza possibile secondo i suoi stessi standard? Questa tesi fa qualche previsione sulle esperienze possibili? Qualche osservazione potrebbe dimostrare che è vera? Qualche esperimento potrebbe dimostrare che è falsa? Sembrerebbe di no. Sembrerebbe che tutto nel mondo abbia lo stesso aspetto, come questo, sia che questa tesi sia vera o falsa. (Il positivista ribatterà che la frase di risposta è analitica? Questa risposta è problematica in quanto implica che la moltitudine di persone di madrelingua inglese che rifiuta la concezione del significato dei positivisti logici in qualche modo non può conoscere la verità di una proposizione in virtù del significato della parola “significato” — che non è un termine tecnico ma una parola dell’inglese ordinario). E, quindi, se l’asserzione è vera è priva di significato; oppure, che è la stessa cosa, se è significativa, è falsa. Il positivismo logico sembrerebbe quindi dire di sé stesso che è falso o privo di significato; sembrerebbe essere, per usare un’espressione comunemente impiegata, “autoreferenzialmente incoerente”.
Gli attuali sostenitori dell’“antirealismo metafisico” sostengono anche una forma forte della tesi che la metafisica sia impossibile. Nella misura in cui è possibile trovare una linea argomentativa coerente negli scritti di qualsiasi antirealista, è difficile capire perché essi, come i positivisti logici, non siano aperti a un’accusa di incoerenza autoreferenziale. In effetti, c’è molto da dire a favore della conclusione che tutte le forme di tesi forte cadono preda dell’incoerenza autoreferenziale. Detto in modo molto astratto, il caso contro i sostenitori della tesi forte può essere posto così. La dottoressa McZed, una “forte antimetafisica”, sostiene che ogni brano di un testo che non supera un certo test da lei specificato è privo di significato (se è tipica degli antimetafisici forti, dirà che ogni testo che fallisce il test rappresenta un tentativo di usare il linguaggio in un modo in cui il linguaggio non può essere usato). E sostiene inoltre che ogni brano di un testo che può essere plausibilmente identificato come “metafisico” deve fallire questo test. Ma invariabilmente si scopre che varie frasi, che sono componenti essenziali del caso di McZed contro la metafisica, non riescono a superare il suo test. Un banco di prova per questa confutazione molto schematica e astratta di tutte le confutazioni della metafisica è la critica molto sofisticata e sottile della metafisica (pretende di applicarsi solo al tipo di metafisica esemplificata dai razionalisti del XVII secolo e alla metafisica analitica attuale) presentata in van Fraassen 2002. È una posizione difendibile che il caso di van Fraassen contro la metafisica dipende essenzialmente da alcune tesi che, sebbene non siano esse stesse tesi metafisiche, sono tuttavia aperte a molte delle critiche che egli porta contro le tesi metafisiche.
La forma debole della tesi che la metafisica è impossibile è la seguente: c’è qualcosa nella mente umana (forse anche nella mente di tutti gli agenti razionali o di tutti gli agenti razionali finiti) che la rende inadatta a raggiungere conclusioni metafisiche in modo affidabile. Questa idea è vecchia almeno quanto Kant, ma una versione di essa che è molto più modesta di quella di quest’ultimo (e molto più facile da capire) è stata attentamente presentata in McGinn 1993. L’argomento di McGinn sostiene che la mente umana (per una questione di contingenza evolutiva, e non semplicemente perché è “una mente”) sia incapace di un trattamento soddisfacente di una vasta gamma di questioni filosofiche (una gamma che include tutte le questioni metafisiche). Tuttavia, questa dipende da tesi fattuali speculative sulle capacità cognitive umane che sono in linea di principio soggette a confutazione empirica e che sono al momento senza un significativo supporto empirico. Per una diversa difesa della tesi debole, si veda Thomasson 2009.
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Strumenti accademici
- Come citare questa voce.
- Vedi la versione PDF di questa voce presso Friends of SEP Society.
- Vedi questo stesso argomento presso il progetto Internet Philosophy Ontology Project (InPhO).
- Bibliografia arricchita per questa voce presso PhilPapers, con link al suo database.
Altre risorse in Internet
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