Rappresentazione mentale [DRAFT]

Originale di David Pitt.
Traduzione di Filippo Pelucchi (1-5) e Matteo Maspoli (6-9),
in attesa di revisione.
Versione: Inverno 2022.

The following is the translation of David Pitt’s entry on “Mental Representation” in the Stanford Encyclopedia of Philosophy. The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/mental-representation/ . This translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at https://plato.stanford.edu/entries/mental-representation/ . We’d like to thank the Editors of the Stanford Encyclopedia of Philosophy for granting permission to translate and to publish this entry on the web.

Innanzitutto, la nozione di “rappresentazione mentale” è probabilmente un costrutto teorico delle scienze cognitive. In quanto tale, è un concetto fondamentale della teoria computazionale della mente, secondo la quale gli stati e i processi cognitivi sono costituiti dall’occorrenza, dalla trasformazione e dall’immagazzinamento (nella mente / cervello) di strutture portatrici di informazioni (le rappresentazioni) di un tipo o un altro.

Tuttavia, partendo dal presupposto che una rappresentazione è un oggetto con proprietà semantiche (contenuto, riferimento, condizioni di verità, valore di verità, ecc.), una rappresentazione mentale può essere interpretata in senso più ampio come un oggetto mentale con proprietà semantiche. In quanto tali, le rappresentazioni mentali (così come gli stati e i processi che le coinvolgono) non si devono comprendere solo in termini cognitivi / computazionali. Seconda questa proposta più elaborata, la rappresentazione mentale è un argomento filosofico che mette le sue radici nell’antichità e ha una ricca storia e letteratura precedente rispetto alla “rivoluzione cognitiva” e che continua a interessare la filosofia pura. Sebbene la maggior parte dei filosofi della mente contemporanei riconosca la rilevanza e l’importanza delle scienze cognitive, hanno diverse opinioni sul grado di coinvolgimento rispetto alla sua letteratura, i suoi metodi e i suoi risultati; e rimangono, per molti, questioni sulle proprietà rappresentazionali della mente che possono essere affrontate indipendentemente dall’ipotesi computazionale.

Sebbene il termine “teoria rappresentazionale della mente” sia talvolta usato quasi in modo intercambiabile con “teoria computazionale della mente”, lo useremo qui per riferirci a qualsiasi teoria che postuli l’esistenza di oggetti mentali valutabili semanticamente, inclusi i ferri del mestiere della filosofia – pensieri, concetti, percetti, idee, impressioni, nozioni, regole, schemi, immagini, fantasmi, ecc. – così come i vari tipi di rappresentazioni “sub-personali” postulate dalle scienze cognitive. Le teorie rappresentazionali si possono quindi contrapporre a teorie come quelle di Baker (1995), Collins (1987), Dennett (1987), Gibson (1966, 1979), Reid (1764/1997), Stich (1983) e Thau (2002)), che negano l’esistenza di questi oggetti mentali.

1. La teoria rappresentazionale della mente

La teoria rappresentazionale della mente (TRM, RTM in originale, N.d.R.), che risale almeno ad Aristotele, parte dagli stati mentali di senso comune, come pensieri, desideri, percezioni e immagini. Questi stati si dice che possiedano “intenzionalità” – riguardano o si riferiscono alle cose, e si possono valutare rispetto a proprietà come consistenza, verità, adeguatezza e precisione. (Ad esempio, il pensiero che i cugini non abbiano legami di parentela è inconsistente, la credenza che Elvis è morto è vera, il desiderio di mangiare la luna è inappropriato, un’esperienza visiva di una fragola matura come rossa è accurata, un’immagine di George Washington con i rasta è imprecisa).

TRM definisce questi stati mentali intenzionali come relazioni con rappresentazioni mentali e spiega l’intenzionalità dei primi attraverso le proprietà semantiche degli altri. Ad esempio, credere che Elvis è morto deve essere adeguatamente correlato a una rappresentazione mentale il cui contenuto proposizionale è che Elvis è morto. (Il desiderio che Elvis sia morto, la paura che sia morto, il rimpianto che sia morto, ecc., implicano relazioni diverse con la stessa rappresentazione mentale). Percepire una fragola, secondo la teoria rappresentazionale, significa avere un’esperienza di qualche tipo che è adeguatamente correlata (ad esempio, causata) alla fragola.

TRM vede anche i processi mentali come il pensiero, il ragionamento e l’immaginazione come sequenze di stati mentali intenzionali. Ad esempio, immaginare che la luna sorga sopra una montagna significa, tra le altre cose, intrattenere una serie di immagini mentali della luna (e di una montagna). Dedurre una proposizione q dalle proposizioni p e se p allora q significa (inter alia) avere una sequenza di pensieri della forma p, se p allora q, q.

I filosofi della mente contemporanei hanno tipicamente immaginato (o almeno sperato) che la mente possa essere naturalizzata, cioè che tutti i fatti mentali possano essere spiegati attraverso le scienze naturali. Questa ipotesi è condivisa all’interno delle scienze cognitive, che tenta di fornire spiegazioni di stati e processi mentali, in ultima analisi, attraverso le proprietà del cervello e del sistema nervoso centrale. Nel fare ciò, le varie sotto-discipline delle scienze cognitive (tra cui la psicologia cognitiva e computazionale e le neuroscienze cognitive e computazionali) postulano una serie di diversi tipi di strutture e processi, molti dei quali non sono direttamente implicati da stati e processi mentali per come vengono pensati di solito. Tuttavia, rimane un impegno [commitment] condiviso a favore dell’idea che gli stati e i processi mentali debbano essere spiegati in termini di rappresentazioni mentali.

In filosofia, i recenti dibattiti sulla rappresentazione mentale si sono incentrati sull’esistenza di atteggiamenti proposizionali (credenze, desideri, ecc.) e sulla determinazione dei loro contenuti (come fanno a riguardare ciò che riguardano), e sull’esistenza di proprietà fenomeniche e la loro relazione con il contenuto del pensiero e dell’esperienza percettiva. All’interno delle stesse scienze cognitive, i dibattiti filosoficamente rilevanti si sono concentrati sull’architettura computazionale del cervello e del sistema nervoso centrale e sulla compatibilità dei resoconti scientifici e di senso comune del mentale.

2. Atteggiamenti proposizionali

I realisti intenzionali (ad esempio, Dretske 1988 e Fodor 1987) notano che le generalizzazioni che applichiamo nella vita di tutti i giorni per prevedere e spiegare il comportamento reciproco (spesso indicate collettivamente come “psicologia ingenua”) hanno parecchio successo e sono indispensabili. Ciò che una persona crede, dubita, desidera, teme, ecc. è un indicatore altamente affidabile di ciò che farà quella persona; e non abbiamo altro modo per rendere conto del comportamento dell’altro se non attribuendogli questi stati e applicando le relative generalizzazioni. Ci impegniamo dunque alle verità di base della psicologia ingenua e, dunque, all’esistenza degli stati a cui si riferiscono le sue generalizzazioni. (Alcuni realisti, come Fodor, sostengono anche che la psicologia ingenua sarà giustificata dalla scienza cognitiva, dato che gli atteggiamenti proposizionali possono essere interpretati come relazioni computazionali con le rappresentazioni mentali.)

Gli eliminativisti intenzionali, come Churchland, forse Dennett e (una volta) Stich, sostengono che per spiegare e prevedere con successo le nostre vite e i nostri comportamenti mentali non è implicato alcun atteggiamento proposizionale (né i suoi stati rappresentazionali costitutivi). Churchland (1981) nega che le generalizzazioni fatte dalla psicologia ingenua sugli atteggiamenti proposizionali siano vere. Sostiene che la psicologia ingenua è una teoria della mente con una lunga storia di insuccessi e declino e che resiste ad essere incorporata nella struttura delle moderne teorie scientifiche (compresa la psicologia cognitiva). In quanto tale, è paragonabile all’alchimia e alla teoria del flogisto e dovrebbe andare incontro ad una sorte simile. La psicologia ingenua è falsa e gli stati (e le rappresentazioni) che postula semplicemente non esistono. (Va notato che Churchland non è un eliminativista sulla rappresentazione mentale tout court. Vedi, ad esempio, Churchland 1989.)

Dennett (1987a) ammette che le generalizzazioni della psicologia ingenua sono vere e indispensabili, ma nega che questa sia una ragione sufficiente per credere nelle entità a cui sembrano riferirsi. Egli sostiene che dare una spiegazione intenzionale del comportamento di un sistema significa semplicemente adottare la “posizione intenzionale” [intentional stance] nei suoi confronti. Se la strategia di assegnare stati ricchi di contenuto a un sistema e prevederne e spiegarne il comportamento (assumendo che sia razionale, cioè che si comporti come dovrebbe, dati gli atteggiamenti proposizionali che dovrebbe avere, dato il suo ambiente) ha successo, allora il sistema è intenzionale e le generalizzazioni dell’atteggiamento proposizionale che applichiamo ad esso sono vere. Ma avere un atteggiamento proposizionale non va al di là di questo punto. (Vedi Dennett 1987a: 29.)

Anche se si è pensato che affermasse che le spiegazioni intenzionali dovrebbero essere interpretate in maniera strumentale, Dennett (1991) insiste di essere un realista “moderato” sugli atteggiamenti proposizionali, poiché crede che i modelli nel comportamento e le disposizioni comportamentali di un sistema sulle basi delle quali gli attribuiamo per davvero stati intenzionali sono oggettivamente reali. Tuttavia, nel caso in cui vi siano due o più sistemi di attribuzione intenzionale a un individuo adeguati dal punto di vista esplicativo, ma sostanzialmente diversi, Dennett afferma che non vi è alcun dato fattuale su ciò che crede l’individuo (1987b, 1991). Ciò suggerisce un irrealismo quantomeno sul genere di cose che Fodor e Dretske ritengono essere le credenze, sebbene non sia l’idea secondo cui semplicemente non c’è nulla al mondo che renda vere le spiegazioni intenzionali.

Davidson (1973), (1974) e Lewis (1974) difendono anche l’idea secondo cui avere un atteggiamento proposizionale significa soltanto essere interpretabile in una maniera particolare.

Stich (1983) sostiene che la psicologia cognitiva non faccia affatto tassonomia (o che comunque non dovrebbe) fare tassonomia degli stati mentali in base alle loro proprietà semantiche, poiché l’attribuzione di stati psicologici per contenuto è sensibile a fattori che la rendono problematica nel contesto di una psicologia scientifica. La psicologia cognitiva cerca spiegazioni causali del comportamento e della cognizione, e i poteri causali di uno stato mentale sono determinati dalle sue proprietà intrinseche “strutturali” o “sintattiche”. Le proprietà semantiche di uno stato mentale, tuttavia, sono determinate dalle sue proprietà estrinseche, ad esempio la sua storia, le relazioni ambientali o intra-mentali. Dunque, queste proprietà non possono figurare nelle spiegazioni scientifico-causali del comportamento. (Fodor 1994 e Dretske 1988 sono tentativi realisti di affrontare alcuni di questi problemi.) Stich propone una teoria sintattica della mente, secondo la quale le proprietà semantiche degli stati mentali non svolgono alcun ruolo esplicativo. (Da allora Stich ha cambiato le sue opinioni su diversi di questi problemi. Vedi Stich 1996.)

3. Rappresentazione concettuale e non concettuale

La concezione classica tra i realisti sulle rappresentazioni mentali è che gli stati rappresentazionali si presentino in due tipologie fondamentali (cfr. Boghossian 1995). Ci sono gli stati come i pensieri, che sono composti da concetti e non hanno caratteristiche fenomeniche (“ciò che si prova”) (“qualia”) e quelli come le sensazioni, che hanno caratteristiche fenomeniche ma prive di costituenti concettuali. (Il contenuto non concettuale è generalmente definito come un tipo di contenuto che gli stati di una creatura senza concetti potrebbero comunque possedere).[1] In questa tassonomia, gli stati mentali possono rappresentare in modo analogo alle espressioni dei linguaggi naturali o a disegni, dipinti, mappe, fotografie o filmati. A volte stati percettivi come vedere che qualcosa è blu sono concepiti come stati ibridi, costituiti, ad esempio, da un’esperienza sensoriale non concettuale e da una credenza, o da qualche composto più integrato di elementi concettuali e non concettuali. (Esiste un’ampia letteratura sul contenuto rappresentazionale dell’esperienza percettiva. Vedi la voce sui contenuti della percezione.

(https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/perception-contents/ )

Il disaccordo sulla rappresentazione non concettuale riguarda l’esistenza e la natura delle proprietà fenomeniche, il ruolo che svolgono nel determinare i contenuti delle rappresentazioni sensoriali e quali tipi di proprietà possono essere rappresentati da stati non concettuali. Dennett (1988), ad esempio, nega completamente che esistano cose come i qualia (per come vengono interpretati normalmente); mentre Brandom (2002), McDowell (1994), Rey (1991) e Sellars (1956) negano che siano necessari per spiegare il contenuto dell’esperienza sensoriale. Tra coloro che accettano che le esperienze abbiano un contenuto fenomenico, alcuni (Dretske, Lycan, Tye) sostengono che esse sono riducibili a una specie di contenuto intenzionale, mentre altri (Block, Loar, Peacocke) sostengono che sono irriducibili. (Vedi la discussione nella sezione successiva.) Un ulteriore dibattito riguarda la rappresentabilità non concettuale di proprietà di livello superiore come le proprietà di tipo e le proprietà morali. (Vedi, ad esempio, Dretske 1995 e Siegel 2010, e la voce sui contenuti della percezione. (https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/perception-contents/ )

Alcune discussioni storiche sulle proprietà rappresentazionali della mente (ad esempio, il De Anima di Aristotele, Locke 1689/1975, Hume 1739/1978) sembrano presupporre che le rappresentazioni non concettuali – percetti (“impressioni”), immagini (“idee”) e simili – sono gli unici (o almeno i principali) tipi di rappresentazioni mentali, e che la mente rappresenta il mondo per il fatto di trovarsi in degli stati che assomigliano a cose contenute in esso. Secondo questa visione, tutti gli stati rappresentazionali hanno il loro contenuto in virtù delle loro caratteristiche fenomeniche sensoriali. Tuttavia, argomenti potenti incentrati sulla mancanza di generalità (Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana), ambiguità (Wittgenstein 1953) e non composizionalità (Fodor 1981d) delle rappresentazioni sensoriali e immaginarie, nonché sul fatto che siano inadatte a funzionare come le logiche (Frege 1918 /1997, Geach 1957) o i concetti matematici (Frege 1884/1953), e la simmetria della somiglianza (Goodman 1976), hanno convinto i filosofi che nessuna teoria della mente può cavarsela solo con rappresentazioni non concettuali interpretate in questo modo. (Per ulteriori discussioni, vedi la voce sul contenuto mentale non concettuale https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/content-nonconceptual/ )

C’è stato anche dissenso rispetto alla concezione classica secondo cui le rappresentazioni concettuali (pensieri, credenze) sono prive di fenomenologia. Chalmers (1996), Flanagan (1992), Goldman (1993), Horgan e Tienson (2002), Jackendoff (1987), Levine (1993, 1995, 2001), McGinn (1991a), Pitt (2004, 2009, 2011, 2013), Searle (1992), Siewert (1998, 2011) e Strawson (1994, 2010) affermano che gli stessi stati rappresentazionali puramente concettuali (coscienti) hanno un proprio tipo di fenomenologia. Questo punto di vista – pane quotidiano, va detto, tra i fenomenologi storici e contemporanei – ha guadagnato slancio negli ultimi tempi tra i filosofi analitici della mente. (Vedi, ad esempio, i saggi in Bayne e Montague 2011 e Kriegel 2013, e Chudnoff 2015, Farkas 2008a, Kriegel 2011, Mendelovici 2018, Montague 2016). Se quest’affermazione è corretta, ritorna la questione di quale sia il ruolo della fenomenologia nel determinare il contenuto rappresentazionale per la rappresentazione concettuale; e le ambizioni eliminativiste di Sellars, Brandom, Rey e altri andrebbero incontro a un nuovo ostacolo. Solleverebbe anche prima facie dei problemi per il rappresentazionalismo riduzionista, così come per le teorie naturalistiche riduzioniste del contenuto intenzionale e per l’esternismo in generale.

L’idea che esista una fenomenologia propria del pensiero cosciente – una fenomenologia cognitiva (concettuale, proposizionale) – afferma che si prova qualcosa ad avere un pensiero in maniera accidentale e cosciente (intrattenere un contenuto proposizionale), che è diverso da altri tipi di fenomenologia (visiva, uditiva, ecc.) così come sono l’uno dall’altro. Le opinioni divergono, invece, sul ruolo che svolgerebbe questa fenomenologia nella determinazione dei contenuti delle rappresentazioni concettuali/proposizionali. Alcuni (ad esempio, Siewert) affermano che non svolga questo ruolo. Altri (ad esempio, Horgan e Tienson, Strawson) sostengono che determini solo i contenuti “ristretti”, mentre i contenuti “ampi” sarebbero determinati da relazioni estrinseche con oggetti e proprietà rappresentati. Altri ancora (ad esempio, Farkas 2008b, Pitt) sostengono che è invece l’unico tipo di contenuto concettuale, insistendo su una distinzione netta tra contenuto (senso) e riferimento. C’è anche disaccordo sul fatto che la fenomenologia cognitiva determini o meno ma sia distinta dal contenuto concettuale/proposizionale (ad esempio, Pitt 2004) o che sia identica ad esso (ad esempio, Pitt 2009).

Le sfide principali per questa tesi includono il pensiero inconscio (che, secondo questa teoria, sembra implicare l’esistenza di una fenomenologia inconscia), i concetti indicali (il cui contenuto normalmente si pensa venga individuato in maniera referenziale; vedi Pitt 2013 per un tentativo di affrontare questo problema) e concetti nominali (quei concetti espressi da enunciati in cui compaiono nomi, anch’essi normalmente individuati in maniera referenziale).

Vedi le voci sulla coscienza e l’intenzionalità e l’intenzionalità fenomenica per maggiori discussioni. https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/consciousness-intentionality/ https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/phenomenal-intentionality/

4. Rappresentazionalismo e fenomenismo

Tra i realisti sulle rappresentazioni non concettuali, la divisione principale è tra rappresentazionalisti (chiamati anche “rappresentazionisti” e “intenzionalisti”) – ad esempio, Dretske (1995), Harman (1990), Leeds (1993), Lycan (1987, 1996), Rey (1991), Thau (2002), Tye (1995, 2000, 2009) – e fenomenisti (chiamati anche “fenomenalisti”) – ad esempio Block (1996, 2003), Chalmers (1996, 2004), Evans (1982), Loar (2003a, 2003b), Peacocke (1983, 1989, 1992, 2001), Raffman (1995), Shoemaker (1990). I rappresentazionalisti affermano che il contenuto fenomenico di una rappresentazione non concettuale – cioè il suo carattere fenomenico – è riducibile a una specie di contenuto intenzionale, interpretato in maniera naturalistica (à la Dretske). Secondo questa teoria, i contenuti fenomenici sono proprietà estrinseche rappresentate da rappresentazioni non concettuali. Per contro, i fenomenisti affermano che il contenuto fenomenico di una rappresentazione mentale non concettuale è identico alle sue proprietà fenomeniche intrinseche.

La tesi rappresentazionalista viene spesso formulata come l’affermazione secondo cui le proprietà fenomeniche sono rappresentazionali o intenzionali. Tuttavia, questa formulazione è ambigua tra una tesi riduzionista e una tesi non-riduzionista (sebbene il termine “rappresentazionalismo” sia più spesso usato per la tesi riduzionista. Vedi Chalmers 2004a). Con tesi riduzionista si intende che il contenuto fenomenico di un’esperienza, le proprietà che caratterizzano ciò che si prova ad averla (cioè i qualia) sono certe proprietà estrinseche che essa rappresenta. Ad esempio, l’azzurro che si potrebbe menzionare nel descrivere la propria esperienza (rappresentazione percettiva) di un cielo limpido a mezzogiorno è una proprietà del cielo, non dell’esperienza che se ne ha. L’azzurro è rilevante per la caratterizzazione della tua esperienza perché è proprio la tua esperienza a rappresentarlo, e non perché è la tua esperienza a istanziare l’azzurro. Un’esperienza del cielo non istanzia l’azzurro più di quanto il pensiero che la neve sia fredda non istanzia il freddo. Secondo questa teoria, il contenuto fenomenico dell’esperienza sensoriale è spiegato come la sua rappresentazione delle proprietà estrinseche. (Vedi Byrne e Tye 2006, Dretske 1995, Harman 1990, Lycan 1987, 1996 e Tye 2014, 2015 per l’elaborazione e la difesa di questo “esternismo sui qualia”. Vedi Thompson 2008 e Pitt 2017 per le obiezioni a questa spiegazione). Vedi anche la voce sulle teorie rappresentazionali della coscienza https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/consciousness-representational/ .)

Con tesi non-riduzionista si intende che il contenuto fenomenico di un’esperienza è costituito dalle sue proprietà fenomeniche soggettive intrinseche, che sono esse stesse rappresentazionali. La tua esperienza del cielo rappresenta il tuo colore istanziando un azzurro fenomenico. Tra i fenomenisti c’è disaccordo sul fatto che la rappresentazione non concettuale richieda o meno una strutturazione complessa delle proprietà fenomeniche (Block e Peacocke, nell’opera appena citata, Robinson 1994) (Loar 2003b). Il cosiddetto effetto Ganzfeld in cui, ad esempio, il campo visivo è completamente occupato da un’esperienza uniforme di un singolo colore, è un banco di prova standard: l’effetto Ganzfeld rappresenta qualcosa? (Può darsi che i dubbi sulla rappresentazionalità di tali esperienze siano semplicemente una conseguenza del fatto che fuori del laboratorio non incontriamo mai cose che le producano. Supponendo di farlo regolarmente, (e soprattutto di avere dei nomi per questi effetti), sembra improbabile che possa sorgere uno scetticismo del genere)

La maggior parte dei rappresentazionalisti (riduzionisti) è spinta dalla convinzione che l’una o l’altra spiegazione naturalistica dell’intenzionalità (vedi la sezione successiva) sia a grandi linee corretta, e dal desiderio di completare la naturalizzazione del mentale applicando queste teorie al problema della fenomenicità. (Inutile dire che molti fenomenisti sono altrettanto ansiosi di naturalizzare il fenomenico, anche se non allo stesso modo.)

L’argomento principale a favore del rappresentazionalismo fa appello alla trasparenza dell’esperienza (cfr. Tye 2000: 45–51). Le proprietà che caratterizzano l’esperienza sensoriale sono presentate nell’esperienza come proprietà di oggetti percepiti: nel tentativo di prestare attenzione a un’esperienza, sembra di “vedere attraverso di essa” gli oggetti e le proprietà di cui si fa esperienza.[2] Gli oggetti non sono presentati come proprietà dell’esperienza stessa. Se tuttavia fossero proprietà dell’esperienza, la percezione sarebbe incredibilmente ingannevole. Eppure, la percezione non è incredibilmente ingannevole. Nella percezione veridica, queste proprietà sono istanziate localmente; nell’illusione e nell’allucinazione, invece no. Secondo questa visione, l’introspezione è percezione indiretta: si arriva a conoscere quali caratteristiche fenomeniche possieda la propria esperienza venendo a sapere quali caratteristiche oggettive rappresenta. (Cfr. anche Dretske 1996, 1999)

Per spiegare le differenze intuitive tra rappresentazioni concettuali e sensoriali, i rappresentazionalisti si appellano a proprietà strutturali o funzionali. Dretske (1995), ad esempio, distingue esperienze e pensieri in base all’origine e alla natura delle loro funzioni: un’esperienza di una proprietà P è uno stato di un sistema la cui funzione evoluta è quella di indicare la presenza di P nell’ambiente; un pensiero che rappresenta la proprietà P, d’altro canto, è uno stato di un sistema la cui funzione assegnata (appresa) è quella di calibrare l’output del sistema esperienziale. Rey (1991) considera sia i pensieri che le esperienze come relazioni con gli enunciati nel linguaggio di pensiero e li distingue sulla base dei ruoli funzionali dei predicati costitutivi di questi enunciati. Lycan (1987, 1996) li distingue in termini di profili funzionali-computazionali. Tye (2000) li distingue in termini di ruoli funzionali e struttura intrinseca dei loro veicoli: i pensieri sono rappresentazioni in un mezzo simile al linguaggio, mentre le esperienze sono rappresentazioni simili a immagini costituite da “matrici piene di simboli”. (Cfr. la spiegazione delle immagini mentali in Tye 1991)

I fenomenisti tendono a fare uso dello stesso tipo di proprietà (funzione, struttura intrinseca) per spiegare alcune delle differenze intuitive tra pensieri ed esperienze; ma non suppongono che queste proprietà esauriscano le differenze tra rappresentazioni fenomeniche e non fenomeniche. Per il fenomenista, sono le proprietà fenomeniche delle esperienze – i qualia stessi – che costituiscono la differenza fondamentale tra esperienza e pensiero. Peacocke (1992), ad esempio, sviluppa la nozione di uno “scenario” percettivo (un’assegnazione di proprietà fenomeniche a coordinate di uno spazio egocentrico tridimensionale), il cui contenuto è “corretto” (una proprietà semantica) se nella scena “corrispondente” (la parte del mondo esterno rappresentata dallo scenario) le proprietà sono distribuite come lo sono i loro analoghi fenomenici nello scenario.

Un altro tipo di rappresentazione a cui si appellano alcuni fenomenisti (ad esempio, Chalmers (2003), Block (2003)) è ciò che Chalmers chiama un “concetto fenomenico puro”. Un concetto fenomenico in generale è un concetto la cui denotazione è una proprietà fenomenica, e può essere discorsivo (“il colore delle banane mature”), dimostrativo (“questo colore”; Loar 1990/96)) o anche più diretto. Secondo Chalmers, un concetto fenomenico puro è qualcosa di simile a un ibrido concettuale/fenomenico costituito da un “campione” fenomenologico (un’immagine o una sensazione ricorrente) integrato con (o funzionante come) una componente concettuale (vedi anche Balog 1999 e Papineau 2002). I concetti fenomenici sono postulati per spiegare il fatto apparente (tra gli altri) che, come afferma McGinn (1991b), “non si possono formare concetti [introspettivi] di proprietà coscienti a meno che non si istanzino quelle proprietà”. Non si può avere un concetto fenomenico di una proprietà fenomenica P, e, dunque, credenze fenomeniche su P, senza avere esperienza di P, perché P stesso costituisce in qualche modo il concetto di P. (Cfr. Jackson 1982, 1986 e Nagel 1974). (La cosiddetta “strategia dei concetti fenomenici” utilizza i concetti fenomenici puri per difendere l’argomento della conoscenza contro il fisicalismo. Vedi Loar 1990/96, Chalmers 2004a. Alter e Walter 2007 è un’eccellente raccolta di saggi sui concetti fenomenici. Vedi Conee 1994 e Pitt 2019 per le risposte scettiche a questa strategia).

5. Immagini

Sebbene le immagini abbiano svolto un ruolo importante nella storia della filosofia della mente, la letteratura contemporanea rilevante su di esse è principalmente psicologica. (Tye 1991 e McGinn 2004 sono notevoli eccezioni recenti.) In una serie di esperimenti psicologici condotti negli anni ’70 (riassunti in Kosslyn 1980 e Shepard & Cooper 1982), è stato rilevato che il tempo di risposta dei soggetti in compiti che comportano la manipolazione mentale e l’esame delle figure presentate variava in proporzione alle proprietà spaziali (dimensione, orientamento, ecc.) delle figure presentate. La questione di come andrebbero interpretati questi risultati sperimentali ha acceso un vivace dibattito sulla natura delle immagini e dell’immaginazione.

Kosslyn (1980) afferma che i risultati suggeriscono che i compiti sono stati svolti attraverso l’esame e la manipolazione di rappresentazioni mentali che hanno esse stesse proprietà spaziali, cioè rappresentazioni pittoriche o immagini. Altri, principalmente Pylyshyn (1979, 1981a, 1981b, 2003), sostengono che i fatti empirici possono essere spiegati esclusivamente in termini di rappresentazioni discorsive o proposizionali e processi cognitivi definiti su di esse. (Pylyshyn considera queste rappresentazioni come frasi elaborate in un linguaggio di pensiero.)  

L’idea che le rappresentazioni pittoriche siano letteralmente immagini [pictures] nella testa non è presa seriamente dai sostenitori della visione pittorica delle immagini (vedi, ad esempio, Kosslyn & Pomerantz 1977). L’affermazione è, piuttosto, che il modo in cui rappresentano immagini mentali è rilevante quanto quello in cui rappresentano le immagini. (L’attenzione è stata focalizzata sulle immagini visive – da qui la designazione “pittorico”, anche se ovviamente possano esserci immagini anche in altre modalità – uditive, olfattive, ecc. – Vedi O’Callaghan 2007 per la discussione sulle immagini uditive.)

La distinzione tra rappresentazione pittorica e discorsiva può essere caratterizzata in termini di distinzione tra rappresentazione analogica e digitale (Goodman 1976). Questa stessa distinzione è stata intesa in vari modi (Fodor & Pylyshyn 1981, Goodman 1976, Haugeland 1981, Lewis 1971, McGinn 1989), sebbene un blocco ampiamente accettato sia che la rappresentazione analogica è continua (in virtù, vale a dire, delle proprietà continuamente variabili della rappresentazione), mentre la rappresentazione digitale è discreta (in virtù, cioè, delle proprietà che una rappresentazione possiede oppure no) (Dretske 1981). (Una distinzione analogico/digitale può essere fatta anche rispetto ai processi cognitivi. (Block 1983.)) Sulla base di questa comprensione della distinzione analogico/digitale, le rappresentazioni immaginarie, che rappresentano in virtù di proprietà che possono variare continuamente (come essere più o meno brillante, essere rumoroso, essere vivido, ecc.), sarebbero analogiche, mentre le rappresentazioni concettuali, le cui proprietà non variano continuamente (un pensiero non può essere più o meno su Elvis: o lo è o non lo è) sarebbero digitali.

Si potrebbe supporre che la distinzione pittorico/discorsivo possa essere posta più correttamente in termini di distinzione fenomenico/non fenomenico, ma non è ovvio che sia così. Per prima cosa, possono esserci proprietà non fenomeniche delle rappresentazioni che variano continuamente. Inoltre, ci sono modi di intendere la rappresentazione pittorica che non presuppongono né fenomenicità né analogia. Secondo Kosslyn (1980, 1982, 1983), una rappresentazione mentale è “quasi-pittorica” quando ogni parte della rappresentazione corrisponde a una parte dell’oggetto rappresentato, e le distanze relative tra le parti dell’oggetto rappresentato sono conservate tra le parti della rappresentazione. Ma le distanze tra le parti di una rappresentazione possono essere definite a livello funzionale anziché spaziale, ad esempio in base al numero di passaggi computazionali discreti richiesti per combinare le informazioni memorizzate su di esse. (Cfr. Rey 1981.)

Tye (1991) propone una teoria delle immagini secondo la quale esse sono rappresentazioni ibride, costituite sia da elementi pittorici che discorsivi. Secondo la spiegazione di Tye, le immagini sono “disposizioni [array] pieni di simboli interpretati (etichettati)”. I simboli rappresentano in modo discorsivo, mentre la loro disposizione in matrici ha un significato rappresentazionale (la posizione di ciascuna “cella” nella matrice rappresenta una specifica posizione in 2-D centrata sull’osservatore che si trova sulla superficie dell’oggetto immaginato).

Vedi la voce sulle immagini mentali https://plato.stanford.edu/archives/win2022/entries/mental-imagery/  per ulteriori discussioni.

6. La determinazione del contenuto

Il contenuto delle rappresentazioni mentali è spesso ritenuto essere un oggetto astratto (una proprietà, delle relazioni, degli insiemi, ecc.). Una domanda urgente, specialmente per un naturalista, è come le rappresentazioni mentali acquisiscano il loro contenuto. In questo caso il problema non è come naturalizzare il contenuto (poiché proprietà astratte non possono essere naturalizzate), ma, piuttosto, come specificare relazioni naturalistiche determinanti il contenuto che sussistono tra le rappresentazioni mentali e gli oggetti astratti che esprimono. Ci sono due tipi basilari di teorie naturalistiche per la determinazione del contenuto: le teorie causali-informative e le teorie funzionali [3]

Teorie causali-informative (Dretske q981, 1988, 1995) sostengono che il contenuto delle rappresentazioni mentali si fonda sulle informazioni che forniscono su cosa le causa (Devitt 1996) o le causerebbe (Fodor 1987, 1990a) [4]. Tuttavia, c’è una diffuso consenso che le sole relazioni causali-informative non siano sufficienti a determinare il contenuto delle rappresentazioni mentali. Queste relazioni sono comuni, mentre le rappresentazioni no. Tronchi d’albero, fumo, e telefoni che squillano trasmettono informazioni su ciò al quale sono legati causalmente, ma non rappresentano (nel senso pertinente) ciò sul quale trasmettono informazioni. Una rappresentazione mentale può essere causata da qualcosa che non rappresenta, e può rappresentare qualcosa che non l’ha causata, mentre nulla può essere causato da ciò che non l’ha causato.

I tentativi più importanti per specificare cosa rende uno stato causali-informativo una rappresentazione mentale sono le Teoria della Dipendenza Asimmetrica (e.g., Fodor 1987, 1990a, 1994) e le Teorie Teleologiche (Dretske 1988, 1995, Fodor 1990b, Millikan 1984, Neander 2017, Papineau 1987). Le Teorie della Dipendenza Asimmetrica distinguono relazioni semplicemente informative da relazioni rappresentazionali basandosi sulle relazioni di ordine superiore tra di loro: relazioni informazionali dipendono da relazioni rappresentazionali, ma non viceversa. Per esempio, se le occorrenze di un tipo di stato mentale sono correttamente causate dai cavalli, delle mucche di sera, delle zebre nella nebbia e degli alani possono fornire informazione sui cavalli, etc. ma se queste occorrenze sono causate dalle mucche di notte etc. perché sono state causate da dei cavalli, ma non viceversa, allora rappresentano cavalli (o la proprietà cavallo).

Secondo le Teorie Teleologiche, le relazioni rappresentazionali sono quelle che un meccanismo che produce rappresentazioni stabilisce tramite una funzione selezionata (dall’evoluzione o apprendimento). Per esempio, rappresentazioni di cavalli causate da zebre non significano zebra, perché il meccanismo che ha prodotto queste occorrenze ha la funzione di indicare i cavalli, non le zebre. Un maccanismo che produce rappresentazioni di cavalli rispondendo alle zebre sta funzionando male.

Vedi le voci su Teorie teleologiche del contenuto mentale [https://plato.stanford.edu/entries/content-teleological/] e Teorie causali del contenuto mentale [https://plato.stanford.edu/entries/content-causal/].

Le teorie funzionali (Block 1986, Harman 1973) sostengono che il contenuto di una rappresentazione mentale è determinato, almeno in parte, dalle sue relazioni (causali, computazionali, inferenziali) con altre rappresentazioni mentali. Non sono d’accordo se i relata dovrebbero includere tutte le altre rappresentazioni mentali, solo alcune o se includere stati di cose esterni. L’idea che il contenuto di una rappresentazione mentale è determinato dalle relazioni inferenziali/computazionali con tutte le altre rappresentazioni è detto olismo; l’idea che il contenuto è determinato da relazioni con solo alcuni stati mentali è detto localismo (o molecolarismo). (l’idea non funzionalista che il contenuto di uno stato mentale non dipende da alcuna delle sue relazioni con altri stati mentali è detta atomismo). Le teorie funzionaliste che non riconoscono alcun relata esteriore che determina il contenuto sono dette solipsiste (Harman 1987). Alcuni teorici suppongono ruoli distinti per connessioni interne ed esterne: le prime determinano proprietà semantiche analoghe al senso, le seconde determinano proprietà semantiche analoghe al riferimento (McGinn 1982, Sterelny 1989).

I rappresentazionalisti (riduzionisti) (Dretske, Lycan, Tye) di solito scelgono una di queste due teorie per dare una spiegazione del contenuto (non concettuale) degli stati esperienziali. Dunque, tendono ad essere esternasti (vedi la prossima sezione) a proposito del contenuto fenomenologico e anche quello concettuale. Dall’altra parte, fenomenalisti e rappresentazionalisti non riduzionisti (Block, Chalmers, Loar, Peacocke, Siewert) considerato che il contenuto rappresentazionale di questi stati sia determinato (almeno in parte) da proprietà fenomeniche intrinseche. Inoltre, anche quelli che difendono un approccio a carattere fenomenico per il contenuto concettuale (Horgan and Tienson, Kriegel, Loar, Pitt, Searle, Siewert) sembrano sottoscrivere ad un’individuazione internalista del contenuto (qualora non del riferimento) di questi stati.

I persistenti problemi di indeterminazione di teorie causali, informazionali e teleologiche della determinazione del contenuto hanno motivato un numero crescente di filosofi (analitici) a cercare un approccio diverso, fondato non su relazioni esterne degli stati rappresentazionali ma sulle loro proprietà fenomeniche intrinseche. Questo approccio è il cosiddetto “Programma di Ricerca dell’Intezionalità Fenomenica” (Kriegel 2013) o più semplicemente “Intenzionalità Fenomenica”. Questi filosofi (Bourget, Kriegel, Loar, Mendelovici, Montague, Pitt, Searle, Smithies (2012, 2013a e b, 2019), Strawson and Siewert inclusi), sostengono che le relazioni causali-informative e teleologiche non possono rendere atto del contenuto granulate e esatto che rappresentazioni concettuali e percettive possiedono e del fatto che questo contenuto può essere dato solo da teorie con carattere fenomenico. La tesi della fenomenologia cognitiva (discussa sopra) è una componente importante di questo approccio generale.

7. Internismo ed esternismo 

Generalmente coloro che, come i teorici dell’informazione, considerano che le relazioni con l’ambiente (naturale o sociale) determinino (almeno in parte) il contenuto delle rappresentazioni mentali sono esternisti, o anti-individualisti (e.g., Burge 1979, 1986b, 2010, McGinn 1977); mentre quelli che, come alcuni sostenitori delle teorie funzionali, considerano che il contenuto rappresentazionali sia determinato solamente dalle proprietà intrinseche dell’individuo, sono internisti (o individualisti; cf. Putnam 1975, Fodor 1981c) [5]

Il problema è generalmente considerato di estrema importanza poiché le spiegazioni psicologiche, siano queste del senso comune o scientifiche, sono considerate sia causali che fondate sul contenuto. (credenze e desideri causano i comportamenti che causano perché hanno i contenuti che hanno. Per esempi, il desiderio di prendere una birra e la credenza che c’è birra nel frigo e che il frigo è in cucina possono spiegare l’alzarsi e andare in cucina). Tuttavia, se avere una rappresentazione con un particolare contenuto dipende da fattori estrinsechi, non è chiaro come avere quel contenuto potrebbe determinare i suoi poteri causali, i quali sono plausibilmente sono intrinsechi (vedi Stich 1983, Fodor 1982, 1987, 1994). Qualcuno che accetta gli argomenti standard per l’esternismo ha proposto che fattori interni determinano una componente del contenuto delle rappresentazioni mentali. Argomentano che le rappresentazioni mentali hanno sia un contenuto “ristretto” (determinato da fattori intrinsechi) che un contenuto “largo” o “esteso” (determinato da fattori estrinsechi in aggiunta al contenuto stretto). (Nota: questa distinzione può applicarsi alle rappresentazioni sub-personali in scienze cognitive come a quelle nella psicologia del senso comune. Vedi von Eckardt 1993: 189.)

Il contenuto stretto è stato interpretato in vari modi. Ad esempio, Putnam (1975), Fodor (1982: 114; 1994: 39ff), and Block (1986: 627ff), sembrano considerarlo come simile al contenuto de dicto (i.e. il senso Fregeano o piuttosto carattere, à la Kaplan 1989). Secondo questa interpretazione, il contenuto ristretto è indipendente dal contesto e e direttamente esprimibile. Tuttavia, Fodor (1987) e Block (1986) hanno caratterizzato il contenuto ristretto come radicalmente inesprimibile. Secondo questa interpretazione, il contenuto ristretto è una sorta di proto-contenuto o determinante-del-contenuto, e può essere specificato solo indirettamente, attraverso specificazioni di accoppiamenti tra contesto e contenuto largo. Secondo entrambe le interpretazioni, i contenuti ristretto sono caratterizzati come funzioni da contesto dal contenuto (largo). Il contenuto ristretto di una rappresentazione è determinato da proprietà intrinseche ad essa o ai possessori, ad esempio la loro struttura semantica, intramentale o computazionale, o il loro ruolo inferenziale.

Burge (1986b) ha sostenuto che le preoccupazioni causali quanto all’individuazione del contento psicologico da parte degli esternisti e l’introduzione del contenuto ristretto non sono fondate. Fodor (1994, 1998) ha sostenuto più recentemente che una psicologia scientifica potrebbe non aver bisogno del contenuto ristretto per dare spiegazioni naturaliste (causali) della cognizione e delle azioni umane, poiché gli scenari per i quali sono state introdotte, viz. i casi delle Terre-gemelle e i casi Fregeani, sono o nomologicamente impossibili o si possono accantonare come eccezioni a leggi psicologiche non stringenti.

Le versioni di esternismo più diffuse prevedono che, nonostante i contenuti intenzionali siano determinati esternamente, le rappresentazioni mentali e gli stati mentali che costituiscono rimangano “nella testa”. Versioni più radicali sono possibili. Si può sostenere che poiché i pensieri sono individuati tramite i loro contenuti e alcuni sono contenuti costituiti parzialmente da oggetti esterni alla mente, allora alcuni pensieri sono parzialmente costituiti da oggetti esterni alla mente.

Secondo questa teoria, un pensiero singolare – i.e., un pensiero a proposito un oggetto particolare contiene letteralmente l’oggetto che riferisce. “Implica il suo oggetto”. Un pensiero del genere (e la mente che lo pensa) si estende oltre i limiti del cranio. (questa sembra essere articolata da McDowell 1986, dove c’è “interpenetrazione tra la mente e il mondo”.)

Vedi le voci su esternismo riguardo il contento mentale (https://plato.stanford.edu/entries/content-externalism/) e contenuto mentale ristretto (https://plato.stanford.edu/entries/content-narrow/).

Clark e Chalmers (1998) e Clark (2001, 2005, 2008) hanno sostenuto che le rappresentazioni mentali possono esistere interamente “fuori dalla testa”. Secondo la loro teoria, che chiamano “esternismo attivo”, i processi cognitivi (e.g. calcolare) possono essere realizzati in media esterni (e.g. una calcolatrice o carta e penna), e il “sistema combinato” della mente e dello spazio di lavoro esterno devono essere considerate come un sistema cognitivo – una mente – a pieno titolo. Le rappresentazioni simboliche su media esterni sarebbero così delle rappresentazioni mentali.

Il paper di Clark e Chalmers ha ispirato una letteratura fiorente sulla cognizione estesa, incarnata e interattiva. (Menary 2010 è una collezione recente di articoli. Vedi anche la voce sulla cognizione incarnata [https://plato.stanford.edu/entries/embodied-cognition/])

8. La teoria computazionale della mente

La versione contemporanea più importante della Teoria Rappresentazione della Mente, la Teoria Computazionale della Mente (TCM) afferma che il cervello è una sorta di computer e che i processi mentali sono computazioni. Secondo la TCM gli stati cognitivi sono costituiti da relazioni computazionali con rappresentazioni mentali di diverso tipo e che i processi cognitivi sono sequenze di questi stati.

La TCM sviluppa la TRM cercando di spiegare tutti gli stati psicologici e processi psicologici in termini di rappresentazioni mentali. Cercando di costruire teorie empiriche dettagliate della cognizione di esseri umani e altri animali e sviluppando modelli di processi cognitivi implementabili in sistemi artificiali che elaborano informazioni, gli scienziati cognitivi hanno proposto una varietà di tipi di rappresentazioni mentali. Mentre alcune di queste possono essere adatte a essere i relata mentali di stati psicologici del senso comune altri – le cosiddette rappresentazioni sub-personali o sub-doxastiche – non lo sono. Nonostante molti filosofi credano che la TCM possa dare la miglior spiegazione scientifica della cognizione e del comportamento c’è disaccordo se queste spiegazioni salveranno le spiegazioni psicologiche del senso comune della TRM prescientifica.

Ad esempio, secondo Stich (1983) Syntactic Theory of Mind, le teorie computazionali degli stati psicologici dovrebbero riguardare solamente proprietà formali degli oggetti coi quali questi stati sono in relazione. Per molti scienziati cognitivi è fondamentale premettere l’importanza esplicativa del contenuto (Fodor 1981a, Pylyshyn 1984, Von Eckardt 1993). Sono principi fondamentali della scienza cognitiva tradizionale che gli stati mentali siano computazioni, che le computazioni siano successioni di oggetti semanticamente valutabili governate da regole e che le regole si applicano ai simboli in virtù del loro contenuto.

In scienze cognitive le spiegazioni impiegano diversi tipi di rappresentazioni mentali inclusi, ad esempio, i “modelli mentali” di Johnson-Laird 1983, gli “array retinali” “le bozze primarie” e le “bozze 2½-D” di Marr 1982, le “cornici” di Minsky 1974, le strutture “sub-simboliche” di Smolensky 1989, le “quasi immagini” di Kosslyn 1980, e gli “array con simboli” di Tye 1991 – in aggiunta a rappresentazioni che possono essere appropriate a spiegazioni degli stati psicologici del senso comune. Sono state offerte spiegazioni computazionali delle credenze (Fodor 1975, 2008 Field 1978), della percezione visiva (Marr 1982, Osherson, et al. 1990), della razionalità (Newell and Simon 1972, Fodor 1975, Johnson-Laird and Wason 1977), dell’apprendimento e uso del linguaggio (Chomsky 1965, Pinker 1989), and comprensione musicale (Lerdahl and Jackendoff 1983) insieme ad altri fenomeni mentali.

Un disaccordo fondamentale tra i sostenitori della TCM riguarda la realizzazione delle rappresentazioni a livello personale (ad esempio, pensieri) e processi (ad esempio, inferenze) nel cervello. Il dibattito centrale qui è tra i sostenitori delle Architetture Classiche e i sostenitori delle Architetture Connessioniste.

I classicisti (ad esempio, Turing 1950, Fodor 1975, 2000, 2003, 2008, Fodor e Pylyshyn 1988, Marr 1982, Newell e Simon 1976) sostengono che le rappresentazioni mentali sono strutture simboliche, che tipicamente hanno costituenti semanticamente valutabili, e che i processi mentali sono manipolazioni governate da regole che sono sensibili alla loro struttura costitutiva. I connessionisti (ad esempio, McCulloch & Pitts 1943, Rumelhart 1989, Rumelhart e McClelland 1986, Smolensky 1988) sostengono che le rappresentazioni mentali sono realizzate da configurazioni di attivazioni in una rete di semplici processori (“nodi”) e che i processi mentali consistono nella attivazione diffusa di tali configurazioni. I nodi stessi, in genere, non sono considerati semanticamente valutabili; né i modelli hanno componenti semanticamente valutabili. (Sebbene esistano versioni del connessionismo – versioni “localiste” – in cui si ritiene che i singoli nodi abbiano proprietà semantiche (ad esempio, Ballard 1986). Si può dire, tuttavia, che le teorie localiste non siano né definitive né rappresentative del programma connessionista (Smolensky 1988, 1991, Chalmers 1993).)

I classicisti sono motivati (in parte) dalle proprietà che il pensiero sembra condividere con il linguaggio. L’ipotesi del Mentalese (IM) di Fodor (Fodor 1975, 1987, 2008), secondo la quale il sistema di simboli mentali che costituisce la base neurale del pensiero è strutturato come un linguaggio, fornisce una versione ben elaborata dell’approccio classico applicata alla psicologia del senso comune. (Cfr. anche Marr 1982 per un’applicazione dell’approccio classico in psicologia.) Secondo la IM, l’infinità potenziale di stati mentali rappresentativi complessi è generata, secondo regole di formazione ricorsive, da uno stock finito di stati rappresentativi primitivi. Questa struttura combinatoria rende conto delle proprietà di produttività e sistematicità del sistema di rappresentazioni mentali. Come nel caso dei linguaggi simbolici, compresi i linguaggi naturali (sebbene Fodor non supponga né che la IM spieghi solo le capacità linguistiche o che solo le creature verbali abbiano questo tipo di architettura cognitiva), queste proprietà del pensiero sono spiegate facendo appello al contenuto delle unità rappresentative e alla loro combinabilità in complessi contenutistici. Cioè, la semantica sia del linguaggio che del pensiero è composizionale: il contenuto di una rappresentazione complessa è determinato dai contenuti dei suoi costituenti e dalla loro configurazione strutturale. (Vedi, ad esempio, Fodor e Lepore 2002.)

I connessionisti sono motivati principalmente da una considerazione dell’architettura del cervello, che apparentemente consiste in reti stratificate di neuroni interconnessi. Essi sostengono che questo tipo di architettura non è adatto per eseguire calcoli seriali classici. Per prima cosa, l’elaborazione nel cervello è tipicamente massicciamente parallela. Inoltre, gli elementi la cui manipolazione guida il calcolo nelle reti connessioniste (principalmente, le connessioni tra i nodi) non sono né semanticamente composizionali né semanticamente valutabili, come lo sono nell’approccio classico. Questo contrasto con il computazionalismo classico è spesso caratterizzato dall’affermazione che la rappresentazione è, rispetto alla computazione, distribuita anziché locale: la rappresentazione è locale se è computazionalmente basilare; e distribuito se non lo è. (Un altro modo per dirlo è dire che per i classicisti le rappresentazioni mentali sono computazionalmente atomiche, mentre per i connessionisti non lo sono.)

Inoltre, i connessionisti sostengono che l’elaborazione delle informazioni così come avviene nelle reti connessioniste assomiglia di più ad alcune caratteristiche del funzionamento cognitivo umano reale. Ad esempio, mentre nella visione classica l’apprendimento comporta qualcosa come la formazione e la verifica di ipotesi (Fodor 1981c), nel modello connessionista si tratta di una distribuzione in evoluzione dei “pesi” (intensità) sulle connessioni tra i nodi, e tipicamente non comporta la formulazione di ipotesi sulle condizioni di identità degli oggetti conosciuti. La rete connessionista viene “addestrata” dall’esposizione ripetuta agli oggetti che deve imparare a distinguere; e, sebbene le reti in genere richiedano molte più esposizioni agli oggetti rispetto agli umani, questo sembra modellare abbastanza bene almeno una caratteristica di questo tipo di apprendimento umano. (Cfr. l’esempio del sonar in Churchland 1989.)

Inoltre, il peggioramento delle prestazioni di tali reti in risposta al danno è graduale, non improvviso come nel caso di un elaboratore di informazioni classico, e quindi modella in modo più accurato la perdita della funzione cognitiva umana come si verifica tipicamente in risposta ad un danno cerebrale. A volte si afferma anche che i sistemi connessionisti mostrino il tipo di flessibilità in risposta a nuove situazioni tipiche della cognizione umana – situazioni in cui i sistemi classici sono relativamente “fragili” o “delicati”.

Alcuni filosofi hanno sostenuto che il connessionismo implica l’assenza di atteggiamenti proposizionali. Ramsey, Stich e Garon (1990) hanno sostenuto che se i modelli di cognizione connessionisti sono fondamentalmente corretti, allora non ci sono stati rappresentazionali discreti come quelli concepiti nella psicologia del senso comune e nella scienza cognitiva classica. Altri, tuttavia (ad esempio, Smolensky 1989), sostengono che alcuni tipi di pattern di attività di alto livello in una rete neurale possono essere approssimativamente identificati con gli stati rappresentazionali della psicologia del senso comune. Altri ancora (ad esempio, Fodor & Pylyshyn 1988, Heil 1991, Horgan e Tienson 1996) sostengono che la rappresentazione in stile mentalese sia necessaria in generale e realizzabile specificamente nelle architetture connessioniste. (MacDonald & MacDonald 1995 raccoglie gli articoli contemporanei centrali nel dibattito classicista/connessionista, e fornisce anche utile materiale introduttivo. Vedi anche Von Eckardt 2005.)

Mentre Stich (1983) accetta che i processi mentali siano computazionali, nega che le computazioni siano sequenze di rappresentazioni mentali; altri accettano la nozione di rappresentazione mentale, ma negano che la TCM fornisca la descrizione corretta degli stati e dei processi mentali.

Van Gelder (1995) nega che i processi psicologici siano computazionali. Sostiene che i sistemi cognitivi sono dinamici e che gli stati cognitivi non sono relazioni con simboli mentali, ma stati quantificabili di un sistema complesso costituito (nel caso degli esseri umani) da un sistema nervoso, un corpo e l’ambiente in cui sono inseriti. I processi cognitivi non sono sequenze governate da regole di stati simbolici discreti, ma stati totali continui ed in evoluzione di sistemi dinamici determinati da stati continui, simultanei e reciprocamente determinanti dei componenti dei sistemi. La rappresentazione in un sistema dinamico è essenzialmente una teoria dell’informazione classica, sebbene i portatori di informazione non siano simboli, ma variabili o parametri. (Vedi anche Port e Van Gelder 1995; Clark 1997a, 1997b, 2008.)

Horst (1996), d’altra parte, sostiene che sebbene i modelli computazionali possano essere utili in psicologia, non sono di alcun aiuto per raggiungere una comprensione filosofica dell’intenzionalità degli stati mentali del senso comune. La TCM tenta di ridurre l’intenzionalità di tali stati all’intenzionalità dei simboli mentali con cui sono in relazione. Ma, afferma Horst, la nozione rilevante di contenuto simbolico è essenzialmente legata alle nozioni di convenzione e intenzione. Quindi la TCM implica una circolarità viziosa: le stesse proprietà che dovrebbero essere ridotte sono (tacitamente) invocate nell’operazione di riduzione.

Vedi le voci sulla teoria computazionale della mente [https://plato.stanford.edu/entries/computational-mind/] e del connessionismo [https://plato.stanford.edu/entries/connectionism/].

9. Pensiero e linguaggio

Affermare che un oggetto mentale ha delle proprietà semantiche è affermare, paradigmaticamente, che riferisce a, è vero di o falso di, un oggetto o più, o che è vero o falso simpliciter. Se penso alla democrazia e se quello che penso a proposito della democrazia è vero (ad esempio che sta morendo) allora il mio pensiero è vero. Secondo la TRM questi stati devono essere spiegati come relazioni tra agenti e rappresentazioni mentali. Pensare che la democrazia sta morendo è, in qualche modo, indicare una rappresentazione mentale il cui contenuto è che la democrazia sta morendo. Secondo questa teoria, le proprietà semantiche degli stati mentali sono proprietà semantiche delle rappresentazioni con le quali intrattengono relazioni.

Gli atti linguistici sembrano condividere queste proprietà con gli stati mentali. Supponiamo che io dica che la democrazia sta morendo. Sto parlando della democrazia e se dico qualcosa di vero a proposito della democrazia (che sta morendo) il mio enunciato è vero. Dire che la democrazia sta morendo è (in parte) dire una frase che significa che la democrazia sta morendo. Molti filosofi hanno pensato che le espressioni linguistiche ereditino proprietà semantiche dagli stati mentali intenzionali che convenzionalmente esprimono (Grice 1957, Fodor 1978, Schiffer1972/1988, Searle 1983). In questa visione le proprietà semantiche delle espressioni linguistiche sono proprietà semantiche delle rappresentazioni che sono relata mentali degli stati che convenzionalmente esprimono. Notoriamente, Fodor ha sostenuto che questi stessi stati mentali hanno una struttura simile a quella del linguaggio. (vedi la voce sul mentalese [https://plato.stanford.edu/entries/language-thought/])

(Altri, tuttavia, e.g., Davidson (1975,1982) hanno suggerito che il tipo di pensiero del quale gli esseri umani sono capaci non è possibile senza linguaggio, di modo che la relazione di dipendenza può essere invertita o è in qualche modo mutuale (vedi anche Sellars 1956). (Ma vedi anche Martin (1987) per una difesa dell’affermazione che il pensiero è possibile anche senza linguaggio. Vedi anche Chisholm and Sellars 1958.) Schiffer (1987) si è in seguito disperato del successo di quello che lui chiama “Intention-Based Semantics”.

Oltre ad avere proprietà come il riferimento, le condizioni di verità e la verità – le cosiddette proprietà estensionali –  è anche ampiamente accettato che le espressioni del linguaggio naturale abbiano anche proprietà intensionali in virtù dell’esprimere proprietà o proposizioni – i.e., in virtù dell’avere significati o sensi, nel caso in cui due espressioni possano avere lo stesso riferimento, condizioni di verità o valore di verità e tuttavia esprimere differenti proprietà o proposizioni (Frege 1892/1997). Se le proprietà semantiche delle espressioni del linguaggio naturale sono ereditate dal pensiero e dai concetti che esprimono (viceversa o da entrambi) allora una distinzione analoga può essere appropriata anche per le rappresentazioni mentali.

Note da sezione 6 a 9:

[3] Nonostante queste teorie fossero state introdotte per spiegare il contenuto degli stati psicologici di senso comune, esse possono (almeno in linea generale) anche servire come teorie della determinazione del contenuto per i vari tipi di stati informazionali sub-personali postulati dalle scienze cognitive.

[4] Un sistema rappresentazionale è produttivo se ci sono una quantità indefinitamente numerosa di rappresentazioni che possono costruirsi in esso; ed è sistematico nella costruibilità di alcune rappresentazioni se è intrinsecamente connesso alla costruibilità di altre rappresentazioni.

[5] nonostante Putnam 1975 si frequentemente citato come il locus classicus dell’esternismo psicologico, gli argomenti lì presentati sono in favore dell’esternismo linguistico – i.e., la posizione secondo la quale i significati di alcuni termini non sono completamente determinati dai contenuti delle rappresentazioni mentali delle quali di solito sono espressione.  Nell’esperimento mentale di Putnam i gemelli sono duplicati psicologici. (Anche se, come molti hanno notato (e.g., Burge 1979) le situazioni Terra-Gemella possono essere interpretate anche a supporto di una conclusione psicologica.)

Note da sezione 1 a 5: (TRADURRE)

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