Originale di William Lycan.
Traduzione di Filippo Pelucchi e Valentina Martinis, e revisione di Giacomo Giannini.
Versione: Inverno 2021.
The following is the translation of William Lycan‘s entry on “Representational Theories of Consciousness” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2021/entries/consciousness-representational/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at https://plato.stanford.edu/entries/consciousness-representational/ . We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.
La rappresentazione è stata al centro delle discussioni sull’intenzionalità per molti anni. Ma solo più recentemente ha iniziato a svolgere un ruolo più ampio in filosofia della mente, in particolare nelle teorie sulla coscienza. In effetti, attualmente esistono diverse teorie rappresentazionali della coscienza, e ognuna corrisponde a un diverso uso del termine “cosciente”, cercando di spiegare il corrispettivo fenomeno attraverso la rappresentazione. Più cautamente, ogni teoria tenta di spiegare il proprio fenomeno attraverso la nozione di intenzionalità e afferma che l’intenzionalità è rappresentazione.
Uno stato intenzionale rappresenta un oggetto, reale o irreale (ad esempio, il cavallo Winx o Pegaso), e in genere rappresenta un intero stato di cose, che può effettivamente verificarsi o meno (ad esempio, che Winx vinca di nuovo il Queen Elizabeth Stakes in Australia all’ippodromo di Randwick nel 2020). Nei casi di rappresentazione pubblica e sociale, come la scrittura o la creazione di mappe, gli stati intenzionali come le credenze hanno un valore di verità: implicano altre credenze; sono (a quanto pare) composti da concetti e dipendono per la loro verità da una corrispondenza tra le loro strutture interne e il modo in cui è il mondo; e quindi, è naturale considerare la loro presenza come una questione di riferimento o legata alla designazione mentale. Sellars (1956, 1967) e Fodor (1975) sostengono che gli stati intenzionali sono stati di un soggetto con proprietà semantiche e che gli stati di cose esistenti o inesistenti, che sono i loro oggetti, sono solo contenuti rappresentazionali.
Tutto quanto appena detto è ben noto e non molto controverso. Ma i problemi legati alla coscienza sono generalmente considerati meno trattabili delle questioni sull’intenzionalità. Lo scopo di una teoria rappresentazionalista della coscienza è di trattare la coscienza con lo stesso metodo con cui viene trattata l’intenzionalità, mostrando che se quest’ultima si può analizzare più correttamente in termini rappresentazionali, allora ciò si può applicare anche ai fenomeni di coscienza, qualunque sia il significato di cui è carico il termine.
Le nozioni di coscienza più comunemente discusse dai filosofi sono le seguenti:
(1) Consapevolezza cosciente dei propri stati mentali e degli “stati coscienti”, nel senso particolare di stati in cui i soggetti sono consapevoli di trovarsi.
(2) Introspezione e accesso privilegiato al carattere interno della propria esperienza.
(3) Essere in uno stato sensoriale che ha una proprietà qualitativa distintiva, come il colore che si esperisce quando si ha un’esperienza visiva, o il timbro particolare di un suono che viene udito.
(4) La questione fenomenica di ciò che prova il soggetto a essere in un particolare stato mentale, specialmente ciò che quel soggetto prova nell’esperire una particolare proprietà qualitativa come in (3).
Block (1995) e altri hanno usato il termine “coscienza fenomenica” per (4), senza distinguerlo da (3). (Un’ulteriore complicazione terminologica è che alcuni teorici, come Dretske (1995) e Tye (1995), hanno usato l’espressione “ciò che si prova” per indicare la proprietà qualitativa stessa, piuttosto che la proprietà di ordine superiore di quella stessa proprietà. Questa voce utilizzerà principalmente l’aggettivo “qualitativo” per alludere a qualità sensoriali per come sono usate in (3) e “fenomenico” per riferirsi a “ciò che si prova”).
Per ciascuna delle quattro nozioni precedenti di coscienza, alcuni filosofi hanno affermato che quel tipo di coscienza è interamente, o almeno in gran parte, analizzabile come un tipo di rappresentazione. Questa voce tratterà principalmente le teorie rappresentazionaliste della coscienza nei sensi (3) e (4). I principali approcci rappresentazionalisti a (1) e (2) sono le teorie della “rappresentazione di ordine superiore”, che si dividono in teorie di “senso interiore” o “percezione di ordine superiore”, teorie della “conoscenza diretta [acquaintance]” e teorie del “pensiero di ordine superiore”. Per la discussione di queste teorie, vedi la voce sulle teorie della coscienza di ordine superiore.
1. Carattere qualitativo inteso come rappresentazione
Le proprietà qualitative e i caratteri fenomenici degli stati mentali sono spesso chiamati “qualia” (al singolare, “quale”). Nella filosofia della mente moderna, questo termine è stato usato in molti modi diversi e confusi. C’è un senso specifico, abbastanza stretto, che proviene da C.I. Lewis (1929) per mezzo di Goodman (1951) (sebbene ci sia molto spazio per disaccordi esegetici sull’uso stesso da parte di Lewis). Un “quale” in questo senso è una proprietà qualitativa intrinseca a uno stato sensoriale: il colore di un’immagine residua, o quello di una macchia ordinaria nel proprio campo visivo; l’altezza, o il volume, oppure il timbro di un suono percepito a livello soggettivo; ciò di cui sa un profumo; un gusto particolare; la consistenza di un oggetto per come viene percepita al tatto. (Il termine “intrinseco” nella frase precedente è volutamente vago e neutrale su quante più questioni metafisiche possibili. In particolare, i qualia possono essere proprietà intrinseche delle esperienze, oppure possono essere correlati a quelle esperienze in qualche altro modo.) Per ragioni che risulteranno presto chiare, possiamo chiamare questo senso in cui parliamo di “qualia” il senso di “primo ordine”. Si noti che differisce dal significato più ampio e vago definito nella voce su qualia (“gli aspetti fenomenici e accessibili introspettivamente delle nostre vite mentali”), e dal significato molto più carico di Block (1990, 1995, 1996), secondo cui i “qualia” non sono per definizione né proprietà funzionali, né proprietà intenzionali. Per evitare ulteriore confusione, ora parleremo delle qualità sensoriali.
Una qualità sensoriale può essere considerata come la proprietà particolare di una singola apparenza fenomenica. Essa è ciò che Bertrand Russell avrebbe considerato come un “dato sensoriale”, come una regione colorata del proprio campo visivo, un suono udito o un odore che si è annusato. Ma è importante osservare che qualità di questo tipo non presuppongono l’esistenza di dati sensoriali o di altri elementi esotici. I campi sensoriali sono pervasi da queste qualità sia nell’esperienza veridica quotidiana che in casi meno usuali. Nel nostro senso di primo ordine della parola “qualia”, quest’ultimo punto è il più semplice a livello di senso comune, e negarlo significherebbe assumere una posizione molto radicale. Naturalmente, i filosofi discuteranno immediatamente la natura di queste qualità dedotte dal senso comune e ulteriori affermazioni su di esse, ma è generalmente accettato che siano soggette a introspezione, apparentemente monadiche o non-relazionali, e descrivibili con parole italiane d’uso comune quali “verde”, “rumoroso”, e “dolce” (sebbene ci si possa chiedere se quelle parole abbiano lo stesso significato quando vengono applicate a oggetti ed eventi fisici).
Le qualità sensoriali pongono un problema molto serio per le teorie materialiste della mente. Ontologicamente parlando, perché esistono? Supponiamo che Bertie stia avendo un’immagine residua verde perché ha visto il flash di una lampadina rossa che si spegne; il verde dell’immagine residua è il quale. I dati sensoriali russelliani sono delle individualità immateriali; quindi, il materialista non può ammettere che il verde dell’immagine residua sia una proprietà di un dato sensibile reale. Né è plausibile affermare che il verde sia esemplificato da qualcosa di fisico nel cervello (se esiste qualche cosa di fisico e di verde nel tuo cervello, probabilmente c’è qualcosa che non va). Per acuire il problema, osserva il seguente argomento:
1. Bertie sta esperendo una cosa verde.
2. Supponiamo che non esista qualcosa di fisico e verde all’esterno dalla testa di Bertie.
Tuttavia,
3. Non esiste neppure qualcosa di fisico e verde all’interno della testa di Bertie.
4. Se è fisica, la cosa verde si trova all’esterno dalla testa di Bertie o dentro di essa.
Dunque,
5. La cosa verde è non-fisica. [da 1,2,3,4]
Dunque,
6. L’esperienza di Bertie contiene una cosa non-fisica. [da 1,5]
Dunque,
7. L’esperienza di Bertie non è fisica, o almeno, non lo è del tutto. [da 6]
Questo è un argomento deduttivo valido contro il materialismo e le sue premesse sono difficili da negare.
La teoria rappresentazionalista moderna delle qualità sensoriali ha origine con Hall (1961), Anscombe (1965) e Hintikka (1969); i primi a aderirvi includono Kraut (1982), Lewis (1983), Lycan (1987, 1996), Harman (1990), Shoemaker (1994), Tye (1994, 1995, 2003a), Dretske (1995), Clark (2000), Byrne (2001), Crane (2001, 2003) e Thau (2002). La teoria rappresentazionalista è solitamente (sebbene non sempre) un tentativo di risolvere il dilemma precedente in una maniera compatibile con il materialismo. Secondo questa teoria, le qualità sensoriali sono in realtà contenuti intenzionali, proprietà rappresentazionali degli oggetti rappresentati. Supponiamo che Ludwig stia vedendo un pomodoro autentico in buona luce, e che, naturalmente, gli appaia rosso; c’è una corrispondente macchia rossa nel suo campo visivo. Egli rappresenta visivamente l’effettiva rossezza del pomodoro e la rossezza della “macchia” sarebbe solo la rossezza del pomodoro stesso. Ma supponiamo che George Edward abbia allucinazioni con un pomodoro simile, e che ci sia una macchia rossa a forma di pomodoro nel suo campo visivo proprio come in quello di Ludwig. Anche George Edward rappresenta la rossezza di un pomodoro esterno, fisico. È solo che nel suo caso il pomodoro non è reale; questo pomodoro e la sua rossezza sono contenuto intenzionali non effettivi. Ma la rossezza è la stessa del pomodoro illusorio. (Si noti che la rappresentazione per come è intesa in questa voce è la buona e vecchia rappresentazione del primo ordine delle caratteristiche ambientali, non di ordine superiore come nelle teorie della “rappresentazione di ordine superiore” della consapevolezza.)
E l’immagine residua verde di Bertie? Secondo l’analisi rappresentazionalista (a volte detta anche “intenzionalista”), per Bertie esperire l’immagine residua verde significa rappresentare visivamente una macchia verde situata in un punto specifico della stanza. Poiché in realtà non c’è una macchia verde nella stanza con Bertie, la sua esperienza visiva non è veritiera; le immagini residue sono delle illusioni. La qualità sensoriale, il verde del blob, è (come il blob stesso) un contenuto intenzionale e non reale. Certo, nei casi di percezione veridica, il colore e l’oggetto colorato non sono soltanto contenuti intenzionali, perché effettivamente esistono, ma sono pur sempre oggetti intenzionali, rappresentati.
Ed è così che il rappresentazionalista risolve il nostro dilemma. Come afferma P1, c’è una cosa verde che Bertie sta esperendo, ma non è una cosa reale. Quel “c’è” è lo stesso “c’è” clemente e non attualista che ricorre in “C’è qualcosa in cui Bertie crede, ma che non esiste” e in “C’è almeno un dio della mitologia che i Greci adoravano, ma che nessuno adora più”. (Nel difendere la sua teoria sui dati sensoriali, Russell avrebbe scambiato una cosa materiale non reale per una cosa immateriale e reale.) Quindi, P5, se pensata per dimostrare l’esistenza di un’entità verde reale, non segue.
Una conseguenza leggermente sorprendente ma innocua della teoria rappresentazionalista per come è stata qui formulata, è che le qualità sensoriali (i “qualia”, nel nostro senso stretto del primo ordine) non sono esse stesse proprietà delle esperienze in cui si verificano: le qualità sensoriali sono proprietà rappresentazionali degli oggetti rappresentati e quindi sono solo presenti a livello intenzionale nelle esperienze. Le proprietà rilevanti delle esperienze rappresentano questa o quella qualità. Certo, si potrebbe alterare leggermente il significato e parlare di “qualia” come proprietà delle esperienze, identificandole con caratteristiche rappresentazionali, come la caratteristica di rappresentare questa o quella qualità sensoriale in senso stretto; non cambia nulla con questa scelta terminologica. (Come detto in precedenza, le proprietà riferite a “ciò che si prova” [what is like] sono altre.)
La maggior parte dei rappresentazionalisti concorda sul fatto che la rappresentazione percettiva del colore e di altre proprietà sensibili è in un certo senso “non-concettuale”, almeno nel senso che le rappresentazioni qualitative non devono essere facilmente traducibili nel linguaggio naturale del soggetto. Certamente occorrerebbe un resoconto che faccia appello alla psico-semantica per spiegare in che cosa consiste un oggetto cerebrale che rappresenta, in questo caso, il verde. Dretske (1995) ne offre uno, così come Tye (1995); entrambi i resoconti sono versioni teleologizzate della semantica degli “indicatori” [indicators semantics].
2. Tipologie di rappresentazionalismo
La sola rappresentazione della rossezza non è sufficiente perché qualcosa appaia come rosso a un soggetto, tanto meno per una qualità sensoriale del rosso e ancor meno per ciò che si prova ad esperire quella qualità a livello fenomenico. Potresti pronunciare la parola “rosso” ad alta voce, o urlarla a squarcia gola da una scogliera, o inviarla in codice Morse, o scrivere la parola francese “rouge” su una lavagna, o indicare un chip colorato. La rappresentazione deve essere specificamente una rappresentazione visiva, prodotta da un normale sistema visivo di un essere umano o da qualcosa di simile a livello funzionale. Considerazioni simili andrebbero fatte anche per qualità non visive, come l’amarezza soggettiva, che richiederebbe un riferimento al sistema gustativo.
Pertanto, la teoria rappresentazionalista delle qualità sensoriali non può essere puramente rappresentazionale, ma deve fare appello a qualche ulteriore fattore, per distinguere le rappresentazioni visive da altri tipi di rappresentazioni della rossezza. Dretske (1995) cita solo il fatto che la rappresentazione visiva è sensoriale e, così la definisce, “sistemica”. Tye (1995) richiede che la rappresentazione sia non-concettuale ed “in bilico” [poised], sebbene sostenga anche che le rappresentazioni visive del colore differirebbero da altri tipi di rappresentazioni, in quanto accompagnate da ulteriori differenze rappresentazionali. Lycan (1996) fa invece appello al ruolo funzionale.
2.1 Rappresentazionalismo puro, forte e debole
Possiamo dunque distinguere diversi gradi di rappresentazionalismo riguardo alle qualità sensoriali.
Il rappresentazionalismo puro sarebbe l’idea che la rappresentazione da sola è sufficiente per avere una qualità sensoriale. Ma nessuno sostiene quest’idea, per il motivo appena indicato: la sola rappresentazione è conveniente e onnipresente. (Lloyd (1991) e Thau (2002) forse si avvicinano a questa posizione; Thau suggerisce che rappresentare un certo tipo particolare di contenuto è sufficiente perché si dia una qualità sensoriale.)
Il rappresentazionalismo forte (difeso da Dretske, Tye e Lycan) è l’idea che la rappresentazione di un certo tipo sia sufficiente per avere una qualità sensoriale, in cui il tipo può essere specificato in termini funzionali o in altri termini materialisti più familiari, senza ricorrere a proprietà ontologicamente “nuove” di alcun tipo. (Una visione mista rappresentativo-funzionale è ciò che Block (1996) chiama “quasi-rappresentazionalismo.”) Potremmo ulteriormente confrontare (a) teorie che fanno appello a considerazioni funzionali solo per separare le qualità sensoriali da altre proprietà rappresentate con (b) le teorie che sfruttano le considerazioni funzionali in modo più ambizioso, per distinguere esperienze qualitativamente diverse che hanno lo stesso contenuto intenzionale.
Il rappresentazionalismo debole afferma soltanto che gli stati qualitativi hanno necessariamente un contenuto rappresentazionale, la cui ammissione è compatibile con qualità sensoriali che coinvolgono necessariamente anche caratteristiche ontologicamente “nuove” ((Block 1990, 1996), Chalmers (1996)). Il rappresentazionalismo debole è rimasto abbastanza incontrastato (anche se sarebbe stato smentito da Russell, che non ha mostrato alcun segno di pensare che i suoi dati sensoriali rappresentassero qualcosa, e dai comportamentisti e i Wittgensteiniani, che sono ostili in toto all’idea di rappresentazione mentale). Per lo meno, chi lo rifiuta deve cercare di spiegare perché distinguiamo tra esperienze veridiche e non-veridiche; e infatti più recentemente nuove obiezioni da parte di autori come Campbell (2002), Travis (2004), Noë (2005), Brewer (2006) e Fish (2009) hanno tentato proprio di mostrare questo punto.
Per tutto il resto di questa voce, a meno che non venga specificato diversamente, per “rappresentazionalismo” si intenderà la sua versione forte. Il tipo misto di resoconto che Block chiama “quasi-rappresentazionalismo” è una tipologia di rappresentazionalismo forte, poiché esclude caratteristiche qualitative che sono sia non-intenzionali che non-funzionali.
Inoltre, considereremo il rappresentazionalismo forte come applicabile a tutti gli stati sensoriali, comprese le sensazioni corporee, le percezioni visive e quelle di altro tipo. Il rappresentazionalismo debole è alquanto controverso per dolori, pruriti e altre sensazioni, poiché non è ovvio che queste sensazioni rappresentino effettivamente qualcosa. Di conseguenza, un rappresentazionalismo forte relativo alle sensazioni sarà tanto meno difendibile.
Ci sono ulteriori questioni che dividono i rappresentazionalisti forti, le quali generano diverse versioni della teoria. Una è la questione se le qualità sensoriali stesse, in senso stretto, esauriscano tutto ciò che è stato solitamente considerato come il carattere fenomenico generale di uno stato sensoriale. Dretske e Tye sostengono di sì; Lycan (1998) e altri sostengono di no. Questo argomento sarà discusso di seguito, nel contesto di quella che viene chiamata la tesi della “trasparenza” [transparency thesis].
2.2 Rappresentazionalismo stretto e ampio
Una divisione più importante è quella tra rappresentazionalismo “stretto” e “ampio”. Nella letteratura sugli atteggiamenti proposizionali, che inizia con Putnam (1975), il contenuto rappresentazionale di un atteggiamento proposizionale è generalmente ritenuto “ampio” quando non va oltre il contenuto della testa del soggetto; secondo quest’idea, due persone indistinguibili a livello molecolare potrebbero avere contenuti di credenze o desideri diversi, determinati in parte dagli oggetti nei rispettivi ambienti. Poiché, secondo il rappresentazionalismo, le qualità sensoriali stesse sono proprietà reali o irreali dell’ambiente, la teoria suggerisce che anche le qualità sono ampie e che soggetti identici a livello molecolare potrebbero esperire qualità diverse. Dretske (1996) e Lycan (1996, 2001) hanno difeso esplicitamente questo “esternismo fenomenico”. Altri rappresentazionalisti rifiutano questa idea e credono che le qualità sensoriali siano limitate, e necessariamente condivise da duplicati a livello molecolare. Shoemaker (1994), Horgan (2000), Kriegel (2002b), Levine (2003) e Chalmers (2004) difendono il rappresentazionalismo stretto. (Rey (1998) chiama il suo punto di vista “una teoria rappresentazionalista ristretta dell’esperienza qualitativa”, ma non è un resoconto delle qualità sensoriali nel senso qui impiegato; semmai Rey è favorevole all’eliminazione di quelle qualità.) Per alcuni argomenti da entrambe le parti, si veda la Sezione 4.6.
2.3 Contenuti rappresentazionali
All’interno del rappresentazionalismo ampio o di una sua versione stretta, potrebbe esserci disaccordo su quali tipi di proprietà vengano rappresentate. Nella sezione precedente, si pensava che i convenzionali representata fossero caratteristiche ambientali come i colori degli oggetti. Ma ne sono stati suggeriti altri (Byrne (2001), Levine (2003)): ad esempio, l’esperienza percettiva potrebbe invece rappresentare dati sensoriali o proprietà di colore inesistenti, che gli oggetti fisici non possiedono realmente. Shoemaker (1994) difende l’idea che un’esperienza di colore rappresenta una proprietà disposizionale, vale a dire, una proprietà avente la disposizione a causare un’esperienza di quel tipo specifico. (Kriegel (2002b) e Levine (2003) difendono le versioni della teoria di Shoemaker per limitare le qualità sensoriali e gestire i vari casi di inversione dello spettro.) Almeno secondo una possibile interpretazione, Thau (2002) postula un tipo speciale di proprietà di quasi-colore, distinta ma correlata ai colori veri e propri.
Si noti che anche adottando una prospettiva immediata, secondo cui i representata sono i colori apparenti degli oggetti fisici, il rappresentazionalismo non implicherebbe il realismo sul colore. È vero che abbiamo usato parole come “verde” per indicare le proprietà degli oggetti fisici che sono accessibili pubblicamente. E non si potrebbe (senza circolarità) spiegare il verde fenomenico in termini di colore pubblico per com’è rappresentato nel mondo reale, per poi girarci intorno e analizzare quest’ultimo verde (fisico e autentico) come una mera disposizione a produrre sensazioni di verde fenomenico, o in qualsiasi altro modo che lo presupponga. Ma si può essere sostenitori di una teoria dell’errore del colore fisico, ritenendo che i colori degli oggetti siano in definitiva illusori, e tuttavia sostenere che i concetti di colore (fisico) sono a livello esplicativo e/o concettuale precedenti a quelli fenomenici.
(Ci possono essere problemi più generali, in altre modalità sensoriali, nell’identificare i representata mondani rilevanti. Ad esempio, Gray (2003) sostiene che le sensazioni di calore non rappresentano né calore, né temperatura, né conduttività, né energia.)
Chalmers (2004) richiama l’attenzione sulla distinzione tra contenuti russelliani e contenuti fregeani. I primi possono essere una proposizione singolare o una configurazione di oggetti e delle loro proprietà. Sebbene si possa credere in una data proposizione attraverso una modalità di presentazione, la modalità di presentazione stessa non fa parte del contenuto. Al contrario, un contenuto fregeano include la modalità di presentazione e non include i singoli oggetti. I rappresentazionalisti hanno spesso pensato in termini russelliani ai contenuti percettivi, ma Chalmers sostiene che il contenuto di un’esperienza percettiva è fregeano. Poiché trascura gli oggetti stessi, l’opzione fregeana si presterebbe a una versione rappresentazionalismo stretto, se lo si volesse; inoltre, essa aiuterebbe a rendere conto dei casi di inversione dello spettro (vedi la Sezione 4.4).
2.4 Riduzionista vs non-riduzionista
Come hanno sottolineato Crane (2003) e Chalmers (2004), il rappresentazionalismo non deve essere per forza riduzionista. Si potrebbe essere d’accordo con il rappresentazionalista forte sul fatto che le qualità sensoriali sono identiche ai contenuti intenzionali, ma anche sostenere che queste ultime proprietà del contenuto intenzionale non possono essere caratterizzate senza riferirsi alle qualità sensoriali. Quindi, nonostante siano la stessa cosa, non può esserci riduzione senza circolarità. Sostenendo in questo senso che i “qualia” richiedono una modalità fenomenica speciale di rappresentazione e sostenendo che tale modalità non può essere ridotta a una funzione, Chalmers difende un rappresentazionalismo non-riduzionista. I rappresentazionalisti che simpatizzano con l’idea (ad esempio, Searle (1990) e Siewert (1998)) che l’intenzionalità richiede coscienza, sarebbero anche motivati a mantenere posizioni non-riduzioniste. Levine (2003) sostiene che il punto di vista di Shoemaker (1994) non è riduzionista, poiché spiega il carattere qualitativo di un’esperienza in termini di rappresentazione di una proprietà che è a sua volta caratterizzata in termini di esperienze aventi quel carattere qualitativo (Levine non considera l’apparente circolarità viziosa). Ma molti altri rappresentazionalisti sono spinti verso il materialismo e dal desiderio di ridurre le qualità sensoriali all’intenzionalità, ritenendo che l’intenzionalità sia la più trattabile, a livello materialistico, tra le due.
3. Argomenti a favore del rappresentazionalismo delle qualità sensoriali
Esistono almeno quattro argomenti a favore del rappresentazionalismo.
3.1 L’argomento del materialismo
Molti rappresentazionalisti sostengono che la teoria non solo preserva il materialismo trovando un posto per le qualità sensoriali, ma è l’unico modo promettente in grado di farlo. Questo perché l’unica soluzione alternativa percorribile nel dilemma di Bertie sembra essere la credenza nei dati sensoriali russelliani effettivi o quantomeno nelle proprietà immateriali. L’antimaterialista potrebbe non preoccuparsi ontologicamente dei dati sensoriali, ma avrà a che fare anche con i difficili problemi epistemologici che Russell non è mai riuscito a superare: se l’esperienza sensoriale ci presenta dati sensoriali e nient’altro, i dati sensoriali ci bloccano da qualunque cosa possa essere il resto della realtà, e rimane così un divario giustificativo tra le nostre credenze sui dati sensoriali e le nostre credenze sul mondo esterno.
Con maggiore probabilità, chi obietta manterrà la linea del dualismo delle proprietà, come Jackson (1982) e Chalmers (1996). Ciò è abbastanza grave per il materialista, ma ovviamente chi si rifiuta in primo luogo di supportare il materialismo, non sarà convinto da questo argomento.
Ci sono altre alternative non-rappresentazionaliste. Ad esempio, un materialista potrebbe suggerire un’identità di tipo tra il verde fenomenico di Bertie e qualcosa a livello neurofisiologico, ma non è plausibile pensare che una macchia verde in maniera uniforme e monadica nel proprio campo visivo sia solo uno stato neuronale o un evento nel proprio cervello. Nella migliore delle ipotesi, il teorico dell’identità di tipo dovrebbe abbandonare la pesante affermazione che il verde stesso, piuttosto che qualche proprietà in sostituzione, figuri nell’esperienza di Bertie; l’idea sarebbe una teoria dell’errore che dovrebbe spiegare l’intuizione secondo cui, qualunque sia l’ontologia definitiva, Bertie sta davvero avendo un’istanza di verdezza.
Altre due soluzioni materialiste alternative per le qualità sensoriali sono una teoria “avverbialista” come quella proposta da Chisholm (1957) e Sellars (1967), e un eliminativismo vero e proprio.
Secondo la teoria avverbialista, l’esperienza di Bertie non implica nulla, reale o non reale, che sia verde. Piuttosto, Bertie vede verdamente e il suo percepire il verde è solo un tipo di rilevamento visivo. La nostra domanda principale, “Dove si trova ontologicamente la cosa verde?”, parte da un assunto falso e dunque il problema non sussisterebbe. L’avverbialismo ha dominato il pensiero dei materialisti per così tanto tempo che quest’ultima questione non è stata quasi mai sollevata. Ma, come spesso non è stato notato, l’avverbialismo è una tesi semantica sulle forme logiche delle affermazioni sulle sensazioni, e in quanto tale è stato criticato severamente e in modo significativo, ad esempio, da Jackson (1977), Butchvarov (1980) e Lycan (1987).
L’eliminativismo sulle qualità sensoriali è suggerito, se non sostenuto, da Dennett (1991) e da Rey (1983, 1998). Ma se Bertie o chiunque altro dicesse: “Sto esperendo visivamente il verde”, sarebbe difficile affermare che quella persona sta mentendo o spiegare come possa essere soggetta a un’illusione così reale. (Levine (2001) discute più a lungo l’eliminativismo.)
Dretske (1996) sostiene che non c’è nulla di intrinseco nel cervello che costituisca la differenza tra una qualità rossa e una verde. A meno che non ci siano dati sensoriali russelliani o delle proprietà immateriali, ciò che distingue le due qualità deve essere relazionale e l’unico candidato plausibile è, ovviamente, la rappresentazione del rosso o del verde. Ma, come detto prima, se non si hanno obiezioni ai dati sensoriali o alle proprietà immateriali, non si sarà convinti. Il teorico dell’identità di tipo obietterebbe anche in questo caso, sebbene si applichino le stesse controrepliche. Un’obiezione meno commissiva è che, contra Dretske, ci sono relazioni valide oltre a quella della rappresentazione: una relazione funzionale ampia, forse, o una relazione di causa tipica (dove nessuna di queste è considerata di per sé una rappresentazione).
3.2 L’argomento della veridicità
Distinguiamo tra esperienze visive veridiche e non-veridiche. Come mai? È abbastanza incontestato che l’esperienza di Bertie è quella di una macchia verde e che possiede il verde come oggetto intenzionale, e che ciò che l’esperienza riporta è falso. Ciò è difficile da contestare. Se invece si accettano i dati sensoriali russelliani e si pensa all’immagine residua stessa come a un carattere individuale che esiste effettivamente e in maniera indipendente – certamente uno degli elementi costitutivi di base del mondo – non è necessario pensarla anche come rappresentazionale. Ma si dovrà poi fornire un resoconto obliquo della nozione di veridicità. Se ci si unisce a Campbell (2002) et al. rifiutando del tutto la rappresentazione percettiva, si dovrà ancora ricostruire la veridicità in qualche modo ad hoc.
Il rappresentazionalista sostiene inoltre che la condizione di veridicità dell’esperienza, cioè la presenza di una macchia verde dove a Bertie sembra essercene una, sembra esaurire non solo il suo contenuto rappresentazionale, ma anche il suo contenuto qualitativo. Una volta che è già stata spiegata la verdezza, quale contenuto qualitativo rimane?
Poiché un rappresentazionalismo debole non implica una versione forte della teoria, i suoi obiettori possono offrire una serie di risposte (non retoriche) alla domanda retorica e conclusiva dell’argomento. Ad esempio, Block (1996) sostiene che Bertie potrebbe vedere introspettivamente una certa proprietà qualitativa, oltre al verde dell’immagine residua. Affronteremo sicuramente un altro tipo di contenuto nella Sezione 4.5 di seguito, che potrebbe essere o meno lo stesso tipo di proprietà che Block ha in mente.
3.3 L’argomento della trasparenza
Harman (1990) propone l’argomento della trasparenza: normalmente “vediamo attraverso gli stati percettivi” gli oggetti esterni e non ci accorgiamo nemmeno di trovarci in questi stati percettivi; le proprietà di cui siamo consapevoli nella percezione sono attribuite agli oggetti percepiti.
“Guarda un albero e cerca di rivolgere la tua attenzione alle caratteristiche intrinseche della tua esperienza visiva. Scommetto che scoprirai che le uniche caratteristiche a cui rivolgere la tua attenzione sono le caratteristiche dell’albero per come si presenta, comprese le caratteristiche relazionali dell’albero “da questo punto” (p. 39).
Tye (1995) e Crane (2003) estendono questo argomento alle sensazioni corporee come il dolore.
L’argomento della trasparenza può essere esteso anche alle allucinazioni. Supponiamo di guardare un pomodoro reale, molto rosso, in buona luce. Supponiamo anche di avere l’allucinazione di un secondo pomodoro, identico, collocato a destra di quello reale. (Potresti essere consapevole che il secondo pomodoro non lo sia.) Fenomenicamente, le due porzioni rilevanti del tuo campo visivo sono esattamente le stesse: appaiono allo stesso modo a livello strutturale. La rossezza che si palesa nell’aspetto del secondo pomodoro è esattamente la stessa proprietà del primo. Ma se siamo d’accordo che la rossezza percepita nel pomodoro reale è solo la rossezza del pomodoro stesso, allora la rossezza percepita nel pomodoro allucinato – la qualità rossa coinvolta nell’aspetto del secondo pomodoro – è proprio la rossezza del pomodoro allucinato stesso.
L’appello alla trasparenza rende fortemente plausibile che l’esperienza visiva rappresenti gli oggetti esterni e le loro proprietà apparenti. Ma come notato sopra, il rappresentazionalismo debole non è terribilmente controverso. Ciò che l’argomento della trasparenza non mostra, per com’è stato presentato, ma che afferma soltanto, è che l’esperienza non possiede altre proprietà che pongono problemi al materialismo. L’argomento deve essere formulato, e in genere è ultimato, appellandosi ulteriormente all’introspezione. Le premesse aggiuntive sono, ovviamente: (i) Se uno stato percettivo ha proprietà mentali rilevanti oltre alle sue proprietà rappresentazionali, esse sono soggette a introspezione. Ma (ii) non si dà mai il caso che nemmeno l’introspezione più forte possa rivelare queste proprietà aggiuntive.
(ii) è la tesi della trasparenza vera e propria. (Kind (2003) la chiama “trasparenza forte” e fa una distinzione molto utile tra affermazioni più forti e più deboli, come ad esempio che è molto difficile introspettare proprietà aggiuntive o che lo facciamo solo raramente, o in modo anomalo.) La trasparenza è difesa fortemente da Tye (1995, 2002) e da Crane (2003). Dretske (2003) ne sostiene una versione radicale: che non possiamo introspettare nulla di un’esperienza percettiva, se per “introspettare” intendiamo, come si fa di solito, occuparsi internamente dell’esperienza.
Le obiezioni alla tesi della trasparenza assumono tipicamente la forma di controesempi: esisterebbero delle caratteristiche mentali delle nostre esperienze che possono essere introspettate, ma che probabilmente non sono rappresentazionali. Harman (1990) e Block (1996) parlano di “pittura mentale” [mental paint], alludendo alle caratteristiche intrinseche e introspettabili di una rappresentazione percettiva, in virtù della quale essa rappresenta ciò che fa. Harman nega precisamente l’esistenza della pittura mentale, ma Block sostiene che, in particolare, essa può introspettare degli elementi non-intenzionali e non-funzionali che chiama “qualia” in un senso del tutto diverso da quello delle qualità sensoriali. Loar (2003) ammette che la visione, di norma, è trasparente, ma sostiene che possiamo adottare terapeuticamente quella che chiama la “prospettiva della riflessione obliqua”, vale a dire eseguire un certo esercizio di immaginazione, e quindi arrivare a rilevare i “qualia” in un senso molto simile e fortemente carico di significato per come Block usa il termine.
Block cita inoltre sensazioni corporee e stati d’animo i cui contenuti rappresentazionali sono minimi, ma vividamente introspettabili. Lycan (1998) sostiene su basi simili che le qualità inerenti a un’esperienza sensoriale sono solo una parte della “sensazione generale” di quell’esperienza o del carattere fenomenico in senso lato (4). Kriegel (2017) aggiunge che, in particolare, le esperienze sensoriali hanno componenti affettive che fanno parte del modo o della maniera di rappresentare, piuttosto che del rappresentatum.
Tornando alla percezione, Block osserva che se la visione di un soggetto è sfocata, è possibile introspettare la sfocatura, così come la rappresentazione visiva. (Ulteriori informazioni sulla sfocatura si trovano nella sezione 4.5.2 di seguito.) Si può anche sottolineare che la vividezza di una percezione, ad esempio del colore, può essere introspettata al di là del contenuto percepito, ma Bourget (2017b) si offre di spiegare tale vividezza in termini di representata.
Un’obiezione più diretta alla trasparenza è che nell’esperienza percettiva, oltre al contenuto, possiamo introspettare anche la modalità sensoriale rilevante, cioè se il representatum è percepito visivamente, a livello uditivo, olfattivo, o un altro ancora. Si può affermare, come fa Lycan (1996), che tali differenze sono solo funzionali. Tuttavia, Tye (2002) ha affermato che tali differenze possono essere catturate in termini di contenuti rappresentazionali. Inoltre, Bourget (2017a) argomenta in maniera dettagliata che solo individuando le modalità sensoriali in termini di contenuti possiamo offrire la spiegazione migliore delle esperienze “multimodali” o multisensoriali, ossia quelle che unificano distinte sub-esperienze che si verificano in diverse modalità sensoriali, come quelle di bere una tazza di caffè o incontrare un cane che abbaia. (Argomenti correlati erano stati portati anche da Tye (2007) e Speaks (2015).)
Infine, sembra che per qualsiasi qualità sensoriale sia possibile introspettare la proprietà di ordine superiore di ciò che si prova a esperire quella qualità (cfr. nozione (4) elencata nel quarto paragrafo di questa voce). In effetti, farlo sembra essere uno dei compiti standard dell’introspezione.
Questi apparenti controesempi richiedono un notevole sforzo per riuscire a superarli. Tye (2003a) ne affronta alcuni, sostenendo in ogni caso che quella che sembra essere una differenza non-rappresentazionale tra due esperienze è in realtà una differenza nei representata.
Per come è stato definito il rappresentazionalismo in questa voce, esso non richiede la tesi della trasparenza. Il rappresentazionalismo riguarda solo le qualità sensoriali, mentre la trasparenza riguarda le caratteristiche dell’esperienza più in generale. Anche se la trasparenza fosse falsa e ci fossero caratteristiche introspettive non-rappresentazionali delle esperienze, queste caratteristiche presumibilmente non sarebbero qualità sensoriali. (Anche se alcuni degli esempi precedenti sono stati usati anche contro il rappresentazionalismo; vedi la Sezione 4.) Naturalmente, se il rappresentazionalismo dovesse essere interpretato come un’applicazione più ampia delle caratteristiche dell’esperienza, allora l’esistenza di alcune di queste caratteristiche potrebbe essere problematica per la teoria, così come è stata formulata; ma potrebbe essere accettabile per il materialista, ad esempio, perché queste caratteristiche sarebbero funzionali.
3.4 L’argomento dell’apparenza
Byrne (2001) e Thau (2002) si appellano alla nozione del modo in cui il mondo appare ad un soggetto. Molto brevemente, come dice Byrne: “Se il modo in cui il mondo gli appare [seems] non cambia, allora non può essere che cambi il carattere fenomenico della sua esperienza” (p. 207), dove per “carattere fenomenico” Byrne intende le qualità sensoriali. Supponiamo che un soggetto abbia due esperienze consecutive che differiscono per carattere qualitativo. Se il soggetto è “competente”, nel senso che non ha carenze cognitive (in particolare, se la sua memoria è in buone condizioni) ed è leggermente idealizzato in uno o in altri due modi, egli noterà un cambiamento nel carattere qualitativo. Se le cose stanno così, afferma Byrne, il modo in cui le cose gli appaiono quando ha la seconda esperienza deve essere diverso da come gli apparivano mentre stava avendo la prima. Supponiamo infatti che le esperienze consecutive siano le stesse a livello di contenuto. Dunque, il mondo appare esattamente allo stesso modo al soggetto durante entrambe le esperienze. Egli “non ha alcuna base per notare un cambiamento nel carattere qualitativo, e dalla premessa precedente segue che non vi è stato alcun cambiamento nel carattere qualitativo” (p. 211). L’argomento si può generalizzare a diverse condizioni naturali e Byrne conclude che le esperienze non possono differire nel carattere qualitativo senza differire nel contenuto rappresentazionale.
Se questo argomento suona troppo vicino a un altro semplice appello alla trasparenza – e/o compie una petizione di principio verso la pittura mentale – Byrne si affretta ad aggiungere che il suo argomento non richiede di accettare la trasparenza ed è compatibile con l’esistenza della pittura mentale stessa (pp. 212–13). Nella misura in cui un soggetto è consapevole della pittura mentale, la sua esperienza è “in parte riflessiva” e rappresenta la propria pittura. Pertanto, una differenza nella pittura sarebbe un’altra differenza nel rappresentatum, non una differenza qualitativa che non è accompagnata da una differenza di contenuto.
Secondo il rappresentazionalismo classico, questo punto potrebbe sembrare una concessione pericolosa. Byrne si attiene alla linea di sopravvenienza del rappresentazionalista (secondo cui non vi è nessuna differenza qualitativa senza una differenza a livello intenzionale), ma se il suo argomento non esclude la pittura mentale, un anti-rappresentazionalista può invece costruire casi di inversione come quello di Block (1990) e la sua “Terra Invertita” (si veda la sezione 4.4 di seguito), e sostenere che la pittura mentale è una caratteristica intrinseca non-funzionale dell’esperienza data nell’introspezione, che è abbastanza vicina a un “quale” nel senso speciale di Block, anche se tale caratteristica è rappresentata riflessivamente dall’esperienza stessa.
Un anti-rappresentazionalista potrebbe anche lamentarsi del fatto che Byrne abbia equivocato il modo in cui debba intendersi il termine “appare”. Block (1996) sostiene che “sembra” [looks] (come in “Quella cosa mi sembra rossa”) è ambiguo, come se il suo significato si trovasse nel mezzo, tra un una lettura intenzionale, o rappresentazionale, e una fenomenica staccata, e crede che i casi di inversione mostrino che i due sensi di “apparire” possono essere distinti. Senza dubbio, avrebbe lo stesso significato di “sembra” [seems]. Che si sia persuasi o meno da un’affermazione del genere, l’argomento di Byrne presuppone che sia falsa. Anche se ciò non è una petizione di principio, l’argomento sostiene un’ipotesi che un anti-rappresentazionalista probabilmente non accetterebbe.
3.5 L’argomento dell’allucinazione
Pautz (2007, 2010) si appella all’esperienza allucinatoria. Supponiamo che stai avendo allo stesso tempo l’allucinazione di un’ellisse rossa, un cerchio arancione e un quadrato verde, senza aver mai esperito prima d’ora nessuno di quei colori o di quelle forme. Un’esperienza di questo tipo ti permette di formare direttamente credenze sul mondo esterno, ad esempio la credenza che esiste un’ellisse rossa, che il rosso è più simile all’arancione che al verde, e che le ellissi sono più simili a cerchi che a quadrati. Questa “proprietà fondante [grounding]” dell’esperienza è a favore di una visione “relazionale”, secondo cui avere un’esperienza mette il soggetto in relazione con “oggetti che coinvolgono proprietà che, se sono proprietà di qualcosa, allora sono proprietà di oggetti estesi” (2007, p. 524). Pautz offre due ulteriori argomenti a favore della relazionalità, basati rispettivamente sulla “proprietà di corrispondenza” e sulla “proprietà di caratterizzazione”.
Data la relazionalità, il rappresentazionalismo ha ancora tre avversari davanti: i dati sensoriali, la teoria “sensazionalista [sensationalist]” di Peacocke (2008) e la “teoria dell’apparenza [appearing]” di Alston (1999). Ma ognuno di questi rivali soccombe a obiezioni; dunque, il rappresentazionalismo è vero per l’esperienza allucinatoria. Ora, perché non estendere il rappresentazionalismo anche all’esperienza veridica? A questo punto rimane un solo avversario che non è ancora stato confutato: il disgiuntivista “positivo”, che sostiene che l’esperienza veridica differisce radicalmente, per sua natura, dall’allucinazione. Pautz sostiene che la teoria disgiuntivista non vale la candela, per via delle complicazioni che impone se la si accetta.
Resta da dimostrare che le proprietà qualitative caratteristiche di un’esperienza possono essere identificate con le sue proprietà rappresentazionali. A questo punto, Pautz si appella al presupposto che per qualsiasi differenza qualitativa tra due esperienze visive, tale differenza ha una componente spaziale, o nel distinguere due sotto-regioni del proprio campo visivo, o nel prestare attenzione a un’esperienza piuttosto che all’altra. In nessun caso, sostiene Pautz, ci sarà una differenza nell’esperienza senza che vi sia una differenza nella sua rappresentazione.
Dal momento che Pautz ha proceduto obiettando alle varie teorie rivali, è giusto ascoltare cosa dicono i loro rispettivi sostenitori per confutarlo.
3.6 Consapevolezza delle qualità sensoriali
La discussione nella prossima sezione, così come in quella precedente, si concentrerà sulla natura delle qualità sensoriali stesse. Secondo il rappresentazionalista, queste qualità non sono mentali; la corrispondente proprietà mentale di uno stato sensoriale è quella di rappresentare la qualità rilevante. Naturalmente, sono gli stati sensoriali e le esperienze stesse che interessano i filosofi della mente, e alcuni critici del rappresentazionalismo obietteranno che la mera rappresentazione di una qualità non può essere tutto ciò che serve per avere il carattere qualitativo che funge da explanandum; torneremo su questa obiezione nella sezione 4.2 di seguito.
Finora non abbiamo detto nulla su cosa significhi essere consapevoli di una qualità.
Se una qualità sensoriale è un oggetto intenzionale di uno stato mentale, allora presumibilmente il proprietario di quello stato è consapevole della qualità nello stesso modo in cui una persona è consapevole in generale dei contenuti intenzionali dei suoi stati mentali, compresi quelli degli atteggiamenti proposizionali non-sensoriali. La questione generale è problematica ed è molto discussa nella letteratura sulla “conoscenza di sé”. Ci sono varie opzioni: rappresentazione di ordine superiore; auto-rappresentazione; modulazione attenzionale; “conoscenza” di qualche tipo più intimo di quelle precedenti; o la replica automatica del contenuto di uno stato del primo ordine in qualsiasi altro stato che sia diretto al primo. In ogni caso, però, i problemi di consapevolezza dei contenuti sono già presenti, e non affliggono in particolar modo la teoria rappresentazionale delle qualità sensoriali.
4. Obiezioni alla teoria rappresentazionalista (Martinis)
La teoria rappresentazionalista (forte) implica la seguente ovvia tesi di sopravvenienza: che non ci può essere differenza di qualità sensoriali senza una differenza rappresentazionale. Le obiezioni alla teoria hanno soprattutto preso la forma di controesempi a tale tesi. Ma iniziamo con quattro obiezioni più generali.
4.1 Obiezioni al non-attuale
Alcuni filosofi sono infastiditi dall’impegno dei rappresentazionalisti nei confronti degli oggetti non-attuali nei casi di allucinazione o di illusione percettiva. Per esempio, Loar (2003) immagina di confrontare l’esperienza di vedere un limone con il caso soggettivamente indistinguibile di avere un’allucinazione di un limone esattamente identico. “Un modo di descrivere ciò è in termini rappresentazionali: le due esperienze presentano il limone reale e un mero oggetto intenzionale come esattamente simili, e questo è ciò che rende le due esperienze indistinguibili […]. Allo stesso tempo, uno possiede un buon senso della realtà, e quindi vuole dire che il limone meramente intenzionale non è niente, e quindi non qualcosa che può somigliare a qualcos’altro” (p. 84). Un sentimento simile è benevolmente attribuito da Levine (2003, p. 59, in nota) a Fred Dretske. La teoria rappresentazionalista è talora assimilata alla estrosa teoria di Alexius Meinong per la quale, al paio delle molte cose che effettivamente esistono, vi sono miriadi di altre cose che sono identiche alle cose che esistono, eccetto per il fatto che mancano della proprietà di esistere. (Pertanto, il cavallo Winx esiste, ma non ha le ali; mentre Pegaso manca di esistenza ma è dotato di ali).
Tuttavia, è importante notare che la metafisica della non-esistenza è un problema di tutti, e non del rappresentazionalista in particolare (o dell’avversario di turno a proposito di qualsivoglia problema). Ci sono cose che non esistono, come un ratto rosa o un limone oggetti di allucinazione. Per quanto problematico sia per l’ontologia fondamentale, tale fatto non implica né l’esegesi di Meinong a tal proposito, né l’interpretazione concretista di David Lewis, né alcun’altra particolare spiegazione metafisica. La teoria rappresentazionalista delle qualità sensoriali è neutrale a proposito di tali fondamentali problemi; essa afferma solamente che quando si ha un’allucinazione di un limone, la giallezza che si esperisce è quella del limone. Naturalmente, né il limone né il suo colore esistono effettivamente, ma, come detto prima, vi sono una moltitudine di cose che non esistono. (E uno dovrebbe chiedersi se, come sostiene Loar, cose e persone non attuali possano somigliare a quelle attuali).
4.2 Rappresentazioni inconsce
Sturgeon (2000), Kriegel (2002a) e Chalmers (2004) sostengono che, dal momento che la rappresentazione può occorrere a livello inconscio, essa non è sufficiente per le qualità sensoriali (né per il fatto che vi è un effetto che l’atto di rappresentare che fa al soggetto, ma questo non è per ora il nostro focus). Ciò sembra confutare il rappresentazionalismo puro, dal momento che secondo tale tesi una rappresentazione del giusto tipo di una proprietà necessariamente costituisce una qualità sensoriale. Il punto non è particolarmente significativo, poiché, come detto prima, il rappresentazionalismo puro non è difeso da nessuno. La questione reale è se la preoccupazione dietro a tale obiezione si estenda al “quasi” rappresentazionalismo o a rappresentazionalismo forte.
Sturgeon sembra in effetti propendere per la tesi più forte per la quale nemmeno la rappresentazione di qualsivoglia tipo speciale invocata dal quasi-rappresentazionalista può essere sufficiente per una qualità sensoriale, poiché qualsiasi rappresentazione di tal tipo può occorrere a livello inconscio. Dal momento che il quasi-rappresentazionalista sostiene specificamente che una qualità sensoriale è semplicemente un representatum del tipo rilevante, questa sarebbe una confutazione netta.
L’obiezione si basa sull’assunzione cruciale che le qualità sensoriali possano occorrere solamente a livello cosciente. Tale assunzione condivide l’ambiguità multipla tipica della parola ‘cosciente’. L’interpretazione in base alla quale la premessa dell’obiezione è più ovviamente falsa è quella al senso (1) o al senso (2) di cui sopra: una rappresentazione può occorrere senza che il soggetto ne sia cosciente, e/o senza l’introspezione del soggetto. Se tuttavia interpretiamo la tacita assunzione nello stesso modo, essa sarebbe indipendentemente rigettata dalla maggioranza dei rappresentazionalisti, i quali sostengono già che una qualità sensoriale possa occorrere senza che sia notata dal suo ospite. (Si consideri un guidatore che guida in modalità “pilota automatico”, il quale ovviamente ha visto la luce rossa, e ha visto in particolare la sua rossezza, ma che tuttavia stava sognando a occhi aperti e non era del tutto cosciente della rossezza o persino del frenare). Se invece si intende il senso (3), l’assunzione non sarebbe problematica in quanto tautologica (una qualità non può occorrere senza che una qualità occorra); ma la premessa dell’obiezione sarebbe un rifiuto banale e una petizione di principio nei confronti del rappresentazionalismo forte, per il quale la rappresentazione rilevante può occorrere senza che una qualità sensoriale occorra.
Che dire del senso (4)? Qui l’obiezione ha una presa leggermente più salda. La premessa è vera; la rappresentazione può occorrere senza che il soggetto provi qualcosa a rappresentare. Ed esiste almeno un senso della frase “l’effetto che fa” per il quale anche l’assunzione tacita è vera: si ricordi che alcuni teorici hanno usato l’espressione per riferirsi semplicemente a una qualità sensoriale (nel senso (3)); perciò, di nuovo, l’assunzione sarebbe tautologica. La presente preoccupazione riguarda però il senso (4), e a questo punto l’obiezione crolla. Poiché per quanto è stato sinora dimostrato, una qualità (di primo ordine) può occorrere senza che il soggetto provi alcunché nell’esperire quella qualità in quell’occasione; il soggetto può esserne completamente inconsapevole.
In virtù di cosa, quindi, un’esperienza contiene o ha inerentemente in sé una qualità sensoriale? La risposta del rappresentazionalista è che è in virtù del rappresentare quella qualità in un modo distintivo. Distintivi di un modo della rappresentazione sono (a) le considerazioni funzionali necessarie a specificare la modalità sensoriale rilevante e (b), assumendo che “esperienza” implichi consapevolezza della qualità sensoriale, qualunque cosa sia resa necessaria dalla propria spiegazione della consapevolezza-di.
4.3 “Intenzionalità fenomenica”
Terry Horgan e co-autori, cominciando da Horgan (2000) e Horgan e Tienson (2002), hanno inaugurato il “programma di ricerca sull’intenzionalità fenomenica” (si veda ad es. i saggi raccolti in Kriegel (2013)). Il programma è ispirato in parte da un’idea di Loar (1987, 2003), ma il suo approccio è differente e le sue pretese molto più ambiziose. I suoi promotori difendono un tipo di intenzionalità interna e stretta, che (come scrivono Horgan e Tienson) non è solamente determinata dalla fenomenologia ma inoltre costituita da essa (pag. 520, 524); in effetti, essi sostengono (p. 529) che la loro intenzionalità interna sia “il tipo fondamentale di intenzionalità: il tipo stretto e fenomenico che è prerequisito per il contenuto ampio e per le condizioni di verità ampie”. Inoltre, per “fenomenico”, essi sembrano intendere le proprietà che “hanno un effetto che fa” nel senso di più alto livello.
Ciò implicherebbe che le proprietà che “hanno un effetto che fa” sono concettualmente o perlomeno metafisicamente antecedenti all’intenzionalità. Se messo insieme al rappresentazionalismo riguardo alle proprietà sensoriali, ne consegue che le proprietà che “hanno un effetto che fa” sono antecedenti ad esse, cosa piuttosto in tensione con lo spirito (ma non categoricamente incompatibile con) del rappresentazionalismo e che certamente determina una generale minaccia di circolarità. La tesi della “intenzionalità fenomenica” dovrà essere considerata in base ai propri meriti e una volta dopo aver visto quale spiegazione offre delle qualità sensoriali. (A ogni modo, la tesi blocca qualsiasi argomento diretto a sostegno del rappresentazionalismo a partire dalla trasparenza. Kriegel (2007, p. 321) invoca infatti la trasparenza in supporto all’intenzionalità fenomenica). Per un’ulteriore discussione, si veda la voce sull’intenzionalità fenomenica).
4.4 La “legge dell’apparenza”
Pautz (2017) nota che vi sono delle restrizioni delle apparenze sensoriali che non hanno un parallelo con altri stati intenzionali come le credenze. Per esempio, una superficie non può apparire allo stesso tempo rotonda e quadrata, o insieme rosso puro e giallo puro nello stesso posto e nello stesso momento; e niente può sembrare rotondo o rosso ma non esteso. Pautz sostiene che tali impossibilità hanno forza metafisica. In contrasto, non vi è nulla metafisicamente o persino nomologicamente impossibile, ma solo irrazionale, nelle credenze o nei desideri contradditori o in altro modo anomali. Come può un rappresentazionalista spiegare l’esistenza di tali leggi?
Speaks (2017) replica chiedendosi se tali leggi siano metafisicamente necessarie. Forse emergono semplicemente dal modo in cui siamo costruiti. Avremmo potuto avere modalità sensoriali dal funzionamento differente, in modo tale da permettere la rappresentazione di stati di cose anomali.
Inoltre, anche se le impossibilità fossero metafisiche, esse potrebbero emergere dalla metafisica dei ruoli funzionali degli stati sensoriali, piuttosto che dalle capacità rappresentazionali di questi stessi stati.
4.5 Controesempi
Giungiamo ora ai casi in cui apparentemente o due esperienze differiscono rispetto alle proprie qualità sensoriali senza differire nel contenuto intenzionale o differiscono interamente nel contenuto intenzionale ma condividendo le qualità sensoriali. Iniziamo con il caso semplificato nel quale (sembra) non vi è contenuto intenzionale.
4.5.1 Stati mentali non-intenzionali
Se ogni qualità sensoriale è una proprietà rappresentata, il carattere fenomenico nel senso (3) è allora esaurito dall’intenzionalità dell’esperienza rilevante. Dal momento che la visione è piuttosto evidentemente rappresentazionale, non deve stupire se i rappresentazionalisti si sono espressi principalmente a proposito delle qualità di colore. Molti altri stati mentali però che hanno carattere fenomenico non sono intenzionali e non rappresentano nulla: sensazioni corporee e, specialmente, stati d’animo. Rey (1998): “Molti hanno notato che gli stati come l’euforia, la depressione, l’ansia, il piacere, l’orgasmo sembrano essere stati nel complesso a proposito di sé stessi, e non caratteristiche di oggetti presentati” (p. 441, corsivo originale). Per quel che conta, è lungi dall’essere ovvio che ogni esperienza specificamente percettiva rappresenti – gli odori, per esempio, non è chiaro che lo facciano.
Il rappresentazionalista ha qui diverse opzioni. Primo, lui/lei può restringere la tesi alle esperienze percettive, o a stati che sono chiaramente ammessi come intenzionali. Ma ciò sarebbe ad hoc e lascerebbe completamente inspiegato il carattere fenomenico degli stati mentali esclusi.
Secondo, rappresentazionalisti come Lycan (1996, 2001) e Tye (1995, 2003b) hanno in dettaglio difeso la tesi di Brentano per la quale ogni stato mentale è infatti intenzionale, inclusi le sensazioni corporee e gli stati intenzionali. È abbastanza facile sostenere che dolore e solletico e persino gli orgasmi hanno alcune caratteristiche rappresentazionali (vedi Tye (1995) e Lycan (1996)). Per esempio, un dolore è sentito come se fosse in una certa parte del proprio corpo, come se quella parte fosse disturbata in qualche modo; questa è la ragione per cui i dolori sono descritti come “brucianti”, “lancinanti”, “pulsanti” e così via. Sebbene sia più difficile sostenere che uno stato d’animo abbia contenuto intenzionale, è plausibile affermare che uno stato di euforia, per esempio, rappresenti l’ambiente circostante come bellissimo ed eccitante, e che l’ansia fluttuante rappresenti che qualcosa di brutto che sta per accadere. Tuttavia, questo non risponde alla precedente obiezione che, anche ammettendo che un dolore, un solletico, o una depressione generalizzata rappresentino qualcosa, tale contenuto rappresentazionale non gioca un ruolo molto importante nel carattere fenomenico generale dello stato mentale in questione.
Terzo, se la trasparenza è rigettata, altre introspettabili caratteristiche di un’esperienza possono contare come parte del suo carattere fenomenico. Lycan (1998) sostiene che, in alcuni stati mentali, le qualità sensoriali non esauriscono la loro “sensazione generale”. Si consideri i dolori. Armstrong (1968) e Pitcher (1970) hanno convincentemente sostenuto che i dolori sono rappresentazionali e hanno oggetti intenzionali, come sempre reali o no, i quali sono le condizioni malsane delle parti del corpo; il dolore è un tipo di propriocezione. Ma tali oggetti intenzionali non esauriscono tutto ciò che si può introspettare a proposito del dolore. Posso introspettare anche il suo essere sgradevole e urgente. Dovremmo distinguere la qualità sensoriale del dolore, il suo fulcro sensoriale specifico (per esempio, il carattere pulsante di un mal di testa), dall’aspetto affettivo e conativo del dolore, che costituisce la sua sgradevolezza. Questi aspetti non sono normalmente sentiti come distinti, eppure due sottosistemi neurologici distinti sono responsabili per l’esperienza complessiva, e possono separarsi. La qualità è quella che rimane anche sotto morfina; quello che la morfina blocca è l’aspetto affettivo – il desiderio che il dolore si fermi, la distrazione, la spinta verso il comportamento tipico del dolore. Rimane poi aperta al materialista la possibilità di trattare le componenti affettive come funzionali piuttosto che rappresentazionali, e ciò non è ad hoc.
Quarto, si ricordi la distinzione tra i sensi (3) e (4) del difficile termine “carattere fenomenico”. Come sempre, la teoria rappresentazionalista tratta solo del senso (3). Ma il senso (4), “l’effetto che fa” l’avere una certa qualità sensoriale, può essere generalizzato: non sono solo le qualità ad avere un “effetto che fa” di ordine superiore; plausibilmente, anche le attitudini proposizionali e altri stati che non possiedono qualità nel senso (3), come ad esempio i pensieri occorrenti, lo possiedono (Siewert (1998), Pitt (2004)). In questo modo, il rappresentazionalista può accusare la presente obiezione di confondere il senso (4) con il senso (3). Rimane da discutere quanto plausibile sia tale accusa.
4.5.2 Stessi contenuti intenzionali, qualità sensoriali diverse
Peacocke (1983) dà tre esempi di questo tipo, Block (1995, 1996) alcuni altri; per una discussione su questi, si veda Lycan (1996). Tye (2003a) fornisce un catalogo esteso di altri casi e li confuta per conto del rappresentazionalista. In ciascun caso, il rappresentazionalista cerca di dimostrare che alla fine dei conti vi sono delle differenze intenzionali sottostanti le differenze qualitative in questione.
Alberi. Nel caso di spicco di Peacocke, la tua esperienza rappresenta due alberi (attuali) a distanze differenti da te, ma come aventi la stessa altezza fisica e altre dimensioni; “eppure, vi è anche un senso per il quale l’albero più vicino occupa una parte del tuo campo visivo maggiore dell’albero più distante” (p. 12). Quel senso è qualitativo, e Peacocke sostiene che nessuna differenza rappresentazionale corrisponde a tale differenza qualitativa.
Tye (1995) e altri hanno replicato che vi sono dopo tutto delle differenze rappresentazionali identificabili che costituiscono la differenza qualitativa nell’esempio degli alberi. Tye punta il dito verso il fatto che uno degli alberi sottende un angolo visivo maggiore rispetto al punto di vista del soggetto, e afferma che questo fatto sia esso stesso rappresentato (non-concettualmente) dall’esperienza visiva. Lycan sostiene che la rappresentazione percettiva sia stratificata, e la visione in particolare rappresenti oggetti fisici come gli alberi per mezzo della rappresentazione di oggetti chiamati “forme”, la maggior parte delle quali sono non-attuali; nell’esempio degli alberi, sono rappresentate forme diverse. In modo molto più promettente, Schellenberg (2008) invoca le proprietà “situazione-dipendenti” degli oggetti esterni, attraverso la percezione delle quali percepiamo inoltre le proprietà di alto livello degli stessi oggetti. Byrne (2001) semplicemente osserva che uno degli alberi è rappresentato come più lontano dal soggetto dell’altro. Ancor meno accomodante, Bourget (2015) ribatte che la tua esperienza rappresenta l’albero più lontano meno dettagliatamente.
Il secondo e terzo esempio di Peacocke riguardano, rispettivamente, la visione binoculare e l’illusione del cubo-reversibile di Necker. A proposito della prima, si vedano Tye (1992) e Lycan (1996). La seconda ha dato origine a una letteratura a sé.
Percezione degli aspetti e attenzione. Il cubo di Necker è uno della crescente famiglia di presunti controesempi che coinvolgono la percezione degli aspetti e l’attenzione selettiva. Altri includono immagini ambigue come, ad esempio, la famosa anatra-coniglio, collezioni di punti o figure geometriche che possono essere “raggruppate” visivamente in modi diversi, o altri arrangiamenti visivi che possono essere osservati in più modi. In ciascun caso, una figura singola e costante, che sembra essere univocamente rappresentata visivamente, ciononostante dà origine a esperienze visive diverse.
I rappresentazionalisti ovviamente rispondono cercando di individuare delle proprietà particolari come representata caratteristiche nelle esperienze divergenti. Per esempio, un’esperienza “anatresca” dell’anatra-coniglio rappresenterà la proprietà di essere un becco senza al contempo rappresentare quella di essere un orecchio; l’esperienza “conigliesca” farà l’opposto. Un modo di raggruppare i puntini mobilizzerà il concetto di riga ma non quello di colonna, ecc. Macpherson (2006) offre una ricca rassegna di tali esempi e di robuste risposte rappresentazionaliste sia esistenti che anticipate.
Uno degli esempi recenti più interessanti (non discusso da Macpherson) è offerto da Nickel (2007):

Nickel afferma che possiamo vedere un set di quadrati scelto arbitrariamente “come prominente”. Per esempio, nella figura 1 possiamo vedere i quadrati corrispondenti a 1, 3, 5, 7, e 9 come prominenti, o, in alternativa, 2, 4, 6, e 8 come prominenti, senza cambiare dove guardiamo e, sembra, mentre continuiamo a rappresentare sempre la stessa figura e i suoi elementi. In particolare, non abbiamo bisogno di cambiare il focus della nostra visione, ma lasciarlo al centro della figura 1, e tuttavia avere esperienze diverse.
Il rappresentazionalista ha qui diverse opzioni. Primo, concentrandosi sull’espressione di Nickel “vedere come prominente”, lei/lui può affermare che si crei un’illusione di distanza tale da portare alla rappresentazione della relazione “più lontano”; oppure, notando che l’avverbio “come” sembri già appartenere al linguaggio rappresentazionale, lei/lui può appropriarsi del termine di Nickel “prominente” per designare una proprietà che lascia poi inspiegata. Secondo, il rappresentazionalista può insistere che la figura sia pittorica, e quindi invocare qualche versione della figura-sfondo, o assimilare il caso a un vedere-come di qualche altro tipo (assumendo che lei/lui abbiano già fornito una spiegazione rappresentazionale del vedere-come in generale). Terzo, lei/lui può rigettare l’assunzione di Nickel che l’intera figura sia effettivamente vista in un solo momento, cancellando l’impressione contraria che Noë (2004) chiama “presenza nell’assenza”. E vi sono ancora altre possibilità, sebbene ciascuna di essa sia destinata a essere controversa.
Block (2010) offre alcuni casi nei quali gli spostamenti di attenzione sembrano cambiare le qualità sensoriali (Carrasco (2006)). “L’effetto dell’attenzione è esperito in termini di apparenza di contrasto, velocità, forma, saturazione di colore ecc. Le cose oggetto d’attenzione appaiono più grandi, più veloci, più saturate e in contrasto più alto” (p. 44). Assumendo un realismo a proposito di contrasto, velocità e tutto il resto, sembrerebbe chiaro che se una cosa che è oggetto di attenzione sembra (ad es.) più grande della sua dimensione attuale, si tratta semplicemente di una rappresentazione falsa o inaccurata. Ma Block si impegna per bloccare questa inferenza.
Per un’ulteriore difesa del rappresentazionalismo contro questi e ulteriori esempi di differenze soggettive nel “raggruppare” e/o nella “prominenza”, si veda Green (2016).
Visione sfocata. È doveroso rivisitare questo caso (che in realtà fu introdotto come un problema per il rappresentazionalismo da Boghossian and Velleman (1989)), perché richiede una forzatura nella strategia rappresentazionalista. La mossa normale del rappresentazionalismo sarebbe quella di dire che l’esperienza visiva rappresenta la parte rilevante del mondo come sfocata, ma in questo caso si vuole concedere l’esistenza di una differenza fenomenica tra il vedere un oggetto sfocato e il vedere in modo sfocato un oggetto di per sé non sfocato. Tye (2003a) nota che tale differenza può essere caratterizzata in termini informazionali: nel primo caso, come quando ad esempio si sta osservando un dipinto sfocato, la visione rappresenta i contorni sfocati come tali, e solamente là dove si trovano. Ma nel secondo caso, la visione fornisce meno informazioni, e così fallisce nel rappresentare dei contorni netti. In modo simile, Tye distingue tra vedere in modo non veridico un oggetto nitido come sfocato, esperienza che incorrettamente rappresenta i contorni come confusi, e il vedere lo stesso oggetto in modo sfocato, esperienza che non li rappresenta, se non per localizzarli entro ampi limiti. Allen (2013) replica che, al contrario, un’esperienza visiva sfocata rappresenta gli oggetti come aventi contorni multipli. Bourget (2015) sostiene che, qualsiasi siano i dettagli chiari, un’esperienza sfocata perde parte del contenuto che sarebbe rappresentato da un’esperienza più a fuoco della stessa scena.
4.5.3 Inversioni
Gli esempi di inversione, nel solco della tradizione lockiana dello “spettro invertito”, formano una categoria speciale tra i presunti controesempi al rappresentazionalismo. Alcuni rispettano il modello precedente (stessi contenuti intenzionali, differenti qualità sensoriali), altri no. L’inversione lockiana riguardava l’inversione delle qualità di colore rispetto alle disposizioni comportamentali, ritenuta possibile da tutti tranne che dai comportamentisti e dai wittgensteiniani. Per trovare un’inversione che funzioni da controesempio alla teoria rappresentazionalista, l’obiettore deve postulare qualità invertite rispetto a tutti i contenuti rappresentazionali o, nel caso del rappresentazionalismo “misto” o “quasi” rappresentazionalismo, qualità invertite rispetto a tutti i contenuti rappresentazionali e tutte le proprietà funzionali rilevanti ecc. (è importante notare che l’ultima ipotesi di inversione è assai più ambiziosa e sarebbe molto più controversa della originale idea lockiana).
Shoemaker (1991) sostiene che questa forma forte di inversione sia possibile, ad esempio che le qualità sensoriali possano essere invertite rispetto ai contenuti rappresentazionali. Ma il suo unico argomento sembra essere che tale inversione è immaginabile o almeno concepibile in senso ampio. Dal momento che la tesi del rappresentazionalista è precisamente che le qualità sensoriali sono semplicemente contenuti rappresentazionali di un certo tipo, ma non che ciò sia analiticamente o concettualmente vero, Shoemaker non dà a lei/lui alcuna ragione per pensare che l’inversione sia realmente, metafisicamente, possibile. (Inoltre, è fin troppo facile pensare ad aspetti di colori invertiti rispetto alla mera rappresentazione; si veda il paragrafo introduttivo della sezione 2. Si deve provare a immaginare la loro inversione rispetto alle rappresentazioni visive del tipo appropriato). Ciò nonostante, vi sono altri scenari di inversione, supportati da argomenti, che il rappresentazionalista deve prendere seriamente.
Teste di pesce. Partendo da un esempio di Byrne (2001), Levine (2003) immagina che esistano delle creature i cui occhi sono collocati ai lati opposti della testa, la quale è fissa, di modo tale che non è loro mai possibile osservare un oggetto con entrambi gli occhi. Ora, si immagini una tale creatura le cui lenti oculari abbiano i colori invertiti l’una rispetto all’altra. (Non che una lente sia stata invertita; le creature sono nate così spaiate). Sembrerebbe che oggetti di identico colore simultaneamente presenti dovrebbero sembrare, per dire, verdi a un occhio ma rossi a un altro. Eppure, viene rappresentata da ciascun occhio la stessa proprietà mondana di colore (ossia, una proprietà di riflettanza di qualche tipo). Ora, ciascun occhio è normale nella popolazione, perciò non si può facilmente dire di nessuno dei due occhi che rappresenti scorrettamente i colori degli oggetti rossi. Ciascun occhio semplicemente vede colori differenti, e così la differenza non è esaurita dal representatum comune.
Il primo punto da sollevare per conto del rappresentazionalista è che, come Levine ammette (p.71), gli occhi sembrano rappresentare il mondo differentemente; “lo spazio appare dalle due parti della testa riempito differentemente”. Inoltre, se testa-di-pesce fosse in grado di girarsi e osservare lo stesso oggetto prima con un occhio e poi con l’altro e via di nuovo, l’oggetto gli apparirebbe successivamente essere di colori differenti. Pertanto, non siamo qui di fronte a un caso di differenza fenomenica senza differenza rappresentazionale.
Ma vi è comunque un puzzle. Se i due occhi rappresentano proprietà differenti e nessuno di essi rappresenta scorrettamente, ed è coinvolta solamente la proprietà di riflettanza di una superficie, che cosa sono i due differenti rappresentata? Esistono diverse opzioni. (i) Si potrebbe provare a trovare una base per affermare che uno dei due occhi rappresenta (dopo tutto) scorrettamente, sebbene sia difficile immaginare quale potrebbe essere tale base. (ii) Come Levine fa notare, si potrebbe adottare la teoria di Shoemaker (1994) citata alla sezione 2, secondo la quale gli occhi rappresentano distinte disposizioni, sebbene tali disposizioni siano realizzate dalle stesse proprietà fisiche. (iii) Se gli occhi sono rispettivamente invertiti rispetto ai colori, allora differiscono funzionalmente. Uno psico-semanticista come quello di Dretske (1986), che fa riferimento essenziale alle funzioni, potrebbe pertanto distinguere qui diversi representata. (iv) Nella misura in cui i due occhi di ciascuna creatura differiscono funzionalmente l’uno dall’altro, la creatura ha due differenti e non equivalenti sistemi visivi. Forse, allora, non possiamo dire che ciascun occhio rappresenta il proprio oggetto rosso come rosso o verde; la stessa proprietà di riflettanza è un colore per uno dei due sistemi visivi e un colore differente per l’altra, come sarebbe per due specie diverse di un organismo, e non sappiamo quali siano questi colori. Il fatto che la proprietà di riflettanza che si realizza sia la stessa in ciascun caso non stabilisce l’identità del representatum, poiché tale proprietà potrebbe essere un disgiunto comune a ciascuna di due distinte proprietà disgiuntive che sono rispettivamente colori per i due tipi di sistema visivo.
Terra invertita. Block (1990) fa ricorso a una “Terra Invertita”, un pianeta che è esattamente uguale alla Terra, eccetto per il fatto che i suoi colori fisici reali sono (in qualche modo) invertiti rispetto ai nostri. Il linguaggio degli abitanti di Terra Invertita suona esattamente come l’italiano, ma i contenuti intenzionali in merito ai colori sono invertiti rispetto ai nostri: quando loro dicono “rosso” intendono verde (se oggetto dell’inversione in questione sono gli oggetti invertiti verdi che corrispondono agli oggetti terrestri rossi), e le cose verdi appaiono a loro verdi anche se le chiamano “rosse”. Ora, una vittima terrestre viene scelta dal consueto scienziato pazzo, resa incosciente, dotata di lenti che invertono i colori, trasportata su Terra Invertita, e ridipinta cosicché eguagli la pelle e il colore dei capelli degli umani del pianeta. Block sostiene che dopo qualche tempo – qualche giorno o qualche millennio – sia il significato delle parole della vittima, sia i contenuti dei suoi atteggiamenti proposizionali, sia tutti gli altri contenuti intenzionali muteranno per eguagliare i contenuti degli abitanti di Terra Invertita, sebbene, intuitivamente, le qualità di colore della vittima rimarranno le stesse. Pertanto, le qualità sensoriali non sono dei contenuti intenzionali.
Una risposta naturale del rappresentazionalista è quella di insistere che qualora i contenuti intenzioni cambiassero, così farebbero anche i contenuti qualitativi. L’argomento pressoché esplicito di Block per negare ciò è che i “qualia” (Block manca di distinguere le qualità sensoriali nel senso (3) dalle loro proprietà di alto ordine che hanno “un effetto che fa” nel senso (4)) sono stretti, mentre i contenuti intenzionali mutano sotto pressione ambientale precisamente perché sono ampi. Se le qualità sensoriali sono effettivamente strette mentre tutti i contenuti intenzionali sono ampi e potrebbero cambiare, allora l’argomento di Block ha successo. (Stalnaker (1996) fornisce una versione dell’argomento di Block che non dipende dall’assunzione che le qualità sono strette; Lycan (1996) lo respinge).
Tre risposte sono quindi disponibili: (i) insistere che i contenuti intenzionali non cambierebbero. I significati delle parole cambierebbero, ma da ciò non segue che i contenuti visivi mai lo farebbero. (ii) Sostenere che, sebbene tutti i contenuti intenzionali ordinari cambierebbero, vi è una classe speciale di contenuti stretti ma comunque rappresentazionali che è alla base dei contenuti ampi; le qualità sensoriali possono essere identificate con i contenuti speciali stretti. (iii) Negare che il contenuto qualitativo sia stretto e argomentare che sia invece ampio, ossia che due persone indistinguibili a livello molecolare possano in effetti esperire qualità diverse. Quest’ultima posizione è quella che Dretske (1996) ha etichettato “esternismo fenomenico”, sebbene nella nostra terminologia si sarebbe chiamata esternismo “qualitativo”.
La risposta (i) non ha avuto molto seguito. (ii) un po’, da Tye (1994) e specialmente Rey (1998). Rey sostiene vigorosamente che i “qualia” siano stretti e offre quindi una teoria rappresentazionalista stretta. (Sebbene, come menzionato sopra, la teoria di Rey non risulta essere una teoria delle qualità sensoriali; vedi la sezione 4.5). Si noti che il rappresentazionalismo fregano è meglio equipaggiato di quello russelliano rispetto a (ii); anche se i contenuti russelliani mutano, non vi è bisogno che quelli fregeani lo facciano. Chalmers (2004) sostiene tale tesi. (Papineau (2014) offre una quarta alternativa: quella di dire che, sebbene gli stati sensoriali rappresentino proprietà mondane quali colore e forma, le qualità sensoriali stesse semplicemente non sono dei representata e quindi non mutano con l’inversione dell’ambiente; piuttosto, esse sono semplicemente proprietà strette dei soggetti. Egli tenta quindi di minimizzare la nostra impressione che le proprietà sensoriali sono presentate alla mente come mondane).
La risposta (iii), l’esternismo fenomenico, è stata difesa da Dretske (1995, 1996), Tye (1995) e Lycan (1996, 2001). Da allora, un certo numero di persone (incluso lo stesso Tye (1998)) hanno chiamato l’assunzione originalmente opposta secondo cui le qualità sensoriali sono strette una intuizione “profonda/potente/irresistibile”, eppure ciò sembra altamente discutibile. Ecco di seguito due argomenti, seppur non molto forti, che affermano che le qualità sono ampie.
Primo, se la teoria rappresentazionalista è corretta, le qualità sensoriali sono determinate da qualsiasi cosa determini il contenuto intenzionale di uno stato psicologico; in particolare, le proprietà di colore rappresentate sono intese come proprietà fisiche istanziate nell’ambiente del soggetto. Ciò che determina il contenuto intenzionale di uno stato psicologico è dato da una psico-semantica nel senso di Fodor (1987). Ma tutte le psico-semantiche plausibili conosciute suppongono contenuti intenzionali ampi. Ovviamente, la teoria rappresentazionalista è proprio ciò che qui è in discussione, ma, se uno ammette che ciò sia indipendentemente plausibile o perlomeno difendibile, il passo successivo verso l’esternismo non è gigante.
Secondo, supponiamo che le qualità sensoriali siano strette. Allora l’argomento di Block di Terra Invertita diventa plausibile, e dimostrerebbe che o le qualità sono proprietà funzionali strette o proprietà di un tipo molto strano la cui esistenza non è suggerita da nient’altro di quello che sappiamo (si veda Lycan (1996), cap. 6). Ma le qualità sensoriali non sono proprietà funzionali, perlomeno non quelle strette: si ricordi il dilemma di Bertie. Inoltre, esse sono palesemente proprietà monadiche, mentre le proprietà funzionali sono tutte relazionali; si vedano inoltre gli argomenti anti-funzionalisti di Block (1978). Pertanto, o le qualità sensoriali sono ampie o le stranezze si moltiplicano oltre misura. Certamente, chiunque offra una teoria rappresentazionalista stretta del tipo (ii) resisterà tale dicotomia.
4.6 Argomenti contro il rappresentazionalismo ampio
Sebbene l’assunzione che le qualità sensoriali siano strette fosse rimasta tacita e indifesa fino a metà del 1990, gli opponenti del rappresentazionalismo ampio hanno da quel momento in poi difeso l’assunzione con vigore. Ecco (solo) alcuni dei loro argomenti, con alcune risposte d’esempio. (Per una discussione più soddisfacente, vedere Lycan (2001)).
Introspezione. Il terrestre di Block, all’improvviso trasportato su terra inversa o qualche altra Terra Gemella del tipo rilevante, non noterebbe niente introspettivamente, nonostante il cambio in contenuto rappresentazionale; pertanto, le qualità sensoriali debbono rimanere invariate e sono quindi strette.
Risposta: la stessa cosa vale per le attitudini proposizionali; infatti, il terrestre trasportato non noterebbe nulla introspettivamente. Eppure, i contenuti delle attitudini sono ampi. L’ampiezza non implica un cambio introspettivo nel caso di trasporto.
Contenuto stretto. Nella letteratura sulle attitudini proposizionali, il corrispondente argomento del trasporto è stato preso come base per un argomento a favore del “contenuto stretto”, ossia a favore di qualcosa che è un contenuto intenzionale all’interno del significato dell’atto, ma che è stretto piuttosto che, come è d’uso, ampio.
Anche il problema sopra menzionato della conoscenza di sé e il problema della “causazione ampia” (Fodor (1987), Kim (1995)) sono stati usati per motivare il contenuto stretto. E infatti qualsiasi argomento generale per il contenuto stretto si applicherà presumibilmente alla rappresentazione sensoriale tanto quanto alle attitudini proposizionali. Se vi è davvero un contenuto stretto, e il contenuto sensoriale è rappresentazionale, allora probabilmente gli stati sensoriali hanno un contenuto stretto anch’essi. Pertanto, le qualità sensoriali possono e debbono essere considerate il contenuto stretto di tali stati
Risposte: In primo luogo, questa è una petizione di principio nei confronti della tesi per la quale le qualità sono ampie. Anche se vi fossero in effetti contenuti ampi impattati all’interno degli stati sensoriali, sarebbe necessario un argomento indipendente per l’identificazione delle qualità sensoriali con quei contenuti piuttosto che con i contenuti ampi. In secondo luogo, e più fermamente, i contenuti sensoriali stretti non corrisponderebbero comunque alle qualità sensoriali nel nostro senso. Per quel che è stato dimostrato finora, la rossezza di una macchia nel mio campo visivo è comunque una proprietà ampia, anche se vi fosse un’altra proprietà stretta sottostante, nello stesso modo in cui i (misteriosi, ineffabili) contenuti stretti sono supposti sottostare alle credenze e ai desideri.
Modellare un cambiamento di qualità. Se i contenuti percettivi sono ampi e se l’ambiente è soggetto a mutamenti, dovremmo aspettarci un cambiamento, anche se i contenuti percettivi non cambierebbero così prontamente come i contenuti delle attitudini. Forse cambierebbero dopo molti secoli su Terra Invertita, se un soggetto potesse restare in vita così a lungo. Ma come si potrebbe anche solo immaginare una precisa qualità essere oggetto di un tale mutamento? Per esempio, si supponga che una qualità debba cambiare dal blu al giallo. Si potrebbe ragionevolmente supporre che un mutamento della blu al giallo avvenga in modo continuo e graduale lungo lo spettro che passa attraverso il verde. Ma è difficilmente plausibile che si possa esperire un tale mutamento, né in particolare un periodo di verdezza certa.
Risposta: Allo stesso modo, non abbiamo un modello plausibile di come mutano i contenuti ordinari delle attitudini. Come può un tipo di stato di credenza passare tranquillamente dall’essere a proposito del blu ad essere a proposito del giallo? Presumibilmente non passando per l’essere a proposito del verde. Pertanto, sotto questo aspetto, il nostro presunto cambiamento qualitativo non è più controverso del cambio attitudinale; se l’argomento funziona nel primo caso, funziona anche nel secondo, contrariamente all’ipotesi.
A ciò si potrebbe rispondere che i contenuti delle attitudini sono più tracciabili, nella misura in cui essi potrebbero portare a una qualche teoria dell’intenzionalità secondo cui il riferimento si può per qualche tempo dividere tra contenuti come il blu e il giallo (es. la teoria di Field (1973) del “riferimento parziale”). Ma è ben più difficile immaginare una fenomenologia “divisa”.
Modi di presentazione (Rey (1998); Chalmers (2004) difende una tesi simile). Non esiste rappresentazione senza modo di presentazione. Se la qualità sensoriale è il representatum, allora essa è rappresentata attraverso un modo di presentazione, e i modi di presentazione possono essere stretti anche se il contenuto rappresentazionale stesso è ampio. In effetti, molti filosofi della mente credono che i modi di presentazione siano ruoli interni causali o funzionali giocati dalle rappresentazioni in questione. Sicuramente, essi sono dei forti candidati a contenuti qualitativi. Non sono essi quindi delle caratteristiche qualitative strette?
Risposta: si ricordi che le qualità sensoriali in sé stesse sono proprietà come la verdezza e la rossezza soggettive, che secondo la teoria rappresentazionalista sono dei representata. I modi o le guise attraverso cui la verdezza e la rossezza sono rappresentate nella visione sono qualcos’altro ancora.
Ma si può plausibilmente sostenere che alcuni modi e guise sono proprietà qualitative o fenomeniche di un qualche tipo, magari qualità di ordine superiore. Si veda la sezione successiva.
Memoria. (Block (1996)). “Ti ricordi il colore del cielo nel tuo scorso compleanno, nell’anno prima di quello, dieci anni prima di quello, e così via e la tua memoria a lungo termine ti fornisce una buona ragione per pensare che il carattere fenomenico della tua esperienza non sia cambiato […] Certamente la memoria può sbagliarsi, ma perché dovremmo supporre che qualcosa debba andare storto in questo caso?” ((pp. 43–44, corsivo e grassetto originali). L’idea è che la memoria agisca come un controllore delle qualità sensoriali e che possa essere usata per supportare l’affermazione che le qualità sono rimaste immutate nonostante il generale mutamento dei contenuti rappresentazionali.
Risposta: i contenuti di memoria sono ampi, e quindi, secondo il ragionamento di Block stesso, essi stessi subiranno un mutamento rappresentazionale nel colore complementare di Terra Invertita. Pertanto, le tue memorie post-mutamento della cara e vecchia Terra sono false. Quando pensi o dici a te stesso, “Sì, il cielo sembra blu come trent’anni fa”, non stai esprimendo lo stesso contenuto di memoria che avresti espresso ai tempi in cui eri appena arrivato su Terra Invertita. Ti stai ora ricordando o sembri ricordare che il cielo sembrava giallo, poiché per te “blu” ora significa giallo. E quella memoria è falsa, dal momento che in quell’occasione di molti anni fa il cielo ti sembrò blu, non giallo; la memoria non è dopotutto un controllore affidabile delle qualità sensoriali. (Lycan (1996) sostiene questa linea; Tye (1998) la espande in modo dettagliato).
Disallineamento strutturale. Seguendo Hardin (1988) e altri, Pautz (2014, 2019) Sostiene che le proprietà strutturali di un campo sensoriale, paradigmaticamente le relazioni di somiglianza, corrispondono ai sostrati neurali delle esperienze rilevanti, piuttosto che alle proprietà chimiche o fisiche dei representata.
Per esempio, la qualità sensoriale blu somiglia al viola più di quanto somigli al verde, ma le riflettanze degli oggetti mondani vanno nel verso opposto: la riflettanza di tipo blu somiglia alla riflettanza di tipo verde più che a quella viola. Un disallineamento ancor più drammatico si ha nel caso degli odori. Pertanto, sembra che le qualità sensoriali siano proprietà strette e non le proprietà mondane ampie predette dalla psico-semantica standard esternista.
Risposta: primo, il fatto che una modalità sensoriale rappresenti due proprietà mondane come simili in una certa misura n non implica che esse siano simili in tal modo; potrebbe esserci un’illusione che riguarda tale somiglianza. Secondo, vi è spazio per discutere esattamente sia quali proprietà chimiche o fisiche costituiscono i representata, sia quale psico-semantica connetta tali proprietà all’esperienza sensoriale.
Pressoché nessuno accetterà tutte le risposte antecedenti. Ma nessuno dovrebbe ora trovare incontestabile né la tesi che le qualità sensoriali sono strette né che sono ampie. È probabile che la questione rimarrà controversa per ancora molto tempo.
5. L’effetto che fa
Alcuni filosofi (es. Dretske (1995), Tye (1995)) usano questa problematica espressione semplicemente per intendere una qualità sensoriale, e questo è uno dei due significati che ha assunto nella recente filosofia della mente. Ma al quarto paragrafo di questa voce, la frase è stata introdotta nel contesto dell’”effetto che fa per il soggetto essere in un particolare stato mentale, specialmente l’effetto che fa a quel soggetto l’esperire una particolare proprietà qualitativa”, che indica che vi è un ulteriore senso (4) secondo il quale (quando lo stato mentale effettivamente comprende una qualità sensoriale) l’effetto che fa è qualcosa al di là della qualità stessa.
Infatti, dal momento che il secondo “effetto che fa” è esso stesso una proprietà della qualità, esso non può chiaramente essere identico a quella qualità. Essa è la proprietà dell’effetto che fa esperire quella qualità; in alternativa, essa è la rilevante proprietà introspettabile dell’esperienza stessa. D’ora in poi parleremo delle proprietà dell’”effetto che fa” o proprietà WIL (what it’s like) intendendo solamente questo tipo fenomenico di alto livello.
5.1 L’ “effetto che fa” di alto livello, distinto dalle qualità sensoriali
Block (1995), come molti altri scrittori, manca di distinguere le proprietà WIL dalle qualità sensoriali. Carruthers (2000) approfondisce invece la distinzione molto bene: una qualità di primo livello si presenta come parte del mondo, non come parte della mente. si tratta, per esempio, del colore apparente di un oggetto apparentemente fisico (o, se si è russelliani, il colore del dato di senso che è capitato di aver incontrato come un oggetto di coscienza).
Una qualità sensoriale è come il mondo è o sembra essere. Ma l’effetto che fa esperire quel colore è l’effetto del tuo stato percettivo di primo ordine, intrinsecamente mentale ed esperito come tale.
Ecco due ulteriori ragioni per mantenere un tale senso distinto della frase. Primo, una qualità sensoriale può essere descritta nel proprio linguaggio pubblico naturale, mentre l’effetto che fa esperire questa qualità sembra essere ineffabile. Immagina che Ludwig chieda a Bertie, “come, esattamente, ti sembra il colore della tua immagine residua?”; Bertie replica, “te l’ho detto, sembra verde”. “Sì”, dice Ludwig, “ma puoi dirmi che effetto fa esperire quell’apparenza ‘verde’?”. “Bene, l’immagine appare come quel colore lì”, dice Bertie, indicando il tessuto del cappotto di George Edward. “No, intendo: puoi dirmi com’è intrinsecamente, non comparativamente?”; “Uhm…” – in un certo senso, Bertie è in grado di descrivere il colore fenomenico paradigmaticamente come “verde”; ma quando gli viene chiesto l’effetto che fa esperire quel verde, si ammutolisce. Pertanto, vi è una differenza tra (a) l’effetto che fa nel nudo senso della qualità, il colore fenomenico che può essere descritto usando le parole di colore ordinarie, e (b) l’effetto che fa esperire quel colore fenomenico, la proprietà WIL, che non può affatto essere facilmente descritta attraverso il linguaggio pubblico naturale.
Secondo, Armstrong (1968), Nelkin (1989), Rosenthal (1991) e Lycan (1996) hanno sostenuto che le qualità sensoriali possono mancare di emergere a livello di coscienza nel senso antecedente di consapevolezza; una qualità può occorrere senza che venga anche solo minimamente notata dal soggetto. Ma in questo caso vi è un senso valido nel quale non vi è alcun effetto che fa per il soggetto esperire quella qualità. (Certamente nel primo senso, quello di Drestke-Tye, vi sarebbe un effetto che fa, dato che la qualità stessa è quella cosa lì. Ma in un altro senso, se il soggetto è interamente inconsapevole della qualità, è strano persino dire che il soggetto la “esperisce”, per non parlare dell’effetto che fa al soggetto esperirla). Pertanto, persino nel caso in cui uno è consapevole della propria qualità, il secondo tipo di effetto che fa, la proprietà WIL, necessita di consapevolezza, ed è pertanto qualcosa di distinto dalla qualità stessa.
5.2 Gli argomenti contro il materialismo basati sull’ “effetto che fa”
È il secondo senso dell’”effetto che fa” che compare negli argomenti anti-materialisti basati sulla “conoscenza” del soggetto dell’”effetto che fa”, primariamente l’argomento del pipistrello di Nagel (1974) e l’argomento della “conoscenza” di Jackson (1982), l’argomento della concepibilità di Chalmers (1996, 2003), e infine gli argomenti del gap esplicativo di Levine (1983, 2001). Iniziamo con il primo di questi: il personaggio di Jackson, Mary, una brillante scienziata intrappolata in un laboratorio completamente in bianco e nero, diventa ciononostante onnisciente riguardo alla fisica e della chimica dei colori, alla neurofisiologia della visione a colori, e a qualsiasi altro fatto pubblico e oggettivo concepibilmente rilevante all’esperienza umana del colore. Eppure, quando Mary viene finalmente rilasciata dalla sua cattività e si avventura nel mondo esterno, essa vede i colori per la prima volta, e impara qualcosa: ossia, l’effetto che fa vedere il rosso e gli altri colori. Pertanto, sembra che essa abbia imparato un nuovo fatto, uno che secondo ipotesi non è pubblico né oggettivo. È un fatto intrinsecamente prospettico. Ciò è una minaccia per il materialismo, dal momento che secondo questa dottrina ogni fatto riguardo alla mente umana è ultimamente un fatto pubblico e oggettivo.
Quando esce dalla stanza, Mary ha fatto due cose: ha finalmente istanziato una qualità sensoriale rossa e ha imparato l’effetto che fa esperire una qualità rossa. Nell’esperirla, ha esperito un “effetto che fa” nel primo dei nostri due sensi. Il fatto che ha imparato ha tuttavia l’ineffabilità caratteristica del nostro secondo senso di “effetto che fa”; se Mary provasse a trasmettere questa nuova conoscenza di una proprietà WIL a una collega ancora deprivata del colore, non sarebbe in grado di esprimerla in italiano.
Abbiamo già discusso la teoria rappresentazionalista delle qualità sensoriali, ma ci sono altre teorie rappresentazionali dell’”effetto che fa” nel secondo senso (4). Una replica comune agli argomenti di Nagel e Jackson (Horgan (1984), Van Gulick (1985), Churchland (1985), Tye (1986), Lycan (1987, 1990, 1996, 2003), Loar (1990), Rey (1991), Leeds (1993)) è notare come una differenza nella conoscenza non implica una differenza nel fatto conosciuto, poiché uno può conoscere un fatto secondo una certa rappresentazione o modo di presentazione, e tuttavia non conoscere quello stesso fatto in un modo di presentazione differente. Qualcuno potrebbe sapere che dell’acqua sta schizzando, ma non sapere che delle molecole di H2O si stanno muovendo e viceversa; qualcuno potrebbe sapere che una persona X è sottopagata senza sapere che lei stessa è sottopagata, anche se è lei stessa la persona X. Pertanto, dalla differenza tra il prima e il dopo nella conoscenza di Mary, Jackson non può legittimamente inferire l’esistenza di un nuovo strano fatto, ma tutt’al più quella di un nuovo modo di rappresentare. Mary non ha imparato un nuovo fatto, ma ha solo acquisito nuovo modo di rappresentare, introspettivo o in prima persona, qualcosa che lei conosceva già nel suo aspetto neurofisiologico.
(Come notato sopra, i modi di presentazione introspettivi postulati per le qualità sensoriali nel senso di primo ordine sono dei candidati forti al titolo di “qualia” in un preciso senso di alto livello del termine, e potrebbero bene essere stretti piuttosto che ampi. Questo è ciò di cui sembra parlare Rey (1998)).
Questa attraente risposta a Nagel e Jackson – la si chiami la risposta “prospettica” – richiede che lo stato qualitativo di primo ordine stesso sia rappresentato (altrimenti come potrebbe essere nuovamente conosciuto attraverso il nuovo modo di presentazione di Mary?). E questa ipotesi a propria volta incoraggia una teoria rappresentazionalista di alto livello della consapevolezza cosciente e dell’introspezione. A ogni modo, le teorie rappresentazionali della consapevolezza vanno incontro a forti obiezioni; il prospettivista deve o accettare una teoria di questo tipo nonostante le sue debolezze o trovare qualche altro modo di spiegare l’idea di una prospettiva introspettiva o di primo ordine senza appellarsi alla rappresentazione di alto livello. L’ultima opzione non sembra promettente; inoltre, un’ulteriore domanda sollevata dalla risposta prospettivista riguarda la natura della presunta rappresentazione stessa di prima persona.
È diventato popolare, specialmente tra i materialisti, parlare di “concetti fenomenici” e supporre che Mary ne abbia acquisito uno che può ora applicare al proprio stato qualitativo di prima persona; è così che essa è in grado di rappresentare il vecchio fatto in un modo nuovo. I concetti fenomenici compaiono anche nelle risposte agli argomenti della concepibilità e del gap esplicativo.
Secondo l’argomento della concepibilità (Chalmers 1996, 2003), gli “zombie” – duplicati fisici di esseri umani ordinari che condividono tutti gli stati fisici e funzionali umani, ma mancano di coscienza fenomenica nel senso (4) – sono concepibili. L’argomento parte dalla mera concepibilità per arrivare alla genuina possibilità metafisica che refuterebbe il materialismo. Secondo l’argomento del gap esplicativo (Levine 1983, 2001), nessuna quantità di informazioni fisiche, funzionali o in altro modo oggettive potrebbe spiegare perché un certo stato sensoriale comporti un effetto che fa per il soggetto nel modo in cui lo fa; la migliore spiegazione di ciò è a propria volta che la sensazione sia un fatto extra che non sopravviene sul fisico.
Lormand (2004) offre un’analisi linguistica molto dettagliata della formula “vi è un effetto che fa per [una creatura] c l’essere in [uno stato mentale] M”, e su questa base difende la tesi che vi sono istanze di questa formula, insieme ad attribuzioni più specifiche di proprietà WIL, che possono in effetti essere dedotte concettualmente almeno da fatti “non fenomenici” che riguardano i soggetti.
Ciò che gli argomenti della conoscenza, concepibilità e gap esplicativo hanno in comune, è che essi partono da un presunto gap epistemico per arrivare a uno metafisico che vorrebbe confutare il materialismo. Sebbene alcuni materialisti rifiutino categoricamente di ammettere un gap epistemico, assai più accettano il gap epistemico e resistono la mossa verso quello metafisico. Il gap epistemico, secondo questa teoria, è creato dall’ “isolamento concettuale” dei concetti fenomenici da tutti gli altri, un isolamento meramente concettuale e non metafisico. Stoljar (2005) la chiama la strategia dei concetti fenomenici. Vi sono molte altre spiegazioni dei concetti fenomenici e di come funzionano; tali concetti sono: “di riconoscimento” (Loar (1990), Carruthers (2000), Tye (2003c)); lessemi propri di un sistema di monitoraggio interno (Lycan (1996)); indicali (Perry (2001), O’Dea (2002), Schellenberg (2013)); dimostrativi (Levin (2007), Stalnaker (2008), Schroer (2010)); “citazionali” o “costitutivi” (Papineau (2002), Balog (2012)); “unimodali” (Dove ed Elpidorou (2016)). Alcune di queste teorie sono minimali, nel senso che aspirano solamente a bloccare le inferenze decisive negli argomenti antimaterialisti sopraccitati. Altri, particolarmente le spiegazioni costitutive, sono più dettagliate e offrono delle spiegazioni di alcune specifiche caratteristiche delle proprietà WIL. Per esempio, Papineau sottolinea che la spiegazione costitutiva spiega la strana persistente attrattiva di alcuni dei più ovviamente fallimentari argomenti antimaterialisti. Sia Papineau che Balog sostengono che tale tesi, secondo cui i token dei concetti fenomenici sono almeno in parte costituiti dal token dello stato mentale stesso che costituisce il loro riferimento, spieghi la speciale direzionalità del riferimento: nessuna caratteristica dello stato è tirata in causa (e quindi a fortiori nessuna caratteristica neuronale, funzionale, causale ecc.); Balog aggiunge che, dato che il riferimento è letteralmente contenuto e presente nel token del concetto, l’atto di istanziarlo (tokening) “farà sempre un certo effetto” (p.7).
La strategia del concetto fenomenico è criticata da Raffman (1995), Stoljar (2005), Prinz (2007), Chalmers (2007), Ball (2009), Tye (2009), Demircioglu (2013), e Shea (2014). Per ulteriori lavori e riferimenti si vedano Alter and Walter (2007), Sundström (2011) ed Elpidorou (2015). Chalmers offre un “argomento maestro” inteso a rifiutare qualsiasi versione della strategia: si tratta del dilemma se sia concepibile o meno che la completa verità fisica fondamentale regga in assenza di qualsiasi concetto fenomenico (che abbia qualsivoglia caratteristica). L’argomento è discusso da Papineau (2007), Carruthers e Veillet (2007), e Balog (2012).
5.3 “Illusionismo”
È possibile negare semplicemente l’esistenza delle proprietà WIL, come fanno Dennett (1991) e Dretske (1995); si vedano anche Humphrey (1992, 2011), Hall (2007), Pereboom (2011) e Tartaglia (2013). Ovviamente far ciò non significa difendere una teoria rappresentazionalista o qualsiasi altra teoria di tali proprietà. Ma non sarebbe male sbarazzarsi della credenza della maggioranza in tali proprietà, e alcuni teorici lo fanno in termini rappresentazionali, sostenendo che l’introspezione rappresenta scorrettamente altre proprietà, reali, come proprietà WIL; Frankish (2016) chiama questa strategia “illusionismo”. Un ovvio esempio di tale rappresentazione scorretta sarebbe quello di confondere una qualità sensoriale per una proprietà WIL; e dato che la confusione tra i due e già dilagante persino tra i filosofi più sofisticati, i negazionisti delle proprietà WIL possono suggerire che ciò che viene introspettato sia solo una qualità sensoriale. (Questo è un modo di comprendere la posizione di Dretske, eccetto per la sua resistenza alla nozione stessa di introspezione come in Dretske (2003)). E, come in precedenza, la frase “l’effetto che fa” è stata non tendenziosamente usata per riferirsi a una qualità sensoriale piuttosto che a una proprietà di un’esperienza presa interamente. Molti autori hanno fatto notare che rigettare le proprietà WIL non vuol dire concedere il punto a Chalmers (1996) per cui per uno zombie privo di proprietà WIL “internamente, tutto è nero” (pp. 95–6).
Rey (1992) suggerisce che l’introspezione scambia la mancanza di dettagli che fornisce per la rappresentazione accurata di una ineffabile proprietà semplice. Alternativamente o in aggiunta (1995), avendo individuato dei complessi stabili e identificabili di risposte involontarie a stati di noi stessi e a creature viventi che sembrano e si comportano come noi, per esempio la sindrome causale, rappresentazionale, conative e affettiva di senso comune che riuniamo sotto la parola ‘dolore’, proiettiamo una qualità semplice sugli altri e noi stessi. Sia Rey che Pereboom paragonano la proiezione di proprietà WIL nella mente attraverso l’introspezione alla proiezione da parte della visione di semplici proprietà di colore omogenee sugli oggetti ambientali.
L’illusionismo è stato criticato da Strawson (2006), Prinz (2016), Balog (2016), Nida-Rümelin (2016), Schwitzgebel (2016), e Chalmers (2018). Sebbene simpatetico con l’illusionismo, Kammerer (2018) sostiene che nessuna spiegazione esistente precedentemente può spiegare la forza dell’illusione. Per una discussione generale, si vedano i saggi contenuti in Frankish (2017).
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