
Originale di Harold Noonan e Ben Curtis.
Traduzione di Filippo Pelucchi (1-3), Daniele Bandioli (4-6), Angelo Trocchia (7-10).
Versione: Inverno 2022.
The following is the translation of Harold Noonan’s e Ben Curtis‘ entry on “Identity” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/fall2022/entries/identity/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at https https://plato.stanford.edu/entries/identity/ . We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.
Gran parte del dibattito sull’identità negli ultimi decenni ha riguardato l’identità personale, e in particolare l’identità personale nel corso del tempo, ma hanno attirato l’attenzione anche l’identità in generale e l’identità tra cose di diverso tipo. Diversi problemi tra loro correlati sono stati al centro della discussione, ma è giusto affermare che la ricerca recente si è concentrata in particolare sui seguenti ambiti: la nozione di criterio di identità; la corretta analisi dell’identità nel tempo e, in particolare, il disaccordo tra sostenitori della perduranza e i sostenitori della resistenza come analisi dell’identità nel tempo; la nozione di identità attraverso mondi possibili e la questione della sua rilevanza per la corretta analisi del discorso modale de re; la nozione di identità contingente; la questione se la relazione di identità sia o simile o meno alla relazione di composizione; e la nozione di identità vaga. Una posizione radicale, sostenuta da Peter Geach, è che questi dibattiti, per come vengono condotti di solito, sono nulli poiché privi di oggetto: la nozione di identità assoluta che presuppongono non ha applicazione; esiste solo un’identità relativa. Un’altra visione sempre più popolare è quella sostenuta da David Lewis: sebbene i dibattiti abbiano un senso, non possono esistere realmente dibattiti sull’identità, dato che non esistono problemi filosofici sull’identità. L’identità è una nozione assolutamente priva di problemi. Esistono solo dei veri e propri problemi che possono essere espressi utilizzando il linguaggio dell’identità. Ma dal momento che questi possono essere riformulati senza questo tipo di linguaggio, non esistono problemi di identità. (Ad esempio, è un problema, un aspetto del cosiddetto “problema dell’identità personale”, se la stessa persona può avere corpi diversi in momenti diversi. Ma questo è solo il problema se una persona può avere corpi diversi in momenti diversi. Quindi, dal momento che può essere descritto senza il linguaggio dell’identità personale, non è un problema di identità personale, ma di personalità [personhood].) Questa voce fornisce una panoramica degli argomenti sopra indicati, alcune valutazioni dei dibattiti e dei suggerimenti per ulteriori letture.
1. Introduzione
Dire che due cose sono identiche significa dire che sono la stessa cosa. “Identità” e “uniformità” [sameness] significano la stessa cosa; i loro significati sono identici. Tuttavia, hanno più di un significato. Di solito si fa una distinzione tra identità (o uniformità) qualitativa e numerica. Le cose con identità qualitativa condividono proprietà: dunque, due cose possono essere qualitativamente identiche in misura maggiore o minore. Barboncini e alani sono qualitativamente identici perché condividono la proprietà di essere un cane, e questa proprietà va di pari passo con questo fatto, ma due barboncini avranno molto probabilmente un’identità qualitativa maggiore. L’identità numerica richiede un’identità qualitativa assoluta, o totale, e può valere solo tra una cosa e sé stessa. Il suo nome implica la controversa visione secondo cui è l’unica relazione di identità in base alla quale possiamo contare (o numerare) correttamente le cose: x e y si devono contare correttamente come una sola cosa soltanto nel caso in cui siano numericamente identici (Geach 1973).
Il nostro argomento sarà l’identità numerica. Come notato, è al centro di diversi dibattiti filosofici, ma a molti sembra di per sé del tutto priva di problemi, perché è proprio quella relazione che tutto ha con sé stesso e con nient’altro – e cosa potrebbe esserci di meno problematico? Inoltre, se la nozione fosse problematica, sarebbe difficile capire come potremmo risolvere questi problemi. Sarebbe infatti difficile vedere come un pensatore possa avere le risorse concettuali per spiegare il concetto di identità pur in assenza di quel concetto stesso. L’essenzialità della nozione di identità nel nostro schema concettuale, e, nello specifico, il legame tra identità e quantificazione, è stata notata in particolare da Quine (1964).
2. La logica dell’identità
L’identità numerica può essere caratterizzata (come abbiamo appena fatto) come la relazione che tutto ha con sé stesso e con nient’altro. Così però è circolare, dato che “nient’altro” significa semplicemente “nessuna cosa non identica numericamente”. Può essere definita, ugualmente in maniera circolare (dato che quantifica su tutte le relazioni di equivalenza compreso sé stessa) come la più piccola relazione di equivalenza (una relazione di equivalenza è una relazione riflessiva, simmetrica e transitiva, ad esempio, avere la stessa forma). Esistono altre definizioni circolari. Di solito l’identità è definita come la relazione di equivalenza (oppure come la relazione riflessiva) che soddisfa la legge di Leibniz, il principio dell’indiscernibilità degli identici, secondo cui se x è identico a y, allora tutto ciò che è vero di x è vero di y. A livello intuitivo ciò è corretto, ma la legge individua l’identità in modo univoco solo se si intende che “ciò che è vero di x” include “l’essere identico a x”; altrimenti è troppo debole. Dunque, la circolarità non viene evitata. Tuttavia, la legge di Leibniz sembra essere cruciale perché possiamo comprendere l’identità e, più nello specifico, per comprendere la distinzione: ci impegniamo alla legge di Leibniz ogni volta che deduciamo da “Fa” e “Non-Fb” che A non è identico a B. A rigor di termini, ciò che viene impiegato in queste inferenze è la contrapposizione della legge di Leibniz (se qualcosa vero di a è falso di b, allora a non è identico a b), che alcuni (nel contesto della discussione sull’identità vaga) hanno messo in dubbio, ma appare indispensabile per comprendere il concetto di identità quanto la stessa legge di Leibniz.
L’inverso della legge di Leibniz, il principio di identità degli indiscernibili, secondo cui se tutto ciò che è vero di x è vero di y, allora x è identico a y, corrisponde banalmente se “ciò che è vero di x” è inteso come “l’essere identico a x” (come richiesto se la legge di Leibniz deve caratterizzare l’identità in modo univoco tra relazioni di equivalenza). Ma spesso “ciò che è vero di x” viene inteso come ristretto, ad esempio, a proprietà qualitative, non relazionali di x. Diventa dunque controverso da un punto di vista filosofico. Si discute a quel punto se sia possibile un universo simmetrico, ad esempio un universo che contiene due sfere qualitativamente indistinguibili e nient’altro (Black 1952).
La stessa legge di Leibniz è stata oggetto di controversia, nel senso che è stata discussa la spiegazione corretta di apparenti controesempi. La legge di Leibniz deve essere chiaramente distinta dal principio di sostitutività, secondo cui se “a” e “b” sono co-designatori (se “a=b” è una frase vera dell’italiano), allora sono sostituibili ovunque salva veritate. Questo principio è banalmente falso. “Espero” contiene sei lettere, “Fosforo” ne contiene sette, ma Espero (la stella della sera) è Fosforo (la stella del mattino). Ancora una volta, nonostante siano identiche, si impara qualcosa sentendo dire che Espero è Fosforo, ma non sentendo dire che Espero è Espero (“Senso e Significato”, in Frege 1969). Giorgione veniva chiamato così per la sua stazza, Barbarelli no, ma Giorgione è Barbarelli (Quine, “Reference and Modality”, 1963). È una verità necessaria che 9 sia maggiore di 7, ma non è una verità necessaria che il numero dei pianeti sia maggiore di 7, anche se i pianeti sono 9. La spiegazione del fallimento del principio di sostitutività può differire da caso a caso. Nel primo esempio, è plausibile dire che la frase “Espero contiene sei lettere” non riguarda Espero, ma riguarda il nome, e lo stesso vale, mutatis mutandis, per “Fosforo contiene sette lettere”. Perciò i nomi non hanno gli stessi riferimenti nell’affermazione di identità e nei predicati. Nell’esempio Giorgione/Barbarelli, ciò sembra meno plausibile. Qui la spiegazione corretta probabilmente è che “veniva chiamato così per la sua stazza” esprime proprietà diverse a seconda del nome a cui è legato, e quindi esprime la proprietà di essere chiamato “Barbarelli” per la sua stazza quando è attaccato a “Barbarelli”, ed essere chiamato “Giorgione” per la sua stazza quando è attaccato a “Giorgione”. È più controverso spiegare gli esempi Espero/Fosforo e 9/il numero dei pianeti. La spiegazione di Frege del primo esempio questa: “è istruttivo dire che Espero è Fosforo” poiché i nomi non indicano il loro referente abituale, ma i loro sensi. Si può anche offrire una spiegazione fregeana dell’esempio del 9/numero dei pianeti: “è necessario che” crea un contesto in cui i designatori numerici stanno per i sensi anziché per i numeri.
Per gli scopi presenti, il punto importante da riconoscere è che, comunque vengano spiegati questi controesempi al principio di sostitutività, non sono dei controesempi alla legge di Leibniz, che non dice nulla sulla sostitutività dei co-designatori in nessuna lingua.
La concezione dell’identità appena avanzata (d’ora in poi chiamata “concezione classica”) la caratterizza come la relazione di equivalenza che ogni cosa ha con sé stessa e con nient’altro e che soddisfa la legge di Leibniz. Queste proprietà formali assicurano che, all’interno di qualsiasi teoria esprimibile per mezzo di uno stock fisso di predicati a uno o più posti, quantificatori e connettivi funzionali alla verità, due predicati qualsiasi che possono essere considerati come espressione di identità (cioè, qualsiasi predicato che soddisfi i due schemi “per tutti gli x, xRx” e “per tutti gli x, per tutti gli y, xRy → (Fx → Fy)” per qualsiasi predicato a un posto in sostituzione di “F”) saranno equivalenti a livello estensionale. Tuttavia, non assicurano che qualsiasi predicato a due posti esprima l’identità all’interno di una particolare teoria, poiché può semplicemente darsi che le risorse descrittive della teoria non siano sufficientemente ricche per distinguere gli elementi tra i quali vale la relazione di equivalenza espressa dal predicato (“Identità” in Geach 1972).
Seguendo Geach, chiamiamo un predicato a due posizioni con queste proprietà in una teoria un “I-predicato” di quella teoria. Rispetto a un’altra teoria più ricca, lo stesso predicato, interpretato allo stesso modo, potrebbe non essere un I-predicato. Se è così, non esprimerà, nemmeno nella teoria più povera, l’identità. Ad esempio, “avere lo stesso reddito di” sarà un I-predicato in una teoria in cui le persone con lo stesso reddito sono indistinguibili, ma non in una teoria più ricca.
Quine (1950) ha suggerito che quando un predicato è un I-predicato in una teoria solo perché il linguaggio in cui la teoria è espressa non consente di distinguere gli elementi che contiene, si possono reinterpretare le frasi della teoria in modo che l’I-predicato nella nuova teoria interpretata esprima l’identità. Ogni frase avrà esattamente le stesse condizioni di verità secondo la nuova interpretazione e secondo quella vecchia, ma i riferimenti delle sue parti sub-sentenziali saranno diversi. Quindi, suggerisce Quine, se si ha una lingua in cui si parla di persone e in cui le persone con lo stesso reddito sono indistinguibili tra loro, i predicati della lingua possono essere reinterpretati in modo che il predicato che prima esprimeva “avere lo stesso reddito” ora esprima l’identità. L’universo del discorso ora è costituito da gruppi di reddito e non da persone. Le estensioni dei predicati monadici sono classi di gruppi di reddito e, in generale, l’estensione di un predicato di n posti è una classe di sequenze di n membri di gruppi di reddito (Quine 1963: 65-79). Qualsiasi predicato a due posti che esprima una relazione di equivalenza potrebbe essere un I-predicato relativo a qualche teoria sufficientemente povera, e il suggerimento di Quine sarebbe applicabile a qualsiasi predicato del genere, sempre ammesso che si possa applicare.
Ma resta il fatto che non è garantito che un predicato a due posti che è un I-predicato nella teoria a cui appartiene esprima l’identità. Infatti, in una lingua del primo ordine non si può affermare alcuna condizione affinché un predicato esprima identità, anziché la mera indiscernibilità per via delle risorse della lingua. Tuttavia, in un linguaggio del secondo ordine, in cui è possibile quantificare tutte le proprietà (non solo quelle per le quali il linguaggio contiene predicati) e la legge di Leibniz è quindi enunciabile, l’identità può essere caratterizzata in maniera univoca. L’identità non è quindi di primo ordine, ma solo definibile di secondo ordine.
3. Identità relativa
4. Criteri di identità (Bandioli)
Una nozione che Geach utilizza ampiamente, e che è anche in uso nelle argomentazioni dei suoi critici, è quella di criterio di identità, cioè uno standard in base al quale l’identità deve essere giudicata. In questa sezione si cercherà di chiarire alcune delle complessità che questa nozione porta con sé.
La nozione di criterio di identità è stata introdotta nella terminologia filosofica da Frege (1884) ed è stata fortemente sottolineata da Wittgenstein (1958). Come essa vada interpretata e l’estensione della sua applicabilità sono ancora oggetto di dibattito.
Un ostacolo considerevole alla comprensione dell’uso filosofico contemporaneo del termine, tuttavia, è che la nozione non sembra essere unitaria. Nel caso degli oggetti astratti (il caso discusso da Frege) il criterio di identità per Fs è pensato come una relazione di equivalenza tra oggetti distinti da Fs. Così, il criterio di identità per le direzioni è il parallelismo delle linee, cioè la direzione della linea a è identica alla direzione della retta b se e solo se la linea a è parallela alla linea b. Il criterio di identità per i numeri è l’equinumerosità dei concetti, cioè il numero di As è identico al numero di Bs se e solo se ci sono esattamente tanti As quanti Bs. La relazione tra il criterio di identità per Fs e il criterio di applicazione per il concetto F (lo standard per l’applicazione del concetto a un individuo), secondo alcuni (Wright e Hale 2001), è che essere un F è semplicemente essere qualcosa per cui le questioni di identità e distinzione devono essere risolte facendo appello al criterio di identità per Fs. (Così, quando Frege proseguì nel suo dare una definizione esplicita dei numeri come estensioni dei concetti, vi ha fatto ricorso solo per dedurre quello che è stato chiamato Principio di Hume – ovvero l’enunciazione del suo criterio di identità per i numeri in termini di equinumerosità dei concetti, e ha sottolineato che considerava l’appello alle estensioni come inessenziale). Nel caso degli oggetti concreti, tuttavia, le cose sembrano stare diversamente. Spesso il criterio di identità per un oggetto concreto di tipo F è detto essere una relazione R tale che per qualsiasi Fs, x e y, x=y se e solo se Rxy. In questo caso il criterio di identità per Fs non è dichiarato come una relazione tra entità distinte da Fs e il criterio di identità non può essere plausibilmente pensato come determinante del criterio di applicazione. Un altro esempio della mancanza di uniformità nella nozione di criterio di identità nella filosofia contemporanea è, nel caso degli oggetti concreti, la distinzione usualmente fatta tra un criterio di identità diacronica e un criterio di identità sincronica; il primo assume la forma “x è a t lo stesso F che y è a t′ se e solo se…”, dove ciò che sostituisce lo spazio è un’affermazione di una relazione che intercorre tra gli oggetti x e y e i tempi t e t′. (Nel caso delle persone, per esempio, un criterio candidato di identità diacronica è: x è a t la stessa persona di y a t se e solo se x a t′ è psicologicamente continuo con y a t′). Un criterio di identità sincronica, invece, si concentrerà su come le parti di una cosa F esistente in un dato momento debbano essere correlate, o come una cosa F in un dato momento sia distinta da un’altra.
Un modo per fare ordine nella discussione sui criteri di identità è quello di utilizzare la distinzione tra criteri di identità a un livello e a due livelli (Williamson 1990, Lowe 2012). I criteri di identità fregeani per le direzioni e i numeri sono a due livelli. Gli oggetti per i quali il criterio viene dato sono distinti dalle entità tra le quali vige la relazione specificata, e possono essere immaginati come a un livello superiore rispetto ad esse. Un criterio a due livelli per Fs assume la forma (limitandoci agli esempi in cui la relazione di criterio è valida tra oggetti):
Se x è un G e y è un G allora d(x) = d(y) sse Rxy
Ad esempio, se x e y sono rette, la direzione di x è identica alla direzione di y se x e y sono parallele.
Un criterio di identità a due livelli è quindi in primo luogo una definizione implicita di una funzione “d( )” (ad esempio, “la direzione di”) nei termini in cui si può definire il predicato sortale “è un F” (“è una direzione” può essere definito come “è la direzione di qualche linea”). Coerentemente con il criterio di identità a due livelli enunciato prima, diverse funzioni distinte possono essere il riferimento del funtore “d”. Quindi, come sottolineato da Lowe (1997: sezione 6), i criteri di identità a due livelli non sono né definizioni di identità, né di identità ristretta a un certo tipo (perché l’identità è universale), e nemmeno dei termini sortali che denotano i tipi per i quali forniscono criteri. Essi limitano e basta, non all’unicità, ma ai possibili referenti del funtore “d” che definiscono implicitamente e forniscono quindi una condizione necessaria per rientrare nel predicato sortale “è un F” (dove “x è un F” è spiegato come “per qualche y, x è identico a d(y)”).
D’altra parte, il criterio di identità per gli insiemi dato dall’Assioma di Estensionalità (gli insiemi sono uguali se e solo se hanno gli stessi membri), a differenza del criterio di identità per i numeri dato dal Principio di Hume, e il criterio di identità degli eventi di Davidson (gli eventi sono uguali se hanno le stesse cause e gli stessi effetti (“The Individuation of Events” nel suo 1980)) sono a un livello: gli oggetti per i quali si afferma il criterio di identità sono gli stessi tra i quali si ottiene la relazione criteriale. In generale, un criterio a un livello per oggetti di tipo F assume la forma:
Se x è un F e y è un F allora x=y sse Rxy
Non tutti i criteri di identità possono essere a due livelli (pena il regresso all’infinito), e si è tentato allora di pensare la distinzione tra gli oggetti per cui è possibile un criterio a due livelli e quelli per i quali è possibile solo un criterio a un livello come coincidente con quella tra oggetti astratti e concreti (e che quindi un criterio a due livelli per gli insiemi debba essere possibile).
Tuttavia, un’applicazione più generale della nozione di due livelli è possibile. Infatti, essa può essere applicata a qualsiasi tipo di oggetto K, tale che il criterio di identità per Ks possa essere pensato come una relazione di equivalenza tra un tipo distinto di oggetti, K*s, anche se alcuni di questi oggetti possono essere intuitivamente considerati concreti.
Quanto questo renda generale l’applicazione della nozione di due livelli è una questione controversa. In particolare, se le cose persistenti sono pensate come composte da (istantanee) parti temporali (si veda la discussione più avanti), il problema di fornire un criterio di identità diacronica per gli oggetti concreti persistenti può essere considerato come il problema di fornire un criterio a due livelli. Ma se le cose persistenti non sono pensate in questo modo, allora non tutte le cose persistenti possono essere dotate di criteri a due livelli. (Anche se alcune lo possono fare. Per esempio, è abbastanza plausibile che il criterio di identità nel tempo per le persone debba essere pensato come dato da una relazione tra corpi).
Come hanno notato Lowe (1997) e Wright e Hale (2001), qualsiasi criterio a due livelli può essere riformulato in una forma a un livello (anche se, ovviamente, non viceversa). Ad esempio, dire che la direzione della linea a è identica alla direzione della linea b se e solo se la retta a è parallela alla retta b significa dire che le direzioni sono uguali se e solo se le rette di cui fanno parte sono parallele, che è la forma di un criterio a un livello. Un modo per unificare i vari modi di parlare di criteri di identità è quindi quello di prendere come forma paradigmatica di affermazione di un criterio di identità un’affermazione del tipo: per qualsiasi x, per qualsiasi y, se x è una F e y è una F allora x=y se e solo se Rxy (Lowe 1989, 1997).
Se la nozione viene interpretata in questo modo, la relazione tra il criterio di identità e il criterio di applicazione sarà quella di una determinazione unidirezionale. Il criterio di identità sarà determinato dal criterio di applicazione, senza determinarlo.
Infatti, in generale, un criterio di identità a un livello per Fs, come spiegato sopra, è equivalente alla congiunzione di:
Se x è un F allora Rxx
e
Se x è un F allora se y è un F e Rxy allora x=y
Ognuno di questi fornisce una condizione necessaria per essere un F. E il secondo dice qualcosa su Fs che non è vero di tutto solo se “Rxy” non implica “x=y”.
Insieme queste condizioni sono equivalenti alla proposizione che ogni F è il F “R-correlato” ad esso. Per la sua forma, questa proposizione afferma una condizione necessaria per essere una cosa del tipo “F”. Il criterio di identità a un livello specifica quindi, di nuovo, la condizione necessaria per essere un oggetto di tipo “F”.
Quindi, una volta stabilite le condizioni necessarie e sufficienti per essere un “F”, non è richiesta alcuna ulteriore stipulazione di un criterio di identità “F”, sia esso a uno o due livelli.
Questa conclusione è, ovviamente, in accordo con l’opinione di Lewis per cui non esistono veri e propri problemi sull’identità in quanto tale (Lewis 1986, cap. 4), mentre è in tensione con l’idea che i concetti sortali, in quanto distinti dai concetti aggettivali, debbano essere caratterizzati dal coinvolgimento di criteri di identità oltre che di criteri di applicazione.
Una concezione dei criteri di identità che permette questa caratterizzazione della nozione di concetto sortale, e che finora non è stata menzionata, è quella di Dummett (1981). Dummett nega che un criterio di identità debba sempre essere considerato come un criterio di identità per un tipo di oggetto. Suggerisce anzi che esiste un livello di base in cui ciò di cui è criterio un criterio di identità, è la verità di un’affermazione in cui non si fa riferimento a nessun oggetto. Un’affermazione di questo tipo può essere espressa utilizzando dimostrativi e gesti ostativi, ad esempio dicendo “Questo è lo stesso gatto di quello”, indicando prima la testa e poi la coda. In un’affermazione di questo tipo, che Dummett chiama dichiarazione di identificazione, non c’è bisogno di fare riferimento a oggetti attraverso l’uso dei dimostrativi, così come non si fa riferimento a nessun oggetto in una frase di posizionamento come “Qui fa caldo”. Una dichiarazione di identificazione è semplicemente, per così dire, un’affermazione relazionale di collocazione, come “Questo è più scuro di quello”. La comprensione di un concetto sortale F implica sia la comprensione delle condizioni di verità di tali enunciati di identificazione che coinvolgono “F”, sia la comprensione delle condizioni di verità di quelle che Dummett chiama “predicazioni grezze” che coinvolgono “F”, enunciati della forma “questo è F”, in cui di nuovo il dimostrativo non serve a riferirsi ad alcun oggetto. I termini aggettivali, che hanno solo un criterio di applicazione e nessun criterio di identità, sono quelli che hanno un uso in tali predicazioni grezze, ma non in dichiarazioni di identificazione. I termini sortali, come appena notato, hanno un uso in entrambi i contesti, e possono condividere i loro criteri di applicazione ma differire nei loro criteri di identità, poiché la comprensione delle condizioni di verità della predicazione grezza “Questo è F” non determina la comprensione delle condizioni di verità dell’affermazione di identificazione “Questo è lo stesso F di quello” (quindi posso sapere quando è giusto dire “Questo è un libro” senza sapere quando è giusto dire “Questo è lo stesso libro di quello”).
Secondo Dummett, quindi, è possibile accettare che ogni volta che viene richiesto un criterio di identità per un tipo di oggetto, questo deve essere (esprimibile come) un criterio a due livelli, che definisce implicitamente un funtore. In sostanza, i criteri a un livello (criteri a un livello non esprimibili in una forma a due livelli) sono ridondanti, determinati dalle precisazioni delle condizioni necessarie e sufficienti per essere oggetti delle specie in questione.
5. Identità nel tempo
Come si è visto nell’ultima sezione, un’altra fonte di apparente disaccordo nel concetto di criterio di identità è la distinzione tra criteri di identità sincronici e criteri di identità diacronici. I criteri di identità possono essere impiegati in modo sincronico, come negli esempi appena citati, per determinare se due oggetti coesistenti sono parti di uno stesso oggetto di un qualche tipo, o in modo diacronico, per determinare l’identità nel tempo. Ma come nota Lowe (2012: 137), è un errore supporre che l’identità diacronica e l’identità sincronica siano tipi diversi di identità e quindi richiedano criteri di identità diversi. Che cos’è allora un criterio di identità nel tempo?
Tuttavia, l’identità nel tempo è di per sé una nozione controversa, perché il tempo implica un cambiamento. Eraclito sosteneva che non ci si poteva bagnare due volte nello stesso fiume, perché vi affluivano sempre nuove acque. Hume sosteneva che l’identità nel tempo fosse una finzione che sostituiamo a un insieme di oggetti relati. Visioni di questo tipo si basano su un fraintendimento della legge di Leibniz: se una cosa cambia, nel momento successivo è vero qualcosa di essa che non è vero nel momento precedente, quindi non è la stessa cosa. La risposta è che ciò che è vero di essa in un momento successivo, per esempio “essere fangoso nel momento successivo”, è sempre stato vero per essa; allo stesso modo, ciò che è vero in un momento precedente, opportunamente espresso, rimane vero per essa. Ma rimane il problema di come caratterizzare l’identità nel tempo e nel cambiamento, dato che esiste una cosa di questo tipo.
Un tema che si è sempre imposto in questo dibattito è la questione (secondo la terminologia di Lewis 1986, cap. 4) della persistenza contro la durata. (Altri, per i quali non c’è spazio per la discussione in questa sede, includono il dibattito sulla Nave di Teseo e sui problemi di reduplicazione o fissione e le questioni a queste legate nelle teorie “il miglior candidato” o “senza candidati rivali” riguardo l’identità nel tempo, e il dibattito sulla supervenienza humeana – si vedano gli articoli sull’identità relativa e sull’identità personale, Hawley 2001 e Sider 2001).
Secondo una delle teorie a riguardo, gli oggetti materiali persistono in quanto hanno parti o stadi temporali, che esistono in tempi diversi e devono essere distinti in base ai tempi in cui esistono – questa è nota come la teoria per cui gli oggetti materiali persistono. Altri filosofi negano che sia così; secondo loro, quando un oggetto materiale esiste in momenti diversi, è interamente presente in quei momenti, perché non ha parti temporali, ma solo parti spaziali, che sono anch’esse interamente presenti nei diversi momenti in cui esistono. Questa è l’opinione secondo cui gli oggetti materiali durano.
I teorici della persistenza, come dice Quine, rifiutano il punto di vista inerente ai tempi del nostro linguaggio naturale. Da questo punto di vista, le cose persistenti durano e cambiano nel tempo, ma non si estendono nel tempo, bensì solo nello spazio. Le cose persistenti vanno quindi distinte nettamente dagli eventi o dai processi, che invece si estendono nel tempo. Un modo per descrivere la posizione del teorico della persistenza, quindi, è dire che egli nega l’esistenza di una categoria ontologica distinta di cose persistenti, o sostanze. Così, scrive Quine, “gli oggetti fisici, concepiti quadrimensionalmente nello spazio-tempo, non vanno distinti dagli eventi o, nel senso concreto del termine, dai processi. Ognuno di essi comprende semplicemente il contenuto, per quanto eterogeneo, di una qualche porzione di spazio-tempo, per quanto scollegata e manipolata” (1960:171).
Nella controversia recente due argomenti sono stati al centro del dibattito sulla durata/persistenza, uno utilizzato dai teorici della persistenza e l’altro dai teorici della durata (per altri argomenti e questioni si veda l’articolo sulle parti temporali di Hawley 2001 e Sider 2001).
Un argomento a favore della persistenza che è stato molto dibattuto è dovuto a David Lewis (1986). Se si rifiuta la persistenza, l’attribuzione di proprietà temporali agli oggetti deve essere considerata come un’affermazione di relazioni irriducibili tra oggetti e tempi. Se Tabby è grasso lunedì, si tratta di una relazione tra Tabby e il lunedì, e se la persistenza è rifiutata si tratta di una relazione irriducibile tra Tabby e il lunedì. Secondo la teoria della persistenza, tuttavia, pur essendovi, ovviamente, una relazione tra Tabby e lunedì, essa non è irriducibile; è valida tra Tabby e lunedì perché la parte temporale di Tabby il lunedì, Tabby-il-lunedì, è intrinsecamente grassa. Se si rifiuta la persistenza, tuttavia, non si può riconoscere un possessore intrinseco della proprietà della grassezza: la grassezza di Tabby il lunedì deve essere considerata come uno stato di cose irriducibile.
Secondo Lewis, questa conseguenza del rifiuto della teoria della persistenza è assurda. Se abbia ragione o meno è oggetto di un intenso dibattito (Haslanger 2003).
Anche se Lewis avesse ragione, tuttavia, la teoria della persistenza potrebbe essere ritenuta insufficiente, poiché non garantisce la posizione più logica: che la grassezza sia la proprietà di un gatto (Haslanger 2003). Secondo la teoria della persistenza, invece, è la proprietà di una parte (temporale) del gatto. I cosiddetti teorici dello stage (Hawley 2001, Sider 2001), accettando l’ontologia della teoria della persistenza, ma modificandone la semantica, offrono un modo per garantire questo risultato desiderabile. Ogni parte temporale di un gatto è un gatto, dicono, quindi Tabby-il-lunedì (che è ciò a cui ci riferiamo con “Tabby”, il lunedì) è un gatto ed è grasso, proprio come vorremmo. I teorici dello stage devono però pagare un prezzo per questo vantaggio rispetto alla teoria della persistenza. Devono infatti accettare il fatto o che i nostri resoconti del numero di gatti nel tempo non sono sempre resoconti del conteggio dei gatti (come quando dico, sinceramente, che ho sempre e solo posseduto tre gatti) o che due stadi-di-gatti (gatti) possono essere contati come uno stesso gatto, in modo che il conteggio dei gatti non sia sempre un conteggio conforme all’identità assoluta.
Un argomento contro la teoria della persistenza che ha ricevuto molte attenzioni è stato quello presentato in varie forme da alcuni autori, tra cui Wiggins (1980), Thomson (1983) e van Inwagen (1990). Applicato alle persone (può essere applicata altrettanto bene ad altre cose persistenti), esso afferma che le persone hanno proprietà diverse, in particolare proprietà modali diverse, rispetto alle somme di stadi-di-persone con cui la teoria della persistenza le identifica. Quindi, per la legge di Leibniz, questa identificazione deve essere errata. Come afferma David Wiggins: “Tutto ciò che è parte di una somma Lesniewskiana [un insieme mereologico definito dalle sue parti] ne fa necessariamente parte… Ma nessuna persona o oggetto materiale normale è necessariamente nello stato complessivo che corrisponderà alla persona- o all’oggetto-momento postulato dalla teoria in discussione” (1980: 168).
Per approfondire un po’: potrei essere morto all’età di cinque anni. Ma quella massima somma di persone-stadi che, secondo la teoria della persistenza, sono io e ha un’estensione temporale di almeno cinquant’anni, non avrebbe potuto avere un’estensione temporale di soli cinque anni. Quindi non posso essere una tale somma di stadi.
Questa argomentazione illustra l’interdipendenza dei vari argomenti trattati sotto la voce identità. La sua validità dipende ovviamente dalla corretta analisi della predicazione modale e, in particolare, dal fatto che debba essere analizzata in termini di “identità tra mondi possibili” o in termini di teoria della controparte di Lewis. Questo è l’argomento della prossima sezione.
6. Identità tra mondi possibili
Nell’interpretazione del discorso modale si fa spesso riferimento all’idea di “identità tra mondi possibili”. Se il discorso modale viene interpretato in questo modo, diventa naturale considerare un’affermazione che attribuisce una proprietà modale a un individuo come un’affermazione sull’identità di quell’individuo attraverso i mondi: “Sarah avrebbe potuto essere milionaria”, secondo questa visione, afferma che esiste un mondo possibile in cui un individuo identico a Sarah è milionario. “Sarah non avrebbe potuto essere milionaria” afferma che in ogni mondo in cui esiste un individuo identico a Sarah, questo individuo non è milionario.
Tuttavia, sebbene questo sia forse il modo più naturale di interpretare gli enunciati modali de re (una volta accettato che l’apparato dei mondi possibili deve essere usato come strumento interpretativo), ci sono difficoltà ben note che rendono l’approccio problematico.
Ad esempio, sembra ragionevole supporre che un manufatto complesso come una bicicletta possa essere stato composto da parti diverse. D’altra parte, non sembra corretto che la stessa bicicletta possa essere stata costruita con parti completamente diverse.
Ma ora consideriamo una serie di mondi possibili, a partire dal mondo attuale, in cui ognuno contiene una bicicletta solo leggermente diversa da quella del mondo precedente, mentre l’ultimo mondo della sequenza è quello in cui c’è una bicicletta composta da parti completamente diverse da quella del mondo attuale. Non si può allora argomentare che ogni bicicletta sia identica a quella del mondo vicina ma non a quella corrispondente in mondi lontani, perché l’identità è transitiva. Sembra quindi che si debba adottare un essenzialismo mereologico estremo, secondo il quale non è possibile alcuna differenza di parti per un individuo, oppure rifiutare l’interpretazione del discorso modale de re come affermazione dell’identità tra mondi possibili.
Questo e altri problemi legati all’identità tra-mondi suggeriscono che in un’analisi del discorso modale dei mondi possibili si dovrebbe impiegare un’altra relazione più debole, di somiglianza o quella che David Lewis chiama controparte. Poiché la somiglianza non è transitiva, questo ci permette di dire che la bicicletta avrebbe potuto avere alcune parti diverse senza essere costretti a sostenere che avrebbe potuto essere completamente diversa. D’altra parte, tale sostituzione non sembra priva di problemi, poiché un’affermazione su ciò che io avrei potuto fare difficilmente sembra, a prima vista, interpretabile correttamente come un’affermazione su ciò che fa qualcun altro (per quanto simile a me) in un altro mondo possibile (Kripke 1972 [1980], nota 13).
Una valutazione dell’analisi teorica della controparte è tuttavia fondamentale non solo per comprendere il discorso modale, ma anche per arrivare a una corretta interpretazione dell’identità nel tempo. Infatti, come abbiamo visto, l’argomentazione contro la teoria della persistenza delineata alla fine dell’ultima sezione dipende dalla corretta interpretazione del discorso modale. Infatti, non è valida in un’analisi della teoria della controparte che permette diverse relazioni di controparte (differenti relazioni di somiglianza) invocate a seconda del senso del termine singolare che è il soggetto della predicazione modale de re (Lewis 1986, cap. 4), poiché la relazione di controparte rilevante per la valutazione di una predicazione modale de re con un termine singolare il cui senso determina che si riferisce a una persona sarà diversa da quella rilevante per la valutazione di una predicazione modale de re con un termine singolare il cui senso determina che esso si riferisce una somma di stadi-di-persone. “Potrei essere esistito solo per cinque anni” significa, secondo il punto di vista di Lewis, “C’è una persona in un mondo possibile simile a me negli aspetti importanti della mia personalità che esiste solo per cinque anni”; “La somma massima di stadi di persone di cui questo stadio attuale è uno stadio potrebbe essere esistita solo per cinque anni” significa “C’è una somma di stadi di persone simile a questa in quegli aspetti importanti per lo status di un’entità come somma di stadi che esiste solo per cinque anni”. Poiché le due relazioni di somiglianza in questione sono distinte, la prima affermazione modale può essere vera e la seconda falsa anche se io sono identico alla somma di stadi in questione.
La teoria della controparte è significativa per la discussione dell’identità nel tempo anche in un altro senso, poiché fornisce l’analogia a cui il teorico dello stage (che considera tutti i riferimenti quotidiani come riferimenti a stadi momentanei piuttosto che persistenti) si appella per spiegare la predicazione temporale de re. Così, secondo il teorico dello stage, “avrei potuto essere grasso” non richiede l’esistenza di un mondo possibile in cui un oggetto identico a me è grasso, ma solo l’esistenza di un mondo in cui una mia controparte (modale) è grassa, così “ero solito essere grasso” non richiede l’esistenza di un tempo passato in cui qualcuno identico a (l’attuale stadio momentaneo che è) me era grasso, ma solo l’esistenza di un tempo passato in cui una mia controparte (temporale) era grassa. Il problema dell’identità nel tempo per le cose di un certo tipo, per i teorici dello stage, diviene solo il problema di caratterizzare l’appropriata relazione di controparte temporale per le cose di quel tipo.
Per una discussione più dettagliata dell’argomento, si veda la voce identità tra-mondi https://plato.stanford.edu/entries/identity-transworld/. Se il discorso modale de re debba essere interpretato in termini di identità tra mondi possibili o di controparte è teoricamente (o in qualche altro modo interamente) rilevante anche per il nostro prossimo argomento, quello dell’identità contingente.
7. Identità contingente (Trocchia)
Prima degli scritti di Kripke (1972 [1980]), poteva apparire come un’ovvietà che gli enunciati d’identità potessero essere contingenti – quando contenevano due termini che differivano nel senso ma avevano identico riferimento, e quindi non erano analitici. Kripke ha sfidato quest’ovvietà, e tuttavia, ovviamente, non ha rigettato la possibilità che vi siano enunciati d’identità contingenti. Egli, piuttosto, ha argomentato che quando i termini che accompagnano il segno d’identità sono quelli che lui chiama designatori rigidi, un enunciato d’identità, qualora fosse vero in qualche modo, deve essere necessariamente vero, ma è necessario che sia conoscibile a priori, come lo sarebbero le verità analitiche. In connessione a ciò, Kirpke argomenta che l’identità e la distinzione sono esse stesse relazioni necessarie: se un oggetto è identico con se stesso, è necessariamente tale, e se è distinto da un altro, lo è necessariamente.
Gli argomenti di Kripke sono stati molto persuasivi, ma ci sono esempi che suggeriscono che la sua conclusione è troppo radicale – e dunque che anche enunciati d’identità che contengono designatori rigidi possono essere, in un certo senso, contingenti. Il dibattito sull’identità contingente si occupa della definizione e analisi appropriata di questi esempi.
Uno dei primi esempi è offerto da Gibbard (1975). Si consideri una statua, Golia, e la cera, Lumpl, di cui è composta. Si immagini che Lumpl e Golia coincidano nella loro estensione spazio-temporale. Saremmo tentati di concludere che esso sono identici. Ma potrebbero non esserlo. Golia potrebbe essere appallottolato in una sfera e distrutto; Lumpl continuerebbe a esistere. I due sarebbero dunque distinti. Perciò pare che l’identità di Lumpl e Golia, se ammessa, deve essere riconosciuta come meramente contingente.
Una risposta a questo argomento a disposizione del kripkiano convinto è semplicemente la negazione che Lumpl e Golia siano identici. Ma assumere ciò è assumere che entità meramente materiali, come statue e blocchi di cera, fatti della stessa esatta materia in ogni momento, possano tuttavia essere distinti, sebbene distinti solo da proprietà modali, disposizionali o controfattuali. Ciò sembra tuttavia ben poco plausibile a molti, il che offre la forza per l’argomento sull’identità contingente. Un altro modo di pensare a tali questioni è nei termini del fallimento della sopravvenienza del macroscopico sul microscopico. Se Lumpl è distinto da Golia, allora un duplicato molto lontano di Lumpl, Lumpl*, coincidente con la statua Golia*, sebbene numericamente distinto da Golia, sarà microscopicamente indistinguibile da Golia in tutti gli aspetti generali, relazionali e non, passati, presenti e futuri, oltre che modali, disposizionali o categorici, ma sarà macroscopicamente distinguibile nei suoi rispetti generali, in quanto non sarà una statua, e avrà proprietà modali come la capacità di sopravvivere a qualsiasi modificazione radicale della forma, che nessuna statua possiede.
David Lewis (in “Controparti di persone e dei loro corpi”, 1971) suggerisce che l’identità di una persona col proprio corpo (assumendo che la persona e il corpo, come Golia e Lumpl, coincidono in ogni momento) è contingente, poiché lo scambio di corpi è una possibilità. Egli si appella alla teoria delle controparti, modificata per permettere una varietà di relazioni controparti, per spiegare ciò. L’identità contingente dunque ha senso, poiché “io e il mio corpo potremmo non essere identici” ora si traduce nella teoria delle controparti “C’è un mondo possibile, m, una controparte unica e personale di me stesso x in m e una controparte del mio corpo y in m, tale che x e y non sono identiche”.
Ciò che è cruciale per dare un senso all’identità contingente è l’accettazione che i predicati modali sono incostanti nella denotazione (cioè, valgono per proprietà differenti quando assegnati a termini singolari di espressioni che quantificano in modo diverso). La teoria della controparti offre un modo di spiegare questa incostanza, ma non è per forza l’unico modo. (Gibbard 1975, Noonan 19991, 1993). Tuttavia, il fatto che gli esempi di identità contingente nella letteratura siano persuasivi a sufficienza da rendere ragionevole accettare l’idea inizialmente sorprendente che le predicazioni modali sono incostanti nella denotazione, è materia di una considerevole controversia.
Infine, in questa sezione, vale la pena di notare esplicitamente l’interdipendenza degli argomenti in discussione: solo se la possibilità di identità contingenti è assicurata, tramite la teoria della controparti o altri resoconti della modalità de re che non definiscono direttamente predicazioni modali de re in termini di identità attraverso i mondi possibili, può essere supportata la teoria della perdurazione (o teoria degli stadi) come un resoconto dell’identità attraverso il tempo in risposta agli argomenti modali di Wiggins, Thomson e van Inwagen.
8. Composizione e identità
Una tesi che ha un lungo pedigree ma solo recentemente ha ottenuto attenzione nella letteratura contemporanea è la tesi della “Composizione come Identità”. La tesi si presenta in una forma debole e una forma forte. Nella forma debole, la tesi è che la relazione di composizione mereologica è analogia in un numero di modi importante alla relazione di identità e pertanto merita di essere definita come un tipo di identità. Nella forma forte, la tesi è che la relazione di composizione è strettamente identica con la relazione di identità, ovvero che le parti di un tutto sono letteralmente (intese come collettivo) identiche con il tutto stesso. La tesi forte viene presa in considerazione da Platone nel Parmenide e altre versioni della tesi sono state discusse da molte figure storiche da allora (Harte 2002, Normore e Brown 2014). Il progenitore della versione moderna della tesi è Baxter (1988aa, 1988b, 2001) ma è più spesso discussa nella formulazione datagli da lewis (1991), che per primo considera la tesi forte prima di rifiutarla in favore della tesi debole.
Sia la versione debole che quella forte della tesi sono motivate dal fatto che c’è una relazione intima speciale tra un intero e le sue parti (un intero è “niente al di là e al di sopra” delle sue parti), sostenuta da affermazioni che l’identità e la composizione sono simili in vari modi. Lewis (1991: 85) offre cinque affermazioni di somiglianza:
1. Innocenza ontologica. Se si crede che un qualche oggetto x esiste, con ciò non si determina alcun ulteriore necessità di ammettere un ulteriore oggetto quando si crede che esiste qualcosa di identico a x. Allo stesso modo, se si crede che alcuni oggetti x1, x2, … xn esistono, con ciò non si determina alcuna ulteriore necessità di ammettere un ulteriore oggetto nell’affermare che esiste qualcosa che è composto da x1, x2, … xn.
2. Esistenza automatica. Se un qualche oggetto x esiste, allora ne segue automaticamente che esiste qualcosa di identico a x. Allo stesso modo, se alcuni oggetti x1, x2, … xn esistono, allora ne segue automaticamente che esiste qualcosa composto da x1, x2, … xn.
3. Composizione Unica. Se qualcosa y è identico a x, allora ogni cosa identica con x è identica a y, ed ogni cosa identica a y è identica a x. Allo stesso modo, se y1, y2, … yn compongono x, allora qualsiasi cosa componga x è identico con y1, y2, … yn, e tutto ciò che è identico a x è composto da y1, y2, … yn.
4. Descrizione esaustiva. Se y è identico a x, allora una descrizione esaustiva di y è una descrizione esaustiva di x, e vice versa. Allo stesso modo, se y1, y2, … yn compone x, allora una descrizione esaustiva di y1, y2, … yn è una descrizione esaustiva di x e vice versa.
5. Stessa collocazione. Se y è identico a x, allora necessariamente, x e y riempiono la stessa regione dello spazio-tempo. Allo stesso modo, se y1, y2, … yn compone x, allora necessariamente y1, y2, … yn occupa la stessa regione dello spazio-tempo.
Chiaramente non tutti saranno d’accordo con ciascuna delle affermazioni di somiglianza di Lewis. Chiunque neghi la composizione mereologica non ristretta, per esempio, negherà 2. E il difensore del pluralismo forte nel dibattito sulla costituzione materiale (es. chi difenda l’idea che ci possono essere entità che coincidono in ogni momento) negherà 3. E alcuni difensori della durata interna che pensano che gli oggetti materiali ordinari possono avere parti distinte in momenti distinti negheranno 5. Ma c’è un problema più generale con 1, come ha reso chiaro van Inwagen (1994: 213). Si consideri un mondo w1 che contiene solo due semplici s1 ed s2. Ora si consideri la differenza tra qualcuno p1 che ritiene che s1 e s2 compongano qualcosa e qualcuno p2 che non è d’accordo. Si chieda: quanti oggetti p1 e p2 credono che ci siano in w1? La risposta, sembra, è che p1 crede che ci siano tre cose e p2, solo due. Allora come può l’affermazione dell’esistenza di fusioni essere considerata innocente ontologicamente? Un suggerimento recente è che sebbene l’affermazione dell’esistenza di fusioni non sia ontologicamente innocente, lo è per-lo-più: affermare le fusioni è affermare ulteriori entità, ma poiché non sono entità fondamentali, esse non contano per gli scopi della scelta tra teorie (Cameron 2014, Schaffer 2008, Williams 2010, e si veda anche Hawley 2014).
Se si crede alle affermazioni di somiglianza di Lewis, si sarà tentanti almeno dalla tesi debole di Composizione come Identità. Se la composizione è un tipo di identità ciò dà qualche tipo di spiegazione del perché i paralleli tra le due siano validi. Ma la tesi forte, cioè che la relazione di composizione è la relazione di identità, dà una spiegazione più completa. Allora perché non ammettere la tesi forte? Perché, molti pensano, ci sono sfide aggiuntive che si presentano a chiunque voglia difendere la tesi forte.
La relazione d’identità classica è tale che può avere solo oggetti singoli come relati (come in: “Billie Holiday = Eleonora Fagan”). Se adottiamo un linguaggio che consente la formazione di termini plurali, possiamo definire in modo non problematico una relazione d’identità plurale che regga anche tra pluralità di oggetti. Enunciati d’identità plurali come “i cacciatori sono identici ai raccoglitori” sono intesi significare che per ogni x, x è uno dei cacciatori sse x è uno dei raccoglitori. Ma, secondo la tesi forte di Composizione come Identità, ci possono essere enunciati ibridi di identità che sono veri i quali mettono in relazione pluralità e oggetti singoli. Per esempio, enunciati come “i mattoni = il muro” sono considerati dai difensori della tesi forte di Composizione come Identità come enunciati ben formati che esprimono un’identità stretta.
La prima sfida che si presenta per i difensori della tesi forte è la meno problematica. Ovvero il problema sintattico per cui enunciati d’identità ibridi sono sgrammaticati in inglese (van Inwagen, 1994: 211). Mentre “Biellie Holiday è identico a Eleonora Fagan” e “i cacciatori sono identici ai raccoglitori” sono enunciati ben formati, sembra che “i mattoni sono identici con il muro” non lo sia. Tuttavia, c’è qualche dubbio sul fatto che gli enunciati di identità siano effettivamente sgrammaticati in inglese, e alcuni hanno fatto notare che questo è comunque un mero artefatto grammaticale dell’inglese che non è presente in altre lingue (es. il norvegese e l’ingherese). Perciò sembra che il massimo richiesto da questa sfida è un po’ di revisionismo grammaticale. E in ogni caso siamo dotati di linguaggi formali che consentono costruzioni ibride in cui esprimere le affermazioni fatte dai difensori della tesi forte. (Sider 2007, Cotnoir 2013) (NB le affermazioni su norvegese e ungherese sono riportate da questi due articoli).
La seconda sfida è più complessa. Ed è il problema semantico di fornire delle condizioni di verità per enunciati ibridi d’identità. Il modo standard di fornire condizioni di verità per enunciati sulle relazioni d’identità clasiche è dire che un enunciato d’identità della forma “a=b” è vero se e solo se a e b hanno lo stesso referente. Ma questa disposizione chiaramente non funziona per enunciati d’identità ibridi, perché non un c’è un (singolo) referente per termini plurali. Inoltre, il modo standard di fornire condizioni di verità per enunciati d’identità plurali (menzionato prima), a suo volta non funziona per gli enunciati ibridi. Dire che “x è uno degli ys” è dire che x è (classicamente) identico con una delle cose nella pluralità nominata, cioè, che x è identico con y1, o con y2 … o identico con yn. Ma allora “i mattoni = il muro” è vero solo se il muro è (classicamente) identico con uno dei mattoni, cioè con b1, o b2, … o bn, come invece non è.
La terza sfida è la più problematica di tutte. Nella sezione 2 è stato fatto notare che la Legge di Leibniz (e le sue contrapposizioni) sembra essere centrale nella nostra comprensione dell’identità e della distinzione. Tuttavia, sembra che i difensori della tesi forte siano portati a negare ciò. Dopo tutto, i mattoni sono tanti, mentre il muro è uno. L’onere della prova sta quindi al difensore della Composizione come Identità forte nello spiegare perché dovremmo pensare che i “sono” negli enunciati d’identità ibridi in realtà esprimono una relazione d’identità.
La seconda e la terza sfida sono state considerate da molti come insormontabili (Lewis, per esempio rifiuta la tesi forte proprio sulla base di esse). Ma, nei lavori di semantica più recenti in quest’area, sono emerse delle proposte che intendono rispondere a entrambe le sfide (Wallace 2011aa, 2011b, Cotnoir 2013). Che ci riescano davvero, tuttavia, rimane da vedere.
9. Identità vaghe
Come l’impossibilità di identità contingenti, l’impossibilità di identità vaghe sembra essere una diretta conseguenza del concetto classico di identità (Evans 1978, si veda anche Salmon 1982). Poiché se a è solo vagamente identico a b, qualcosa è vero di esso – che esso è solo vagamente identico a b – che non è vero dello stesso b, così, secondo la Legge di Leibniz, non è affatto identico a b. Ovviamente, ci sono enunciati di identità vaghi – “Princeton è Princeton borough” (Lewis 1988) – me la conclusione sembra far conseguire che tale vaghezza è possibile solo quando uno o entrambi i termini che accompagnano il segno di identità siano designatori imprecisi. In modo connesso a ciò, sembra che ne segua che l’identità stessa deve essere una relazione determinata.
Ma alcuni esempi suggeriscono che questa conclusione è troppo radicale – che anche enunciati d’identità contenenti designatori precisi possono essere, in qualche senso, indeterminati. Si consideri l’Everest e un ammasso di roccia, ghiaccio e neve precisamente determinato. Ammasso i cui confini non è determinato se siano coincidenti con quelli dell’Everest. Si è tentati di pensare che “Everest” e “Ammasso” siano entrambi designatori precisi (se “Everest” non lo è, lo è qualcosa? Tye 2000) e che “l’Everest è un ammasso di roccia” resta in un certo senso, nondimeno indeterminato.
Coloro che difendono questa posizione devono rispondere all’argomento originale di Evans, rispetto al quale c’è stato un intenso dibattito (si veda l’articolo specifico sulla vaghezza, Eddington 2000, Lewis 1988, Parsons 2000, van Inwagen 1990, Williamson 2002 e 2003), ma anche a varianti più recenti. Non c’è lo spazio per entrare nel vivo di tali questioni qui, ma una variante in particolare dell’argomento di Evans che vale la pena prendere in considerazione brevemente è quella offerta da Hawley (2001). Alfa e Omega sono (due?) persone, la prima delle quali entra nel camerino demoniaco di van Inwagen (1990) che scompone qualsiasi proprietà che sia rilevante per l’identità personale, e la seconda delle quali ne esce:
(1) Non è determinato se sia Alfa ad uscire dal camerino
(2) Alfa è tale che è indeterminato se sia lei ad uscire dal camerino
(3) Non è determinato se Omega esca dal camerino
(4) Omega non è tale che sia indeterminato se sia lei ad uscire dal camerino
(5) Alfa non è identica ad Omega
L’argomento differisce dalla versione standard di Evans nel non dipendere da proprietà che implicano l’identità (es. essere tale che sia indeterminato se si tratti di Omega) per stabilire la distinzione, e ciò rimuove alcune fonti di controversie. Altre, ovviamente rimangono.
Il dibattito sull’identità vaga è troppo vasto per riassumerlo qui, ma per concludere questa sezione possiamo porlo in connessione al dibattito discusso più sopra sull’identità nel corso del tempo.
Per alcuni presunti casi di vaghezza in identità sincroniche, sembra ragionevole accettare la conclusione dell’argomento di Evans e collocare l’indeterminatezza nel linguaggio (si veda “Reply” di Shoemaker in Shoemaker e Swinburne 1984 per il seguente esempio). Una struttura consiste di due hall, Alfa hall e Beta hall, connesse da un corridoio inconsistente; Smith si trova in Alfa hall, Jones si trova in Beta Hall. La natura della struttura è tale che l’enunciato d’identità “L’edificio nel quale si trova Smith è l’edificio nel quale si trova Jones” non è né vera né falsa perché è indeterminato se Alfa hall e Beta hall siano da considerare due edifici distinti o semplicemente come due parti dello stesso edificio. Qui è assolutamente chiaro cosa sta succedendo. Il termine “edificio” è vago in un modo che rende indeterminato se si possa applicare all’intera struttura o solo a ciascuna delle due hall. Di conseguenza, è indeterminato cosa denotino “l’edificio in cui si trova Smith” e “l’edificio in cui si trova Jones”.
I teorici della durata esterna, che accomunano l’identità nel tempo con l’identità nello spazio possono applicare la vaghezza nell’identità nel tempo allo stesso modo. Nell’esempio di Hawley essi possono dire che ci sono varie entità presenti: una che esiste prima e dopo l’evento di oscuramento dell’identità nel camerino, una che esiste solo prima e una che esiste solo dopo. Rimane indeterminato quale di queste sia una persona e perciò è indeterminato anche a cosa si riferiscano i termini singolari “Alfa” e “Omega”.
Ciò implica l’assunzione di un’ontologia che sia più ampia di quella riconosciuta ordinariamente, ma ciò non è nuovo ai teorici della durata esterna, i quali sono felici di considerare qualsiasi regione, comunque sia essa spazio-temporalmente sconnessa, come occupata da un oggetto fisico (Quine 1960: 171).
Come la vedono invece i teorici della durata interna?
Un’opzione per loro è di adottare la stessa risposta e accettare una molteplicità di identità parzialmente coincidenti nello spazio e nel tempo quando per il senso comune sembrerebbe essercene solo una. Ma ciò vorrebbe dire rinunciare a uno dei vantaggi principali offerti dalla teoria della durata interna, la sua prossimità al senso comune.
I teorici della durata interna hanno varie altre opzioni. Potrebbero semplicemente negare l’esistenza delle entità rilevanti e restringere la propria ontologia ad entità che non sono complesse; potrebbero insistere che ogni cambio distrugge l’identità in modo tale che in un senso filosofico stretto Alfa è distinto da Omega; o potrebbero rifiutare questo come un caso di effettiva vaghezza, insistendo che, sebbene noi ignoriamo la risposta, o Alfa sia Omega oppure non lo sia.
In ogni caso, l’opzione più semplice per i teorici della durata interna, che si tengono il più prossimi al senso comune, è di accettare che il caso sia un caso di vaghezza, negare la molteplicità delle entità ammessa dai teorici della durata esterna e così rigettare l’argomento di Evans contro l’identità vaga.
Che le cose stiano così sottolinea il fatto che non ci sono soluzioni semplice al problema che coincidano in ogni aspetto col senso comune. Collocare la vaghezza nel linguaggio richiede di riconoscere una molteplicità di enti dei quali altrimenti noi apparentemente non ci renderemmo conto. Invece, collocarla nel mondo richiede una spiegazione di come, contro l’argomento di Evans, l’impossibilità di identità vaghe non sia una conseguenza diretta della concezione classica d’identità, o addirittura proprio l’abbandono di quella concezione.
10. Ci sono problemi filosofici sull’identità
Infine, in questa voce torniamo brevemente all’idea menzionata nell’introduzione per cui sebbene i dibattiti sull’identità hanno senso, essi non possono essere dibattiti veri e propri sull’identità, in quanto non ci sono problemi filosofici sull’identità stessa. Questa concezione recentemente ha ricevuto maggiore attenzione. Lewis è il più citato difensore di questa tesi. Nel contesto della della discussione sui presunti “problemi” delle identità tra mondi, egli dice:
[Noi] non dovremmo supporre che qui ci troviamo innanzi a problemi che riguardano l’identità. Non ne abbiamo mai. L’identità è semplice e non problematica. Tutto è identico a se stesso; niente è mai identico a nient’altro che se stesso. Non c’è mai alcun problema rispetto a cosa renda qualcosa identico a sé stesso; niente può mai non esserlo (Lewis 1986: 192-3).
L’argomento di Lewis può essere espanso come segue: si consideri un problema presunto sulle condizioni in virtù delle quali una cosa x è identica con una cosa y. Ci sono solo due possibilità: o (i) x è identico a y, oppure (ii) x non è identico a y. Si consideri (i). In questo caso, il problema presunto riguarda le condizioni per cui x è identico con se stesso. Ma non ci possono essere simili problemi, perché è una verità concettuale che tutto è identico con se stesso, e perciò x è identico con se stesso in tutte le circostanza. Chiedere per le condizioni per le quali qualcosa è identico con sé è come chiedere “In virtù di quali condizioni una cosa è una cosa e non due cose?” Non può esservi risposta sensata perché di necessità, se qualcosa è una cosa allora essa è una cosa, e non due cose, e null’altro può essere detto. Ora si consideri (ii). Il problema presunto riguarda ora le condizioni per cui una cosa x è identica con una cosa diversa y. Ma non si può porre simile problema, perché è una verità concettuale che una cosa e una cosa diversa non sono identiche. Chiedere per le condizioni in virtù delle quali una cosa e un’altra cosa sono identiche è come chiedere “in virtù di quali condizioni due cose sono una cosa e non due cose?” Non vi può essere risposta sensata perché di necessità, se due cose sono due cose, allora esse sono due cose e non una cosa, e nient’altro può essere detto. E così, che ci troviamo nel caso di (i) o di (ii), non vi può essere alcun problema sulle condizioni secondo le quali una cosa x è identica con una cosa y.
L’argomento sembra persuasivo, ma chiunque lo accetti si ritrova obbligato ad ammettere è possibile porre problemi che sembrano riguardare l’identità (come il “problema” dell’identità tra mondi) in termini tali che rendono chiaro che tali problemi non sono effettivamente intorno all’identità. Inoltre, sembra che noi usiamo spesso il concetto di identità, e una spiegazione di come e perché lo usiamo così spesso sembra richiedere che l’argomento presentato sia valido.
I più sembrano aver accettato la visione di Lewis (si veda, es. Akiba 2000, Hawthorne 2003, Noonan 2007, Noonan e Curtis 2018), ma ci sono alcuni che dissentono (Gallois 2005, Schumener 2020, Azzano e Carrara 2021). La questione di come e perché usciamo il concetto di identità è stato una preoccupazione centrale di Wittgenstein (si veda Fogelin 1983 per una panoramica al riguardo) e ha di recente ricevuto attenzioni da altri (Burgess 2018).
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